Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Le post verità di Davigo su giustizia, gogna e velocità dei processi smontate con tre storie anti fake news

Claudio Cerasa

Taranto, Torino, Napoli. Vicende di giustizia ingiusta che troveranno poco spazio nella Repubblica dei pm

Nell’Italia delle post verità – dove il capo dei magistrati italiani, Piercamillo Davigo, può dire con serenità che nel nostro paese non esiste alcun problema legato alla gogna mediatica, alla lentezza della giustizia, alla produttività dei pm, alla reiterazione degli errori giudiziari, alla sovrapposizione tra magistratura e politica e all’abuso delle intercettazioni telefoniche – capita che ogni tanto le notizie fuffa, le fake veline, debbano fare i conti con i fatti e persino con le notizie vere. In un paese come il nostro, dominato da un’alleanza perversa tra magistratura, politica e opinione pubblica – che ha reso accettabile il fatto che ci siano partiti che si presentano agli elettori con il profilo da portavoce delle procure (il Movimento 5 stelle) e che ha reso ammissibile che ci siano magistrati che usano il consenso costruito nelle procure per arrivare alla guida di importanti istituzioni della Repubblica (Pietro Grasso), di importanti città (Luigi de Magistris), di importanti regioni (oggi Michele Emiliano, domani forse Antonino Di Matteo) e forse un giorno anche di importanti partiti (ancora Michele Emiliano) – è difficile e persino eretico parlare di giustizia ingiusta. Ogni volta che si ricordano i numeri dei disastri della magistratura (negli ultimi venticinque anni sono stati spesi 648 milioni per errori giudiziari e ingiusta detenzione, 42 milioni solo nel 2016, AD, Anno Davigi) si viene accusati di concorso esterno in associazione anti procure e si capisce che è molto più comodo e molto meno rischioso trasformare i giornali in una buca delle lettere per i pm. Eppure, a volte, la cronaca è più forte persino delle Post Piercamillo Verità Davigo.

 

Prima notizia, notizia di ieri. Taranto. Un uomo condannato a ventiquattro anni di carcere per omicidio, dopo aver scontato quasi tutta la sua pena, è stato assolto per non aver commesso il fatto. L’uomo era stato arrestato sulla base (a) di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo del delitto e (b) di un’intercettazione telefonica che lo avrebbe inchiodato per una frase chiara detta in dialetto al telefono con la moglie sette giorni dopo l’omicidio: “Tengo stu muert”. I magistrati avevano interpretato la frase come se “muert” significasse “il morto”. Ma ad appena vent’anni dall’inizio della detenzione, come direbbe Davigo, giustizia è fatta e gli inquirenti (anche grazie a una serie di interrogazioni parlamentari voluta dai Radicali) hanno scoperto che l’uomo al telefono non disse “muert” ma disse “muers”, che in dialetto pugliese significa solo materiale ingombrante. In un paese normale, la notizia farebbe scalpore e rappresenterebbe un’occasione importante per interrogarsi sui metodi d’indagine dei magistrati italiani, che spesso si accontentano di una dichiarazione de relato o di un mozzicone di intercettazione per sbattere un uomo in galera per vent’anni o per sputtanarlo sulle prime pagine dei giornali. Sappiamo però che questo non accadrà anche perché il capo dei magistrati sostiene che gli errori giudiziari non esistono e che quando esistono non sono colpa dei magistrati: ovviamente, la colpa è sempre di coloro che “imbrogliano i magistrati”. Nulla o quasi si dirà dunque del caso di Taranto, che dovrebbe far riflettere sui tempi della giustizia italiana almeno come il caso del processo di Torino, dove non sono bastati vent’anni per condannare un uomo accusato di aver violentato la figlia della sua compagna nel 1997 – anche qui la colpa naturalmente non è mai della produttività dei magistrati ma è sempre o dei tempi della prescrizione o della mancanza di risorse per lavorare, ed è un peccato che Post Piercamillo Verità Davigo non ricordi un fatto semplice.

 

Ovvero che la magistratura non ha le risorse che meriterebbe anche perché l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio è stato assorbito completamente dall’aumento del costo degli stipendi dei giudici a fine carriera, cresciuto negli ultimi quattro anni del 37 per cento, aumento più grande di tutta Europa, come certificato dall’ultimo rapporto per la Commissione per l’efficacia della giustizia dell’Unione europea. Oggi non si parlerà di questo – la colpa dei disastri della casta dei magistrati è sempre colpa della casta della politica, si sa – così come non si parlerà neppure di un altro caso di cronaca che scaldò molto i cuori un anno fa, quando la Direzione distrettuale antimafia di Napoli indagò Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Il vice Davigo, Marco Travaglio, dedicò un duro editoriale al caso – “il presidente del partito di Renzi in Campania preferiva la subalternità alla camorra, per la precisione al clan dei Casalesi” – e utilizzò non proprio le stesse guarentigie da vice Rocco Casalino adottate oggi per il dottor Raffaele Marra. Sempre in quei giorni, Roberto Saviano su Repubblica scrisse che la vicenda simboleggiava “la resa del Pd al meccanismo criminale” e sempre in quei giorni, il Movimento 5 stelle condannò “la Gomorra del Pd” e tutta la classe dirigente grillina cercò di dimostrare che un politico del Pd indagato per camorra era il simbolo di un partito colluso con la camorra. Pochi mesi dopo quelle indagini, la Dda di Napoli chiede l’archiviazione per il concorso esterno in associazione mafiosa per Graziano e invia gli atti alla procura di Santa Maria Capua Vetere per valutare gli elementi per l’ipotesi di voto di scambio. Ieri anche questa ipotesi è stata archiviata ma immaginiamo che oggi Travaglio, Di Maio e Saviano abbiano cose più importanti di cui scrivere.

 

Sono tre storie queste – Taranto, Torino, Napoli – che apparentemente non hanno nulla in comune ma che in realtà ci dicono una cosa semplice: che nell’Italia del processo mediatico-giudiziario – un’Italia coccolata dai magistrati politicizzati con le truppe di spalatori di fango quotidiano al seguito – non solo non esiste il garantismo, ma non esiste neppure un’opinione pubblica sufficientemente attrezzata per ricordare ogni giorno che la gogna mediatica, la lentezza della giustizia, la produttività dei pm, le reiterazioni degli errori giudiziari e gli abusi delle intercettazioni sono una verità che forse meriterebbe le prime pagine dei giornali più delle fake news contenute nelle veline delle procure.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.