Un'immagine del Fuorisalone in via Tortona (foto LaPresse)

Il Salone del Mobile è finito. Qualche suggerimento per il futuro

Fabiana Giacomotti

Oltre 340mila presenze, +10 per cento rispetto al 2015 quando si tenne, come quest'anno, un'edizione dedicata a luce e arredo ufficio. Ma mille e rotti eventi sono veramente troppi

È finita. Chi sa vivere è già stato a Venezia per l’anteprima della mostra di Damien Hirst alla punta della Dogana, è già tornato e ne dice meraviglie. Noi abitanti di uno dei “design district” milanesi invece ci guardiamo attorno e assaporiamo l’improvviso silenzio dopo sei giorni di strepiti fino a notte fonda, orgogliosi di questa nostra città che, pur “piccola come un quartiere de Roma”, come piace dire ai romani, accoglie centinaia di migliaia di persone “senza fare un plissé”, come piace dire a noi.

 

Abbiamo gestito senza troppi disagi scioperi dei mezzi, infinite richieste dei passanti spersi fra le nostre stradine rinascimentali e, vogliamo dirlo, i costi di un’incredibile quantità di spazzatura. Si ringrazia il Signore di non essere quel famoso quartiere di Roma. La quantità di detriti che la transumanza umana lascia dietro di sé è impressionante, grazie Beppe Sala. La MM, metropolitana milanese, ha segnalato 830mila passaggi ai tornelli in più rispetto a un normale week end. A Brera si parla di un incremento del dieci per cento dei visitatori; a Ventura Lambrate, zone di installazioni premiate dal Milano Design Award, si dice che le visite abbiano superato quota centomila, e a giudicare dalle file attorno a via Ferrante Aporti già il venerdì pomeriggio è possibile che non siano eccessive.

 

La mattina presto di lunedì 10 aprile, fra i cumuli di cartacce, le bottiglie vuote di “birra a tre euro”, invito della friggitoria dell’angolo, una fra le tante di questi anni di deregulation, accanto al portone di casa trovo una scarpina bianca di pelle da neonato, persa nella ressa di passeggini del week end di Fuorisalone, e simbolo della sua progressiva trasformazione da open bar itinerante per ventenni senza scopo a intrattenimento domenicale per famiglie: una fiumana che ho visto scorrere fino alle dieci di sera, allegra e festosa e, non di rado e per fortuna, davvero interessata a capire, oltre che a stravaccarsi sulle poltrone disseminate per l’Orto Botanico di Brera con il tupperware della pasta al sugo fredda da mangiare in situ. Tantissime le coppie di anziani immobili davanti all’immensa poltrona di stracci di Gaetano Pesce e alla palina plastica di informazioni installate di fronte all’ingresso dell’Accademia (“E perché sarebbe a difesa della parità di genere?” chiede lei. Lui: “Che cos’ il genere? Il sesso?”). In zona Tortona, prima sede del Fuorisalone grazie all’attivismo del Superstudio, i venditori ambulanti di panzerotti e arancine si sono moltiplicati e hanno fatto affari d’oro.

 

In Fiera, ha appena chiuso il Salone del Mobile annunciando, nella forza dei suoi quattordici-pr officer-quattordici, tutti di fresca assunzione e che ti danno invariabilmente del tu come commesse delle catene di fast fashion, trecentoquarantatremilaseicentodue presenze in sei giorni, “provenienti da 165 paesi”, con un incremento del 10 per cento rispetto al 2015, quando si tennero le medesime biennali di questa edizione dedicata a luce e arredo ufficio. Il presidente del Salone, Claudio Luti, felice e stremato, è già partito per le vacanze di Pasqua; ha partecipato a un paio di cene, ma è rimasto soprattutto nel suo stand, forse seicento metri quadrati, a ricevere clienti e stampa. Vogliamo essere onesti: l’attività frenetica di cui si è tanto scritto e parlato in questi giorni ha riguardato forse tre padiglioni: design, Euroluce, e ufficio, cioè gli spazi dove esponevano le griffe dell’arredo e dell’illuminazione.

 

Altrove, cioè fra camerette finto Luigi XVI e abat jour velate stile “Ieri Oggi Domani”, si sarebbe potuto pattinare senza rischiare di investire nessuno. Il design è un brand, e come tale ne segue le regole. Chi produce mobili vive della sua aura positiva, come le griffe della moda che gli si affiancano. Ma mille e rotti eventi sono davvero troppi; un po’ di selezione aiuterebbe anche i grandi nomi a non disperdere risorse ed energie in allestimenti fin troppo vasti e dispersivi, che la folla trascurava non per mancanza di interesse, ma di una giusta guida e di una focalizzazione (un esempio per tutti: Panasonic a Brera). Detto questo, la prossima volta che vengo invitata con un trucco ad ammirare una collezione di coprivaso in cotone imbottito sparo.

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