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Virginia Raggi ha già le sue pecore, ma le ha dimenticate

Massimo Solani

Il Campidoglio, pochi lo sanno, assieme alla Regione Lazio è proprietario di due aziende agricole abbandonate e in stato di degrado

Non c’entra la decrescita felice, l’ambientalismo o il risparmio. E’ questione di vocazione. Del resto con i suoi 50mila ettari coltivati Roma è il più grande comune agricolo di Roma. Per questo la proposta dell’assessore Pinuccia Montanari di utilizzare pecore, capre e mucche per “brucare” l’erba delle ville storiche della Capitale, cresciuta ben oltre il metro dopo mesi di abbandono da pare del Servizio Giardini del Campidoglio, ironie a parte non ha suscitato più di tante reazioni. Sarà per l’assuefazione dei romani a certe uscite folkloristiche (tipo l’ordinanza per l’uso di prodotti biologici per la disinfestazione soltanto contro le larve di zanzara, non gli esemplari adulti) o sarà per il disincanto per una città che fra buche, alberi che cadono, immondizia e degrado sembra avviata verso un declino inarrestabile. Di certo, però, l’idea di veder scorrazzare per i parchi cittadini centinaia di pecore e capre “al lavoro”, tralasciando gli aspetti sanitari e igienici del loro passaggio, non ha turbato quasi nessuno. Di sicuro a nessuno sembra aver riportato alla mente l’esperienza poco felice che il Comune di Roma ha già maturato in tema di allevamento, cura e sfruttamento degli animali.

  

Il Campidoglio, pochi lo sanno, assieme alla Regione Lazio è infatti proprietario di due aziende agricole: quella di Castel di Guido sull’Aurelia, 2000 ettari fra resti archeologici etruschi e romani, la metà dei quali di bosco dove pascolano circa 600 mucche fra frisone e maremmane nei pressi di un’oasi Lipu e prati di erba medica, foraggere e mais irriguo, e quella di Tenuta del Cavaliere a Lunghezza dove sono allevati circa 270 capi di bestiame, una settantina dei quali in latteria, fra campi coltivati a cereali. Un patrimonio che un secolo fa apparteneva al Pio Istituto del S. Spirito, nato nel 1896 dalla fusione dei vari istituti ospedalieri romani per la cura e l’assistenza degli infermi, e che dal 1978 è passato al Comune di Roma con lo scioglimento degli Enti Ospedalieri. Per anni le due aziende hanno portato avanti una produzione di grande qualità, soprattutto casearia, e i punti vendita di formaggi e carne hanno riscosso sempre molto successo. Come anche il latte venduto alla Centrale del Latte. Le cose, però, col passare del tempo sono rapidamente cambiate e da anni le due aziende versano in condizioni molto difficili, con un buco di bilancio che si aggrava di quasi un milione di euro a ogni gestione. Colpa soprattutto dei costi per l’acquisto del foraggio per nutrire il bestiame, cresciuto fino a livelli di insostenibilità economica. Già nel 2015, infatti, alcune inchieste giornalistiche avevano testimoniato lo stato di abbandono e degrado delle strutture delle due aziende. Poi, nell’agosto del 2017, la prima grande crisi quando la Forestale si è presentata a Castel di Guido per sequestrare le stalle e 86 capi di bestiame per le “cattive condizioni degli animali e l’inadeguatezza delle strutture di detenzione”. Una situazione che era nota da tempo alla sindaca Virginia Raggi visto che a Castel di Guido c’erano stati molti sopralluoghi delle forze dell’ordine e che delle condizioni degli allevamenti si erano interessati assieme alle associazioni animaliste anche il consigliere della commissione capitolina Ambiente Daniele Diaco e l’allora parlamentare M5S Paolo Bernini. Inoltre, sotto la giunta Marino, la stessa Virginia Raggi assieme a Daniele Frongia e Marcello De Vito aveva votato due mozioni in cui si dicevano a conoscenza dello stato delle aziende chiedendone il rilancio e la stabilizzazione del personale. “L'amministrazione capitolina ha approvato una memoria di Giunta in cui si sono evidenziate gravi criticità – intervenne la sindaca via Facebook proprio (guarda caso) alla vigilia del blitz della Forestale - In particolare, i metodi convenzionali di allevamento intensivo che hanno provocato, e provocano ancora oggi, sofferenze agli animali presenti in queste aziende. Occorre individuare soluzioni alternative, fino alla dismissione degli allevamenti. Allo stesso tempo, occorre valorizzare le aziende agricole attraverso un loro uso multifunzionale”.

  

Era il 12 agosto 2017 e ad oggi la situazione non è cambiata di molto. Nelle due aziende lavorano 27 persone, i punti vendita sono ancora chiusi, i conti sono sempre in rosso e il Campidoglio ha deciso di cedere alcune centinaia di capi di bestiame “per la riduzione delle perdite economico-finanziarie fino al raggiungimento del pareggio di bilancio”. Insomma, secondo il Comune la vendita è necessaria “per assicurare l’economicità di entrambe le aziende fino al 31 dicembre 2018”. Non va meglio per quanto riguarda il rilancio delle attività, visto che nelle strutture manca personale e il Campidoglio fin qua non è stato in grado di selezionare le figure adatte. Un primo bando per l’assunzione a tempo determinato di 24 “operatori agricoli” è sostanzialmente fallito, 4 candidature presentate due assunzioni, mentre per la successiva selezione di 40 figure da inquadrare a tempo indeterminato la pratica è ancora ferma negli uffici del Campidoglio.

  

“L'agricoltura deve tornare al centro dell'agenda cittadina”, ha sostenuto la sindaca Raggi. Per ora, di certo, con l’allevamento non è andata benissimo. Sarà davvero conveniente allora “arruolare” centinaia di pecore e capre per brucare l’erba delle ville pubbliche della Capitale? O non sarebbe meglio e più economico far funzionare, semplicemente, gli uffici giardini del Comune e il loro personale?

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