Mori e Ultimo, storia parallela di due carabinieri diversi

Salvatore Merlo

Le vite intrecciate e parallele del comandante e del suo braccio operativo. I due uomini che il 15 gennaio 1993 scovarono e arrestarono Totò Riina al termine d’una rocambolesca indagine. Divisa, processi e politica

Il più anziano, il generale a riposo, si è da tempo avvicinato a Giovanni Negri, alla cultura radicale dei diritti e della passione civile, alla Marianna che è il simbolo della libertà costituzionale e democratica, mentre il più giovane colonnello pare stia soppesando una proposta di candidatura con Giorgia Meloni, la capa della destra che già nel 2013, a Camere riunite, lo fece votare dai deputati e senatori di Fratelli d’Italia come presidente della Repubblica. E così, anche se non si assomigliano e anzi sono poli opposti e filosofie in contrasto, sembra fatale che restino intrecciati i destini di questi due carabinieri, come sempre, come fin qui è stato. Il comandante e il suo braccio operativo, i due uomini che il 15 gennaio 1993 scovarono e arrestarono Totò Riina al termine d’una rocambolesca indagine, i due militari che insieme, senza mai rinnegarsi, finirono sotto processo, e che sempre insieme, comandante e subordinato, mentore saggio e allievo sfrenato, furono scagionati da una stagione d’infervorato furore giudiziario, dai fumi della Trattativa, dai deliqui d’una stella giudiziaria resa incandescente da Antonio Ingroia e da Massimo Ciancimino.

 

Entrambi nel centrodestra, dunque, adesso, ed entrambi a un passo dalla politica, ma l’uno con i Radicali di destra e l’altro con la destra radicale, l’uno con la sua andatura rigida e disciplinata nel corpo piccolo e composto, con la sua intelligenza quadrata, ordinata linearmente, da uomo dello stato, e l’altro con i capelli tagliati alla mohicana, il piglio da ardito al servizio del popolo, il passamontagna e il bavaglio del Subcomandante Marcos, gli occhi liquidi e la lingua sbrigliata, convinto d’avere una missione per conto dell’Assoluto, della Verità, della Popolo, tutto al maiuscolo, come i suoi pensieri.

 

Quando l’accusavano di un’infamia, d’aver collaborato con Cosa nostra, di non aver voluto arrestare Provenzano, il piccolo generale dalla voce flebile trovava gli accenti dell’ufficiale educato in accademia militare, nei secoli fedele, “ho sempre fatto il mio dovere, ho sempre servito lo stato anche se a volte accadono cose che non fanno piacere, ma fa parte del mestiere”, diceva. Mentre il capitano, adesso che pare abbia pasticciato con il pm Woodcock nelle inchieste Cpl Concordia e Consip, si difende maneggiando un codice da pronunciamento sudamericano, “l’unico golpe che vediamo è quello perpetrato contro i cittadini che non hanno un lavoro”. E davvero il segreto di questa coppia di uomini così distanti, loro che hanno condotto indagini sulla mafia che sono già nella storia, dev’essere stata la complementarietà. Il rigore del generale Mario Mori e la temerarietà del capitano Ultimo, Sergio De Caprio.

 

E allora Mori forse si candida, forse no, ci pensa, soppesa quest’ipotesi di diventare parlamentare come fosse un sigillo sulla sua seconda vita d’esperto d’antiterrorismo e di vittima sopravvissuta a un lungo e logorante accanimento giudiziario, tutto un collier di processi subìto dentro e fuori dalle aule di tribunale, sulle colonne dei giornali e negli studi televisivi. E’ in pensione, si è difeso nel processo e mai fuori dal processo, rinunciando persino alla prescrizione, sempre misurando le parole nei confronti di magistrati, giornalisti e persino pavidi colleghi che negli anni gli hanno fatto mancare sorrisi e solidarietà. Così, da generale in congedo, a settantotto anni, lontano dai ruoli operativi, dalle indagini clamorose, e con tutte le assoluzioni in tasca, ora chiede l’amnistia per i carcerati, partecipa alle marce che furono di Marco Pannella, e coltiva pure quest’ultima ipotesi, quella della politica, con tutta la sua rigidezza e pignoleria démodé, da manuale per giovani carabinieri, “ritengo che ci siano i presupposti per poter operare bene e sostenere delle riforme che non devono andare contro le istituzioni ma devono migliorare l’istituzione carceraria”, ha detto l’anno scorso ai microfoni di Radio Radicale.

