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L'esercito che fa bene il bene

Maurizio Crippa

Dalla beneficenza (quella vera non fa pubblicità) alla nuova filantropia di fondazioni e finanza etica. Niente pandori 

Alla fine va detto che il panettone sospeso è più buono e fa bene più che il pandoro brandizzato. Ma non perderemo tempo in scempiaggini. L’associazione Panettone Sospeso è un’organizzazione no profit nata a Milano nel 2019, raggruppa molte pasticcerie della città dove si può lasciare “sospeso”, come il caffè a Napoli, il dolce di Natale. Saranno poi associazioni e Terzo settore a occuparsi della distribuzione. È una delle molte forme di beneficenza e generosità nate dal basso, fatte di reti e di persone che non cercano di farsi pubblicità e da sempre costellano la  Milan col coeur in man. Ovvio che non ci sia solo Milano, tutta l’Italia è un paese generoso e solidale – soprattutto finché si rimane nei limiti del piccolo e del buon vicinato – e “non c’è poi grande differenza  tra regioni ricche o povere: se nonostante crisi e problemi l’Italia ha una situazione di pace sociale è anche grazie e queste reti diffuse e a un ‘esercito del bene’ di oltre sei milioni di persone e di oltre 360 mila associazioni”, riflette con noi Ferruccio De Bortoli, oggi presidente di Vidas, Volontari italiani domiciliari per l’assistenza ai sofferenti, una delle più note associazioni filantropiche che dal 1982 si dedica ai malati incurabili. Racconta De Bortoli che proprio attraverso questa sua esperienza ha scoperto un mondo silenzioso, spesso poco noto, fatto di piccoli donatori ma anche di grandi patrimoni “che preferiscono però l’anonimato a indesiderate pubblicità”. Un mondo “dotato di una forza d’impatto sociale enorme e capillare”. Vidas nasce in ambito milanese e lombardo, e guardare a Milano ha un senso preciso perché secolare è la sua tradizione di “bene fare”, di carità cristiana, di filantropia laica. Migliaia di associazioni con modalità diversificate di intervento. E, non ultimo, Milano è una capitale dell’innovazione anche per quel chi riguarda le nuove modalità di filantropia e di finanza etica che in Italia stanno prendendo piede.
 

Ma Milano coi suoi sfondi instagrammabili e modaioli è finita nel mirino rischiando un immeritato tonfo d’immagine perché la beneficenza-pubblicità formato influencer è malamente precipitata dal suo skyline posticcio. Colpa di un pandoro, che del resto è un dolce foresto. La faccenda avrà un impatto negativo sulla generosità di chi dona ma non vuole farsi abbindolare. Ma, spiegano molti operatori del bene, nemmeno poi tanto. Gli influencer al massimo allungheranno l’elenco delle “sette scuse capitali di chi non vuol donare”, ci raccontano, perché il vero problema è che l’Italia è un paese sostanzialmente avaro: soprattutto dove c’è la ricchezza vera. Ma chi donava prima continuerà a farlo.

 

