Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma durante un’udienza del processo Mafia Capitale (foto LaPresse)

Ielo, oggi e domani

Massimo Bordin

Da Milano a Roma, da Mani pulite a Mafia Capitale e al caos grillino. Ritratto del pm che non ha voluto (o potuto) riscrivere la storia d’Italia

Il dottore Paolo Ielo, messinese di nascita, avrà sicuramente fatto molti viaggi a Roma fin da giovane ma probabilmente due gli saranno rimasti impressi nella memoria più di tutti gli altri. Certamente quello compiuto nel dicembre 2008, quando, a 47 anni, si è trasferito nella capitale lasciando il tribunale di Milano dove aveva lavorato prima come giudice poi, dal 1993, come pm nel pool “Mani pulite” per tornare poi, dopo dieci anni, nei ruoli della giudicante come gip e infine, dopo altri cinque anni, approdare a Roma di nuovo come pm, ruolo che svolge tuttora. C’è però un altro viaggio da Milano a Roma, nel marzo del 1996, che sicuramente ricorderà bene. Un viaggio di lavoro. Ielo era stato inviato a Roma per una indagine del pool Mani pulite sulla corruzione in quel palazzo di giustizia. Doveva prendere atti e sentire magistrati. Si presentò spontaneamente un giudice, Mario Antonio Casavola, fratello di Francesco Paolo, presidente emerito della Consulta. Il giudice mise a verbale gravi sospetti sulla correttezza di alcuni suoi colleghi che avevano esercitato pressioni a proposito di un processo relativo ai finanziamenti di Nomisma, l’istituto di ricerca guidato da Romano Prodi. Gli imputati furono assolti e il giudice Casavola non contestava il verdetto, cui aveva contribuito, ma denunciava quelle pressioni indebite e forse non disinteressate. Il giovane pm Ielo trasmette il verbale a Perugia, tribunale competente per i magistrati romani, ma quelle carte non si trovano più. Ielo non ha difficoltà a dimostrare la correttezza del suo operato ma la polemica è inevitabile. Sei anni dopo, in una udienza del processo Sme, il 17 giugno 2003, Silvio Berlusconi, imputato e all’epoca presidente del Consiglio, rende dichiarazioni spontanee, definisce il processo frutto di invenzioni e cita “Paolo Ielo, pm che si è recato a Roma per eseguire processi verbali e ha impiegato molti soldi dello stato che appartengono a tutti noi”.

 

Il 2003 è l’anno nel quale Ielo chiede e ottiene di passare dal ruolo di pm a quello di gip, restando a Milano. Eppure non erano state quelle parole di Berlusconi l’incidente politico più clamoroso nel quale Ielo era incappato. Nel 1995 il pool lo aveva designato a rappresentare l’accusa nel processo sulle tangenti per la metropolitana milanese. Repubblica aveva scritto “Mani pulite per sferrare l’attacco finale a Bettino Craxi si affida al più giovane della squadra”. Nella sua requisitoria Ielo aveva prodotto le intercettazioni delle telefonate di Craxi da Hammamet e le carte sequestrate ai socialisti rimastigli fedeli. Ovviamente vi si poteva leggere quanto Craxi e i suoi non apprezzassero l’operato dei magistrati e come cercassero di contrastarlo. Ielo, a un certo punto, “con la tensione che gli piega la voce”, scrive Repubblica, si rivolge ai giudici dicendo “queste sono le carte di un criminale matricolato che aggredisce i magistrati”. Nel 1995, nel tormentato avvio della Seconda Repubblica, il putiferio politico è inevitabile. Il fatto che il pm sia notoriamente di Magistratura democratica acuisce la polemica. Un membro laico del Csm ne critica perfino il look, descrivendolo “vestito come un aiuto droghiere. Porta la toga come un camice stazzonato con sotto una camicia da scampagnata”. Quando anni dopo Berlusconi lo attaccherà in aula, Ielo è già diventato l’immagine della toga rossa più giovane e feroce. A nulla è valso che il giorno dopo la sua performance si sia scusato ammettendo la “caduta di stile”.

 

Nel suo ultimo periodo milanese, passato nell’ufficio del gip, non ripeterà errori simili. Specializzatosi nei reati finanziari e societari, era divenuto uno dei magistrati meglio capaci di interpretare la legge che dal 2001 regola la responsabilità penale delle persone giuridiche che, nel linguaggio dei giuristi, sono le aziende, le società, gli enti. Giunto alla procura di Roma e tornato a fare il pm, Ielo mette a frutto questa sua competenza occupandosi di cause che possano valorizzarla. Si occupa così, ad esempio, delle vicende di Finmeccanica, di diversi reati di falsa fatturazione, fra gli ultimi quello che ha riportato in carcere Ricucci, e di molti scandali relativi agli enti locali e alle società partecipate. Fino all’inchiesta Mafia Capitale di cui è tuttora pubblico ministero nel dibattimento, insieme a Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli.