 

Al contrario, il capitano Ultimo, De Caprio, è un colonnello in servizio, ha cinquantasei anni, era vicecomandante del Noe dei carabinieri ma è stato spostato agli Affari interni dell’Aise (servizi segreti) dopo la diffusione di un’intercettazione telefonica penalmente irrilevante tra il generale Adinolfi della Guardia di Finanza e Matteo Renzi, ed è infine stato allontanato anche dall’Aise, poche settimane fa, perché sospettato di aver mantenuto contatti con il suo vecchio gruppo di carabinieri al Noe, la polizia giudiziaria che collabora con il pubblico ministero di Napoli Henry John Woodcock. E insomma il colonnello De Caprio è in attività, ha un ruolo, ha fatto indagini delicate, e proprio sull’onda di questo enorme intreccio e pasticcio che sono i casi Cpl Concordia e Consip, scivolando su questo groviglio che accelera il metabolismo della politica e del giornalismo, tra urlatori e tifosi, procure che indagano su altre procure, fascicoli del Csm e audizioni di magistrati, sospetti e nuvole di gas, accuse di golpe e ribellismi giudiziari, galleggiando su questo magma incandescente adesso il colonnello De Caprio potrebbe candidarsi alle elezioni con Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. In una recentissima e a tratti surreale intervista video, a Giusi Fasano del Corriere della Sera, commentando il suo allontanamento dai servizi segreti, diceva: “Le vicende che mi riguardano non mi sfiorano perché sono azioni di persone che esercitano un potere quindi sono azioni criminali, illegittime”. E ancora, definendosi “un combattente straccione”, “un mendicante”, uno che “combatte per i poveri, insieme ai poveri, cercando di diventare povero”, il capitano Ultimo manifestava anche la seguente, inafferrabile, un po’ stramba filosofia, quasi da colonnello sudamericano, come ha detto Massimo Bordin paragonandolo a Otelo De Carvalho, l’ufficiale portoghese della rivoluzione dei garofani: “Il potere è cattiveria”, spiegava De Caprio, con il volto nascosto da un fazzoletto verde, “non deve esistere nessuna forma di potere, deve esistere solo il servizio. Quando noi pronunciamo la parola ‘potere’ affermiamo una cattiveria, una violenza, un crimine. Non deve esistere nessun potere”. E allora sono vite e destini intrecciati, quelli di Mori e De Caprio, ma pure forse mai s’era vista tanta distanza nei modi, nei caratteri, nella dimensione pubblica e di servizio, di due uomini, due ufficiali dei carabinieri che per molti anni sono stati l’uno la proiezione dell’altro.

 

Ancora adesso, quando si riferisce alla sua vicenda personale, malgrado ne abbia i titoli, il generale Mori non si esprime mai in termini di persecuzione. “Accanimento? Mah, non lo so”, disse un paio di anni fa a Nicola Porro, in televisione, su Raidue. “Penso che questo andamento, specialmente per qualche magistrato del ramo requirente, origini dalla riforma del codice penale del 1989”, diceva il generale, quasi trovando la giustificazione culturale che aveva spinto magistrati più giovani, come Antonio Ingroia, pubblici ministeri cresciuti con il nuovo codice, a inquisirlo. Mai un pensiero né una parola fuori posto. “Prima il protagonista delle indagini era l’ufficiale di polizia giudiziaria, poi diventa il magistrato. Noi invece abbiamo continuato a lavorare come prima”, spiegava, riferendosi ai suoi Ros dei carabinieri, alle indagini su Riina e Provenzano. “Abbiamo continuato a essere investigatori che nell’ambito delle loro competenze rivendicavano autonomia investigativa”, dunque persone dai comportamenti quasi incomprensibili, diceva Mori, e forse anche sospetti per i pubblici ministeri più giovani. E insomma mai il generale ha maneggiato senza cautela le parole, non ha mai parlato di complotti. Anche nei momenti più difficili, anche nella solitudine del codardo oltraggio, circonfuso dal sospetto più infamante, questo carabiniere compatto e lineare, ha mantenuto la dignità della divisa, senza uscire dai binari, senza sbandate.

 

E allora si spiega forse così il segreto della complementarietà di questa coppia di ufficiali, il generale stratega e compassato, ma inscalfibile, fedele alla grammatica istituzionale, e l’uomo d’azione dotato d’una sua corda pazza, temerario e sfrenato nell’agire forse quanto nel pensare, “esagitato”, l’ha definito la procuratrice di Modena Lucia Musti. “Cos’è per me l’Arma dei carabinieri?”, diceva De Caprio in una di queste sue interviste in cui sta a metà tra il miles gloriosus e il caudillo, Chávez e il generale Pappalardo, “l’Arma è casa mia, mia mamma, mio papa, mia sorella. L’Arma è il popolo. E’ una figura che ha creato il popolo. E’ un valore che il popolo ha dentro di sé”. E s’intuisce che andato in pensione Mori, perso il freno e il senno che evidentemente il generale gli portava come un dono salvifico, il capitano Ultimo abbia avuto la sfortuna d’incontrare un altro “cavallo di razza al quale bisogna tenergli le redini strette al collo”, come disse il dottor Giovanni Colangelo, ex procuratore della Repubblica di Napoli, cioè Henry John Woodcock.

 

Se davvero si candidassero entrambi, Mori e De Caprio finirebbero con l’incontrarsi di nuovo, in Parlamento, nella prossima legislatura. Purtroppo in due partiti diversi. Perché il meglio di sé De Caprio lo potrebbe dare soltanto con un capogruppo responsabile come Mori. E invece, a quanto pare, il capitano finirà in una falange sovranista guidata da Matteo Salvini.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.