L’esercito del bene è molto di più e molto più forte di questi scivoloni. A partire proprio da una generosità privata che viene prima di strutture, fondazioni, enti, onlus. Grandi e medie ricchezze si mobilitano spesso in silenzio, spesso sollecitate da un evento privato, o da un incontro. Radici antiche: “Invito tutti ad andare a vedere la Quadreria della Fondazione della Ca’ Granda, per capire la storia secolare della generosità ambrosiana”, dice De Bortoli. Il bene cittadino affonda le radici in  storie come quella delle “dame del biscottino”, tra loro la nobile e famosa Teresa Dugnani Viani, amica di Rosmini, che già nel Settecento si dividevano tra il palco alla Scala e gli ospedali dove portavano agli ammalati biscotti e cibo. Ancora adesso dame di gran nome, spesso di doppi e tripli cognomi – ma oggi anche di importanti carriere professionali e pubbliche – sono una silenziosa avanguardia del far del bene. Come le dame di San Vincenzo che portano avanti i gruppi di carità creati nel 1617 in Francia da san Vincenzo de’ Paoli e attive a Milano dal 1857, ora anche con creativi fundraising tra mercatini d’antiquariato e altro ancora. C’è tutto un fiorire di attività benefiche, le charities vanno di gran moda. Come la onlus Missione Sogni, che aiuta a realizzare i sogni di bambini e ragazzi affetti da gravi malattie o disabilità. Anche perché spesso are il bene aiuta a tenere unite le famiglie in una visione comune, come accade con la Fondazione Mediolanum portata avanti dagli eredi di Ennio Doris che da vent’anni finanzia centinaia di progetti dedicati all’infanzia in paesi poveri. La Fondazione Near Onlus  è nata nel 2012. Un’avventura che ha preso il via da una tragica vicenda familiare che ha portato alla nascita di Magica Cleme Onlus e del progetto B.LIVE, creato per ragazzi  affetti da gravi patologie croniche  che vengono indirizzati a percorsi creativi anche grazie all’aiuto di una rete di aziende sensibili. Ci sono realtà note e robuste, come la fondazione Francesca Rava per l’infanzia e l’adolescenza in condizioni di disagio, o la benemerita Asm, Associazione per lo studio delle malformazioni infantili, che nasce nel 1981 grazie all’impegno di medici e studiosi e di finanziatori privati. E ci sono un’infinità di piccole attività – spesso di zona e quartiere – come le tante sostenute da  privati, da enti religiosi come la Caritas, o da Fondazione Cariplo e dalle Fondazioni di comunità. Non si possono nominare tutte, a Milano sono circa un migliaio le sigle. Del resto sei milioni di volontari sul territorio nazionale, anche se non tutti fanno “beneficenza” significa un capitale umano enorme. A tenerle insieme, oltre lo spirito ambrosiano, anche una collaborazione intelligente tra pubblico e privato. Esistono realtà come l’Associazione Progetto Arca, nata nel 1994, ormai è un punto di riferimento essenziale per la città per l’assistenza alle persone senza dimora e ai migranti. Il Comitato Maria Letizia Verga è un riferimento per famiglie. Medici sulle la malattie  ematoncologiche infantili. Storia diversa ha Convivio, che nasce nel 1992 da un’idea di Gianni Versace  come mostra mercato per donare attraverso la moda per la cura dell’Aids.  Alle donne guarda la Fondazione Onda (Osservatorio nazionale sulla salute delle donne e di genere), per le strade ci sono i baschi azzurri dei City Angels, per chi ha fame ci sono le mense religiose come l’Opera San Francesco o il Refettorio di Caritas. O iniziative laiche come Pane quotidiano, diventata famosa in epoca post Covid per le file infinite delle persone in attesa. Giuseppe Guzzetti, storico nume tutelare e e creatore di una nuova modalità di azione filantropica, ama ripetere che “Milano ha due facce, le ha sempre avute. Finanza, industria, terziario. Ma anche la povertà”. La sua idea è sempre stata farli incontrare. “La povertà a Milano ha un volto inedito: quello delle oltre centomila persone che non possono permettersi di acquistare beni e servizi essenziali e di avere uno standard di vita accettabile”. È nato così il progetto Qb, per il disagio alimentare dei bambini. Oltre 25 milioni messi a disposizione da vari enti. Sempre Fondazione Cariplo ha appena implementato i fondi per il bando “AttentaMente”, dedicato al disagio psichico dei giovani, tema quanto mai trascurato dal welfare pubblico. 
 

Per dirla con il sociologo Aldo Bonomi: “Non esiste una definizione scientifica di cosa sia il welfare ambrosiano, con quell’espressione nel Novecento si definiva un meccanismo di inclusione delle plebi di lavoratori che dalle periferie venivano calamitati verso il centro, dove c’era il mondo produttivo”. Oggi è cambiato quasi tutto, ma l’esercito del bene sa muoversi e tutelarsi da solo. Ora arriva anche il ddl cosiddetto “anti Ferragni”, qualche buona regola in più. Secondo Giampaolo Letta della Fondazione italiana per il dono (centro studi  che monitora attività e accountability del terzo settore e del sistema dei donor), le regole di trasparenza vanno precisate soprattutto per le donazioni di aziende, ha detto al Corriere la scorsa settimana. Se va bene, il dd non servirà a molto. Quello che conta è che esiste un modello attivo e che sta modificandosi.  Insomma esistono ormai molti benchmark e delle best practice capaci di evitare la pandorizzazione, e anche il precario “ritorno pubblicitario” di certe azioni. Un modello che sta evolvendo, una filantropia più consapevole, più trasparente e dunque più capace di raccogliere, individuare, agire. 
 