 

A questo punto siamo di fronte a una nuova fase che vede di nuovo Ielo con i riflettori dei media puntati addosso, anche perché finisce per coincidere con un avanzamento significativo nella carriera. Ancora una volta occorre fissare una data: siamo arrivati all’aprile dell’anno scorso quando si sommano una serie di significativi nuovi incarichi per alcuni magistrati. Alla procura di Roma vengono nominati cinque nuovi procuratori aggiunti. Fra essi c’è Paolo Ielo che il procuratore capo Pignatone incarica del settore dei reati contro la Pubblica amministrazione, postazione assai delicata, tenuta solo per due anni dal suo predecessore. In realtà Pignatone su nove aggiunti ne lascia solo tre. Fra questi, Michele Prestipino, responsabile della direzione distrettuale antimafia, che con il procuratore capo romano lavora pressoché ininterrottamente dai tempi di Palermo, passando per Reggio Calabria. Prestipino, come capo della Dda, era naturalmente indicato come il vertice della formazione dei pm per il processo Mafia Capitale. Ora gli si è affiancato Ielo, divenuto suo pari grado e di fatto in aula c’è sempre lui con i due sostituti. Il primo e ultimo atto pubblico di Prestipino in merito a Mafia Capitale è stato la partecipazione alla conferenza stampa dopo gli arresti del dicembre 2014, quando Mafia Capitale ancora si chiamava “operazione mondo di mezzo”, come l’avevano battezzata i carabinieri del Ros. E’ paradossale, ma indicativo della piega che ha preso il processo, come nel momento in cui è invalsa la denominazione “mafiosa” la direzione antimafia abbia lasciato la gestione del processo all’aggiunto che si occupa dei reati contro l’amministrazione pubblica. Paradossale ma non illogico, visto che gli imputati del reato di associazione mafiosa sono rimasti 14 su circa 50.

 

Torniamo però all’aprile dello scorso anno, quando Ielo diviene procuratore aggiunto. Non è il solo dell’antico pool di Mani pulite ad andare a occupare in quel momento una casella importante. Negli stessi giorni Piercamillo Davigo viene eletto presidente della Anm e Francesco Greco è, di lì a poco, scelto dal plenum del Csm come nuovo procuratore capo di Milano. Gianni Barbacetto, sul Fatto quotidiano, per l’occasione corregge lievemente Dumas e si domanda se “ventiquattro anni dopo” i tre moschettieri potranno far ripartire una nuova Mani pulite. Certo i tre si conoscono, e bene. Hanno attraversato spalla a spalla un periodo cruciale e tempestoso. Proprio per questo non è detto che quello che Barbacetto ritiene un auspicio si realizzi davvero. Bisogna fare un altro salto indietro nel tempo, non sarà breve ma sarà l’ultimo.

 

