Volti, paure, sogni, utopie. Una passeggiata da liberi a Roma
A tu per tu con la nuova normalità che non ha ancora nulla di normale
La bella stagione esplode insieme a questa strana mezza riapertura, con i vaghi caratteri d’una sommossa. Abbiamo pazientato per due mesi, ora basta, dicono le violette spuntando dai balconi e dalle terrazze fiorite. Il primo raggio di autentico sole arriva come un telegramma, più drammatico, come un mandato di cattura, altro che i Dpcm di Giuseppe Conte. I romani infatti erano già fuori, già rivoluzionari da alcuni giorni, su viale Libia, a piazza Zama e a piazza Ragusa. Solo che lunedì in tanti sono tornati anche a lavorare. E allora allarga le braccia il sor Donato, il falegname di via Clementina, a Monti. “Oggi abbiamo riaperto”, dice con una sorta di filosofico relativismo, di esistenziale margine da concedere all’incognito. “Vediamo che succede”, aggiunge, ora che lui ha ritrovato il solito abito grigio sporco, da lavoro, affacciato com’è dalla sua piccola bottega del centro storico: odore di colla e di resina. Sorride. Poi, in un impeto spontaneo tende anche la mano al suo vicino di casa venuto a salutarlo. Sospensivo imbarazzo. E’ un lampo, un attimo, una frazione del pensiero, un codice impercettibile dello sguardo: sarà pericoloso stringersi la mano? Ma no. O forse sì.
Ci si muove pieni di carezzevoli aspettative, miste a una certa qual apprensione. La cosa peggiore è l’idea che a tradirci potrebbe essere l’ottimismo, l’affetto, la spontaneità, l’amicizia, quel genere di sentimenti che tutti amiamo al di sopra di ogni cosa.
L’idea della liberazione definitiva, del liberi tutti, si avvicina rotolando giù per un terreno fatalmente liscio. E forse non la si può fermare, come quando ti trovi in piedi sul ghiaccio: sdrucciolevole e senza appigli. I dati del bollettino diffuso dalla Protezione civile parlano ancora di 174 morti risultati positivi al Covid-19. Ma sul bancone di acciaio della pescheria Galluzzi, in via Venezia, alle spalle del Viminale, le zampe delle aragoste si allungano e si ritraggono con le stesse misteriose intenzioni che hanno per strada i romani mentre riscoprono la loro città.
Come a un segnale, le strade si sono infatti annerite di gente, di veicoli e di fatti. Ci sono i romani che vanno al lavoro, e quelli che semplicemente sono a spasso. Ma tutti camminano come sonnambuli, assaporando quasi con delizia gli odori, i colori, i suoni, le immagini che fanno dolce la vita: il profumo dei cornetti appena sfornati alla pasticceria Regoli in via dello Statuto, una ragazza che si gratta la schiena, un’altra che si aggiusta le calze corte sulla caviglia scoperta a Piazza Vittorio, il pianto di un bambino in culla, il lampo del sole riflesso nel vetro d’una finestra su via Nazionale. A fontana di Trevi, a piazza del Popolo e a Trinità dei Monti, i romani si fanno i selfie davanti ai monumenti. Sembra incredibile. Turisti a casa propria. Camminano con lo sguardo rivolto all’insù, come sopraffatti da una bellezza che prima davano per scontata. Ammazza quanto sei bella Roma, anche quanno non è sera!
A due passi dalla Camera dei deputati, il bar Giolitti vende il suo primo gelato dopo due mesi. Sono le 11 e 22 del mattino. C’è da festeggiare. Fragola e limone. Panna? No grazie. 2 euro e 50. Uno scontrino che è anche un evento. Quanti caffè da asporto oggi? “Solo quindici”. Venti al Caffè Sant’Eustachio. Trenta al bar La Licata di via dei Serpenti. “Ma oggi chiudiamo alle 14. Bisogna vedere quanta clientela c’è. Regoleremo gli orari in base alla domanda”. Roma città aperta, dunque. Anzi, mezza aperta. Praticamente semichiusa. Regole, interpretazioni, mascherine. A piazza Re di Roma, davanti al supermercato “il mercato del bio”, un anziano chiede qualcosa a un agente di polizia, forse vuole conoscere la corretta interpretazione dell’ultimo Dpcm. E il poliziotto, così magnificamente italiano: “Secondo me si può, ma forse non si può”.
In piazza di Spagna l’enorme volto di Will Smith, infagottato nel piumino Moncler che reclamizza, è incongruo sotto il caldo sole di maggio. E’ quasi un reperto archeologico. E’ rimasto appeso lì tutto questo tempo. Un fossile, come la grande bandana gialla appesa sull’Ara Pacis. “C’era una volta Sergio Leone. In mostra dal 17 dicembre al 3 maggio 2020”. Frammenti d’un tempo scaduto. Come la giacca non finita esposta alla vetrina della boutique di Cornelliani, in via del Babbuino. Come l’annuncio “vendita promozionale” che ancora campeggia sulla vetrina chiusa di Maesano, in via Fontanella Borghese. In via del Corso, in via Frattina, fino al quartiere Trieste e all’Africano, i negozi sono tutti chiusi. Serrande abbassate. Un bollettino di guerra. Le vetrine sono qualcosa che è rimasto sospeso, quasi i coriandoli di carnevale ancora per terra di fronte al Viscontino, la prestigiosa scuola elementare di via Quattro Novembre. Sembra di poter sentire le risate e le voci argentine dei bimbi, che qui però non ci sono più.