“Lo scopo del nostro lavoro è implementare e sostenere l’impegno filantropico e incoraggiarlo. In sintesi: semplificare la filantropia, aiutare a donare di più e meglio”, ci dice Simonetta Schillaci, che guida il Fondo Filantropico Italiano, una fondazione che è tra le principali realtà di “intermediazione filantropica” in Italia. Che cosa significa? “La nostra azione, ancora un po’ pionieristica in Italia, mentre è un modello molto diffuso nei mondo anglosassone, è quella di mettere a disposizione strumenti giuridici, di valutazione, di rendicontazione e anche di pianificazione per tutte quelle realtà – singole persone che intendono devolvere o impegnare in attività benefiche una parte del patrimonio o un’eredità; oppure famiglie, o aziende – che hanno necessità di un appoggio, di una intermediazione appunto”. Insomma al Fondo (“una fondazione-ombrello: una fondazione per le fondazioni”) si rivolge a benefattori che vogliono implementare o migliorare la propria azione o  che magari non si ritengono in grado di costituirsi in proprio come ente. “Semplificare la filantropia e allo stesso tempo renderla più efficace”, spiega Schillaci. Ad esempio attraverso lo strumento dei Donor-Advised Fund (Daf) molto diffuso a livello internazionale, che permette ai donatori di realizzare e sostenere progetti filantropici personalizzati senza costituire un nuovo ente. Quindi andando direttamente all’obiettivo, senza perdersi in burocrazia, costi, spesso improvvisazione o valutazioni sbagliate”. Qualche settimana fa in un articolo su questi argomenti l’Economist citava il caso di MacKenzie Scott, ex moglie di Jeff Bezos che dal divorzio ha avuto 38 miliardi di dollari. Decise di donarli in progetti filantropici, e “senza fare grandi dichiarazioni né creare una fondazione di beneficenza, la silenziosa miliardaria ha sborsato 16,5 miliardi di dollari”. Spiegava l’Economist: “La ragione per cui la signora Scott ha potuto dare così tanto in così breve tempo è che ha eliminato i salti mortali e il riempimento di moduli che da tempo definiscono la filantropia, soprattutto negli ultimi 20 anni. Ha incaricato un’azienda indipendente di aiutarla con la strategia, di svolgere la due diligence per controllare le ong e quindi di donare i soldi”. 
 

La filosofia del Fondo Filantropico Italiano è simile. I Daf crescono: “Una donna che ha iniziato occupandosi di donne vittime di violenza, e ha dato al suo Daf il nome di un fiore. C’è una ricchissima filantropa italo-americana che già sostiene con una fondazione progetti molto grandi in America ma ha deciso, attraverso un Daf, di iniziare a sostenere borse di studio per giovani donne della Calabria.  C’è chi dona per aiutare gli anziani che hanno bisogno di accudire i loro animali. Women for Women è un ‘circle’ di professioniste che hanno potuto scegliere il proprio futuro, e così hanno deciso di aiutare altre donne a fare lo stesso”. Esperienze che crescono “anche perché noi spieghiamo che non è necessario mettere tutto e subito: ci sono percorsi da verificare, impatti da valutare. Insomma c’è una grande realtà diversificata nei patrimoni e negli scopi – stiamo parlando di aziende o persone che abbiano ovviamente patrimoni consistenti – che va sostenuta, indirizzata, mesa in rete”. Il Daf è uno strumento relativamente semplice, viene istituito attraverso un atto notarile. Poi il Ffi propone un piano strategico di erogazione costruito in base alle indicazioni del donatore. C’è un comitato di gestione composto dal donatore e da membri da lui indicati. Il Fondo si fa carico di oneri amministrativi, gestionali e di rendicontazione. Quanto è grande questo “mercato del bene”? In Italia ancora embrionale, ma negli Usa ci sono un milione e duecentomila Daf per oltre 234 miliardi di dollari di patrimoni gestiti, in Francia Fondation de France conta mille Daf con un patrimonio patrimonio di 1,5 miliardi. “Ma l’italiano ricco non investe, non dona, è statico”, dice senza infingimenti Schillaci. L’Italia complessivamente dona 10 miliardi di euro l’anno, appena lo 0,2 per cento dei 5 mila miliardi di euro della ricchezza finanziaria dei suoi cittadini, che sono tra quelli con il più grande patrimonio immobiliare privato in tutto il mondo”, dicono i dati di Ffi. In proporzione, gli americani donano ben quarantotto volte di più”.
 

