Piazza San Marco invasa dall'acqua (foto LaPresse)

Venezia e la laguna, un delicato ingranaggio rotto da onde luride e veloci

Sofia Silva

Per secoli la città ha seguito politiche sagge e severe nell’equilibrio tra uomo e natura. Poi qualcosa si è spezzato

La sensazione è che si sia rotto un patto. Nelle lacrime dei veneziani, quelli rimasti in città e quelli che hanno compiuto l’esodo nell’entroterra, oltre all’amarezza per i morti e gli incendi, per le imbarcazioni danneggiate, le vetrine frantumate, i depositi allagati e per San Marco e le chiese invase dalle acque, si avverte il dolore derivante dalla rottura della diathekeē tra Venezia e il Mare. La sensibilizzazione ambientale educa la coscienza e l’azione, ma non prepara l’uomo a quel sentimento lacerante e antico dato dalla rottura del patto. Lo sposalizio del mare, l’atto di desponsatio tra Venezia e il suo signore Adriatico, nasce da antichi culti di benedizione in cui venivano offerti doni alle acque – ori, anelli, reliquie – per ammansirle e propiziarle; quelle stesse acque, oggi invase dalla carcassa del Modulo sperimentale elettromeccanico, sono arrivate a terrorizzare persino i ratti della città, che le conoscevano e amavano. 

 

In questi giorni camminando per le calli si possono incontrare ratti spauriti e immobili che hanno trovato rifugio sulla cima di qualche palina, i pali da ormeggio. Predrag Matvejevicć raccontava che i monaci per difendere ciò che rimaneva dell’isola di San Marco in Boccalama, “avevano adagiato sul fondo fangoso due imbarcazioni vecchie, sì, ma integre perché servissero a difendere la terraferma dall’elemento acqueo”: un Modulo sperimentale elettromeccanico ante litteram (e c’è più di una ragione se non lo chiamo Mose). San Marco in Boccalama è oggi sommersa.

 

Sedendo al caffè, laddove ci si può sedere, si ascoltano avventori di ogni età pronunciare nelle più strette cadenze venete innumerevoli teorie sulla protezione dall’acqua alta e quasi tutte, almeno agli orecchi di un profano, sembrano dettate dal buon senso. “Bisogna scavare, non i canali, ma al largo da qui, scavare dove un tempo c’erano le isole sommerse, perché l’acqua possa trovare nuovo spazio. Con quel fango bisogna costruire colline. Non si deve allontanare l’acqua, ma darle un posto dove raccogliersi”; questo mi è stato detto da un esercente con le gote in fiamme.

 

Ricordo una mattina d’autunno di otto anni fa, l’acqua arrivava al secondo gradino della scala del mio androne. Spalancai il portone d’ingresso lamentandomi del freddo ai piedi che le galosce non riuscivano a scaldare. Vidi davanti a me un bambino di tre o quattro anni, con gli occhi a mandorla, cicciotto, cinto interamente da una tuta di gomma; fluttuava nell’acqua mentre i genitori a qualche passo di distanza consultavano la cartina della città. Quel bambino mi fece ridere, sembrò benedire la mia giornata, le acque erano salite per giocare con lui. Le stesse onde oggi sono luride, veloci, divelgono e portano con sé qualsiasi genere di resto organico o inorganico; i veneziani hanno passato la notte di rabbia e aqua granda alla finestre, assistendo alle ronde dei volontari della Protezione civile, con i water e le prese della corrente che gettavano fiumi.

 

Nel 1967 Giulio Obici, inviato di Paese Sera, scrisse Venezia fino a quando? (ed. Marsilio) dove si racconta l’alluvione del 1966: “Calata la precoce notte di novembre, bloccate le luci, rotto ogni contatto con il mondo che non fosse quello delle radiole a transistor, che tuttavia non restituivano ai veneziani un’immagine probabile della loro vicenda, si attese l’ultima prova a cui la città e la sua laguna erano chiamate. […] Stavolta la minaccia non sorvolava la città: vi si era installata e vi maturava; non veniva da fuori per poi seguire prevedibili migrazioni, ma muoveva dal di dentro, dal corpo stesso di Venezia, e per giunta aveva acquisito i caratteri di un fenomeno inarrestabile. […] Verso sera, tutti avvertirono che un equilibrio plurisecolare si era rotto, che la città e la laguna avevano smarrito un anello, chi sa quale, del loro delicato ingranaggio”.

 

Per secoli la Repubblica di Venezia ha seguìto politiche sagge e severe nell’equilibrio tra uomo e natura a livello sociale, economico, architettonico, ambientale (nel Cinquecento si erano già studiati gli effetti del disboscamento di territori relativamente lontani sulla laguna; per un approfondimento di questo tema nella storia si consiglia la lettura di Venezia e le acque. Una metafora planetaria, di Piero Bevilacqua, ed. Donzelli, 1998); negli anni Sessanta Obici paragonava l’acqua alta a una guerra priva di nemico, endogena; oggi che il nemico è stato ritrovato e che di certo non è l’Adriatico, l’arrabbiato dolore dei veneziani soggiace alla lentezza di una strategia che non emerge. Più del mare, invincibile sembra il tempo.

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