Ma il 4 maggio 2020 sarà forse una data memorabile nella storia di Roma, d’Italia. Segna forse l’inizio della liberazione dall’angoscia. La parziale riconquista d’una precaria e nuova normalità, che tuttavia non ha nulla di normale, tanto per cominciare perché la si respira con avidità attraverso la mascherina ffp2 che appanna gli occhiali e che alla farmacia del Viminale vendono in confezioni da cinque: trentasette euro e cinquanta, prego.
Bisogna tenere se stessi continuamente d’occhio, bisogna essere gli sbirri di se stessi: non toccare il poggiamano sulle scale della metro, se lo tocchi mettiti prima i guanti, ma poi con i guanti non grattarti gli occhi… Cambia anche la scenografia del degrado monnezzaro romano. I guanti in lattice gettati per strada sostituiscono ormai i volantini pubblicitari e le bottigliette d’acqua un tempo abbandonate da quei turisti maleducati che sono scomparsi e chissà quando ritorneranno.
Di buon mattino nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme si celebra un funerale. La chiesa è una montagna vuota e inaccessibile. Il prete sta dentro, da solo, con la bara, mentre quindici persone dolenti e distanziate, venute dal vicino quartiere Appio Tuscolano, dalla zona di via La Spezia, attendono alla cerimonia, ma fuori. Sul sagrato. E’ come se qualcosa d’impercettibile e di fatale fosse cambiato per sempre. Con un sospetto insieme funebre e vitale. Tutto sembra ricordarci che il mondo della sicurezza era un castello di sogni. Eppure lo abbiamo abitato come una casa di pietra, mai una tempesta o anche solo un’impetuosa ventata faceva irruzione nella nostra tiepida, comoda e sicura esistenza. E Roma allora resta così, in bilico, tra virus e riapertura, paura e primavera, precauzioni e faciloneria. Contrasti.
Al Caffè Valentini di piazza Tuscolo si fa la fila per l’espresso. Cartello: “Per entrare è necessario avere mascherina e guanti”. Una signora si rivolge al titolare del bar: “Ma io i guanti non ce li ho”. E lui, che controlla da fuori: “E io non glieli ho chiesti”. D’altra parte, per strada, si vedono mascherine portate nei modi più fantasiosi: larga a mezza bocca, libera sul naso, calata sul collo, quasi un foulard, oppure calcata sulla fronte, come si fa con gli occhiali da sole. Poi però le stesse persone che non portano la mascherina crivellano di sguardi un tipo che, su via Gallia, starnutisce e strombazza succosamente nel fazzoletto. Loro lo guardano male. E il cartellone pubblicitario delle pompe funebri Exequia non aiuta, né pare di buon auspicio: “Funerale completo a euro 1.250 con bara in omaggio”. Eppure l’uomo raffreddato non si scompone. Anzi. Intercetta l’unico sorriso compassionevole che gli si poggia addosso (ma da una distanza superiore ai due metri). E in un lampo una battuta: “E’ che non so’ più abituato ar sole”.
Insomma una Roma nuova, eppure vecchia. Le automobili sono tornate, e con loro l’uso sbrigliato del clacson. La stazione della metropolitana di piazza di Spagna, malgrado sia stata disertata dalla sua clientela per quasi due mesi, è esattamente come era prima. Forse peggio. La parte sinistra dell’ingresso è sbarrata da un nastro giallo penzolante che porta le insegne della polizia municipale. Delle gocce d’acqua lurida filtrano dal soffitto poroso e scrostato, precipitano a terra, con ritmo lugubre, mentre un caldo e viscido odore trafigge le narici protette dal filtro a carboni attivi della mascherina. Gli sciatti e irregolari cerchi che dovrebbero garantire il distanziamento sulle banchine della metro non sono necessari (ammesso servissero a qualcosa): c’è poca gente, anche in ora di punta. A San Giovanni, a Termini, a Castro Pretorio. Ma appena il treno si anima un po’ – bastano 25 persone nel vagone – s’intuisce che la vecchia e cadente metro B è molto meglio della più moderna metro C. Scalcinata com’è, ha però i finestrini e non la pericolosa aria condizionata con il ricircolo d’aria. E’ anche per questo che seicentomila romani sono tornati a lavoro in automobile, intasando la tangenziale.
“Comincia una fase di convivenza con il virus, serve responsabilità”, ha detto Conte. Roma oggi abbaglia e promette fortuna. Lo stato di quarantena è durato due mesi. Facile da scrivere, appena sette lettere. Facile da dire: due mesi, tre sillabe. Ma nessuno è forse in grado di descrivere, di misurare, di dimostrare, né ad altri né a se stesso, quanto può essere lungo un tempo fuori dal tempo. E per questo ora ci si infila nei bar e in metropolitana con una sorta di strana sensazione, tra la timidezza e l’entusiasmo. Ma tutto ciò rappresenta anche un pericolo. Forse l’apertura è stata troppo rapida? Forse le cose non sono state organizzate bene? Che succederà quanto non saranno più solo i bar e alcuni ristoranti a riaprire? “Vedremo che succede”, dice il falegname Donato. Mentre tende una mano senza guanto, che ha l’aspetto di una tremenda incertezza.
Abituati alla tragedia