Non c’è nemmeno bisogno di cambiare il titolo al libro di Dumas, siamo letteralmente “vent’anni dopo”. Può aiutare una foto di gruppo con il procuratore Borrelli al centro, appoggiato sull’esterno della scrivania, e ai suoi lati a sinistra Ielo, Greco e Davigo, a destra Boccassini, Colombo e D’Ambrosio. Di Pietro si era già dimesso o forse aveva portato la Mercedes dal meccanico. Siamo nel 1996, probabilmente, l’anno dei viaggi di servizio Milano-Roma di Ielo, “il giovane di bottega” come lo chiama oggi il Fatto, “il pulcino” come lo chiamava all’epoca Repubblica. Lo mandano in quello che chiamano “il porto delle nebbie” ed effettivamente al tribunale di Roma le cose non vanno bene, girano soldi, tanti. Ielo chiede incartamenti di processi, fa qualche domanda, riceve, come abbiamo visto, anche deposizioni spontanee. C’è molto nervosismo, è accaduto un fatto grave. Una domenica mattina in un bar dove erano soliti vedersi per il caffè qualche giudice e qualche avvocato, spunta una microspia sotto un portacenere. E’ il panico. Qualcuno li indaga. Ma chi? E perché? Qualcuno ha effettivamente qualcosa da nascondere, altri no, ma sono tutti preoccupati e curiosi. Renato Squillante, il capo dei gip, che poi sarà arrestato, è preoccupatissimo. Il giorno dopo sonda subito i servizi e i carabinieri. Dicono di non saperne nulla. La polizia invece gli dice che sì, è roba loro, si tratta di una indagine. Commissionata da chi? A questo punto il funzionario gli fa presente che se glielo dicesse commetterebbe un reato. Squillante va dal procuratore capo di Roma Michele Coiro e siccome sospetta di quelli di Milano gli chiede di sentire Borrelli che interpellato nel modo più diretto risponde che no, nel modo più assoluto non sono loro. Ma Squillante la sua idea se l’è fatta e visto che c’è un convegno giuridico qualche giorno dopo chiede a un pm suo amico, Francesco Misiani, di sentire Francesco Greco che sarebbe stato al convegno. Misiani ha avuto Greco come uditore giudiziario anni prima. In pratica gli ha insegnato il mestiere. Sono tutt’e due di sinistra. Misiani di più. Appartiene al gruppo romano originario di Md, insieme a Saraceni, Cerminara e anche Coiro che col tempo e gli incarichi si è un po’ moderato. Misiani no. E’ anche un po’ scapestrato, gioca a poker e tira tardi. Ma tutti gli vogliono bene e certo non è tipo da tangenti. Eppure per aver avvicinato Greco e avergli chiesto dell’indagine viene a sua volta indagato, dopo una lettera di Greco a Borrelli nella quale segnala le domande insistenti del suo amico. Era stato Davigo a segnalare a Greco che a Milano già sapevano che aveva parlato con Misiani che avevano intercettato. Inizia da parte del pool una indagine pesantissima su Misiani. Lo rinvieranno a giudizio, dovrà difendersi dalle accuse portate avanti da Ilda Boccassini in un processo che alla fine e dopo anni lo vedrà assolto. Continuerà a fare il magistrato, a Napoli, ma poco dopo morirà. Nel frattempo, ottenuto l’arresto di Squillante, il pool comincia ad accarezzare l’idea di inquisire Michele Coiro. Esce fuori un rigurgito settario di ortodossia di sinistra contro “i romani”, indisciplinati rispetto alle indicazioni di Md e del partito di riferimento, che aveva già cambiato nome ma ancora contava. L’idea di assediare Coiro si rafforza. Deve perfino intervenire Rossana Rossanda sul Manifesto per difendere l’onore del procuratore che, proprio quando le cose sembrano placarsi, viene stroncato da un ictus.

 

Se tutto questo vi ricorda la storia di Loris D’Ambrosio non vi si può dare torto. L’allora giovane Ielo a tutto questo ha assistito e probabilmente ad altro ancora. Si può dunque pensare che non sia sorprendente il fatto che lo descrivano poco entusiasta delle correnti giudiziarie anche se ancora di sinistra. Basta leggere quello che dice quando raramente esce una sua intervista. A ottobre dell’anno scorso, quando la procura richiese le archiviazioni che ora il gip ha confermato, intervistato da Repubblica non entrò nel merito del processo e si limitò a considerazioni generali del tipo: “Chi muove le indagini deve avere per primo la capacità di capire dove può arrivare con quello che ha in mano. Inchieste che portino a processi azzardati sono un danno per tutti: per le procure che li propongono, per gli imputati e per la collettività perché c’è una perdita di credibilità della giustizia. L’idea del processo alla azzeccagarbugli, che non finisce mai, va abbandonata perché così troppi processi muoiono per prescrizione”.

 

Resta da capire perché un ragionamento così saggiamente empirico finisca per piegarsi rispetto a una enfasi mediaticamente, e politicamente, così forte, quanto alla prova dei fatti infondata, proprio nel processo che sta attualmente conducendo in aula. Un fatto però pare quasi certo. Le argomentazioni di Ielo non ricordano un tipo di magistrato al quale ormai ci siamo abituati, nello stesso tempo declamatorio e inconcludente oltre che spesso politicamente delirante. Un banco di prova ora però Paolo Ielo se lo ritrova davanti non solo con Mafia Capitale ma anche con le singolari vicende del comune di Roma alle quali si sta applicando. Il rischio, e forse ben più di un rischio, che la procura diventi l’elemento decisivo di indirizzo politico, anche se non nelle forme di Mani pulite, certe indagini romane a volte lo evidenziano. Proprio perché “le indagini non si fanno per scrivere i titoli dei giornali ma per fare i processi oppure per evitarli”. E’ sempre Ielo a dirlo, stavolta sul Corriere della Sera di cinque anni fa.