Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Il giudice (che non è terzo) e la finestra (che resta chiusa)

Francesco Petrelli*

Riflessioni sulla giustizia, la "cultura del limite" e il contenuto politico delle esternazioni del presidente dell'Anm Davigo  

A margine della Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani, che si è tenuta a Matera il 10 e 11 febbraio, ci sembra utile formulare qualche riflessione sui contenuti degli interventi di Giovanni Canzio e di Armando Spataro sul tema “Il Giudice e la cultura del limite” al quale era dedicato l’evento. Si tratta di contenuti molto diversi, uno tecnico e l’altro politico, solo in apparenza assai distanti fra loro.

 

 

 

Partiamo dall’opinione espressa dal primo Presidente della Corte di Cassazione su di un tema, assai rilevante, già affrontato nel suo apprezzato discorso inaugurale, relativo alla necessità di evitare eventuali pericolosi arbitrii dei pubblici ministeri nella formulazione di incolpazioni più gravi al solo fine strumentale di accedere a più invasivi strumenti investigativi ed a vantaggi processuali cui altrimenti non avrebbero accesso. Si tratterebbe di aprire, come le definisce il dottor Canzio delle “finestre” attraverso le quali il giudice possa controllare la correttezza dell’operato del pubblico ministero, evitando così le suddette pericolose prassi distorsive. Un’idea che non ci trova in disaccordo ma che ci pone immediatamente di fronte ad un interrogativo. Non ci sono, forse, già nel nostro sistema processuale alcune “finestre” volte proprio a simili controlli, ad esempio in materia di durata e proroga dei termini di indagine, o di autorizzazione e proroga delle intercettazioni? E quanto e come i giudici sono soliti “affacciarsi” a queste “finestre” e controllare con il necessario rigore e la dovuta severità? 

 

Il problema non sono a volte né il numero né la qualità degli strumenti processuali, ma l’attitudine e la cultura di chi li impugna a fare la differenza. Ogni modello processuale deve avere i suoi interpreti che sappiano realizzarlo. Un modello accusatorio privo di un giudice terzo, dotato di una forte cultura del limite, che ne regoli severamente le cadenze senza indulgere paternalisticamente sulle distorsioni procedimentali dei colleghi pubblici ministeri, è destinato infatti a fallire.

 

Ma veniamo alla seconda questione, posta, con grande franchezza, dal Procuratore di Torino Spataro in ordine alle ultime esternazioni del Presidente di ANM Davigo, dei cui contenuti ha detto di non condividere nulla,  giudicando in maniera fortemente negativa la sua decisione di disertare l’Inaugurazione dell’anno Giudiziario in Cassazione in polemica con il Governo. Una posizione tanto legittima quanto autorevole che, tuttavia, fa sorgere una domanda circa la effettiva condivisione delle idee che con devastante sicurezza il dottor Davigo va diffondendo da un anno a questa parte nel silenzio pressoché totale delle altre componenti e correnti della magistratura italiana. Dicendo cose che forse si sentivano dire trent’anni fa dai settori più autoritari e conservatori della magistratura, ed altre che francamente non si erano mai sentite dire. Chi fra qualche mese erediterà la presidenza dell’ANM potrà tacere sul contenuto politico di quelle esternazioni? Potrà consegnare all’innocuo archivio delle opinioni personali quella martellante e populistica campagna di invettive volta a delegittimare il mondo dell’avvocatura e della politica al fine di legittimare davanti all’opinione pubblica la magistratura quale sola garante del bene pubblico. O dovrà doverosamente e pubblicamente prenderne le distanze con un significativo e responsabile atto politico?

 

 

Se così non avverrà e se l’alternanza ai vertici dell’ANM fingerà di inverare solo un banale “mutamento di stile” nella conduzione delle cose, noi resteremo convinti che vi sono, invece, due diverse magistrature. Una, che si riconosce nel suo attuale Presidente, e fatta dunque di pubblici ministeri “travestiti” da giudici, del tutto privi di quella “cultura della giurisdizione” e di quella “cultura del limite” di cui ha parlato il Presidente Canzio. Un’altra, che per ragioni di opportunismo corporativo o correntizio non dissente, non si indigna, che finisce così con il legittimare una immagine della magistratura di cui questo Paese certamente non ha bisogno, tanto arrogante, quanto incapace di dare alla complessa società del futuro risposte moderne ed efficaci sul destino del processo penale e sulla fatale necessità di legittimare quella nuova figura di giudice terzo e separato, di “giudice non parte” come lo ha definito il professor Biagio De Giovanni nella sua “lezione magistrale” che ha introdotto il dibattito, che torni a dare ad ogni cittadino fiducia nella giustizia. Come vedete, i due argomenti non sono poi così distanti come sembrano.

 

*Segretario dell'Unione delle Camere Penali italiane

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