Quindi, prosegue  Schillaci, esiste il problema di una mentalità da creare: ad esempio facendo capire a tutti, imprenditori, istituzioni e politica che la filantropia fatta in questo modo fa bene a tutti. E bisogna anche superare una frammentazione che penalizza il terzo settore: ci sono 360 mila organizzazioni che spesso si replicano e non collaborano“, non diventano massa critica”. In generale, le motivazioni che spingono a donare sono per lo più legate alla sfera intima ed emotiva, ma cresce il numero di coloro che si rivolgono ad esperti per sapere cosa fare. Non è facile, uno dei grandi problemi è la trasparenza. C’è ad esempio una grandissima fascia di “wealthy people” che intende donare attraverso il suo testamento. Già, ma a chi e come?  Alcune innovazioni come le attività di beneficenza diretta di gruppi bancari come Intesa San Paolo o gruppi assicurativi come Generali si pongono come punti di riferimento per chi vuole dare ma cerca progetti seri e gestione  Ma c’è una “wealthy people”, ancora tutta da svegliare. Uno dei temi è ad esempio quello delle eredità silenti e il destino dei patrimoni “estinti” e del loro possibile utilità sociale. Secondo uno studio di Fondazione Cariplo, in Italia entro il 2030 quasi 130 miliardi di euro potrebbero finire a eredi senza reali linee di parentele, come vincere alla lotteria, pagando tasse successorie bassissime. In altri paesi, in questi casi esistono leggi di tassazione severe che rendono “conveniente” donare a fondi o enti. La questione della trasparenza, della differenza tra l’uso a scopo di immagine e il dono vero è cruciale anche secondo De Bortoli: “Chi dona non cerca immagine, ma vuole essere certo di partecipare a un ‘dividendo’ del bene’. Per questo le associazioni devono sforzarsi di rendere conto, ed è giusto o che nasca una mentalità ‘aziendalista’, cioè basata su competenze specifiche”. Certo, nella miriade di benefattori c’è anche il piccolo, il chilometro zero della spesa solidale di quartiere (durante il Covid in una collaborazione tra comuni e associazioni decine di volontari si erano attrezzati per portare la spesa a casa agli anziani) in cui più che il denaro conta il fattore tempo donato. Ma è decisivo anche il cambiamento di questa “new philanthropy” per un nuovo possibile impatto sociale.
 

È quello che spiega, ad esempio, un imprenditore che si occupa di finanza come Nicola Crosta e guida la società Impact46 che ama definire una “impact management firm”. Si occupa di investimenti finanziari, ma da sempre si occupa anche in modo specifico di un altro settore: esattamente quello dell’investimento filantropico. “Lo definiamo Impact Philanthropy”, spiega Crosta. “La filantropia, e  più in generale l’investimento economico che abbia la finalità di un impatto positivo sulla società, sull’ambiente, è sempre più decisivo per il futuro e anche le grandi aziende e la finanza lo perseguono. L’investimento filantropico può arrivare dove investimento pubblico e privato non possono”. Il punto è mettere in campo strumenti adeguati, mutuando ad esempio la flessibilità o la focalizzazione che è tipica dei venture capital. Chi vuole investire, o donare del suo, in azioni filantropiche di qualsiasi profilo sempre più necessita di sapere dove, come, con che tempi. E soprattutto vuole prevedere l’impatto della sua azione. “Per questo la chiamiamo  Impact Philanthropy, dove l’impatto non è il guadagno, ma lo scopo raggiunto. Quindi noi, a chi si affida alla nostra intermediazione, aziende, privati, famiglie, detentori di capitali, indichiamo un percorso molto professionalizzato – che ad esempio in Italia manca – per decidere a chi dare, su quale settore si può produrre un impatto migliore”. E la necessità di una due diligence e di una misurazione costante, ovviamente non solo economica, di cosa avviene”. Serve una filantropia professionale, perché il campo di intervento è enorme. “Credo che una regola sempre più evidente è che non si può parlare di filantropia se non sai anche dimostrare, a chi agisce con te e a chi ti sostiene, quale sia l’impatto del tuo impegno”.
 

Lassa pur ch’el mond el disa, ma Milan l’è on gran Milan…  Lassa pur ch’el mond el disa, ma a Milan se stà benon”. Come nella celebre canzone meneghina, l’esercito del bene lascia pure che gli scandali del pandoro facciano il loro tempo. E guarda avanti. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"