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Tutte le altre Saman Abbas d'Italia

Francesca Marino

Il prezzo della libertà di una donna pakistana e il copione del delitto d’onore, qui nel nostro paese

Dov’è Saman, con la fascia rossa nei capelli, che ha pagato con la vita il suo desiderio di libertà e indipendenza. E dov’è Hina Saleem, che aveva poco più di vent’anni e come Saman era originaria del Pakistan. Hina  aveva un fidanzato italiano, Giuseppe, che l’ha trovata sgozzata come un cane. Come Saman, Hina era stata attirata nella casa paterna con un pretesto e “giustiziata” in nome dell’onore. E dov’è Sana Cheema, cresciuta a Brescia ma uccisa in Pakistan dai genitori che l’avevano attirata in patria con il solito pretesto di un matrimonio o di un funerale in famiglia. Il processo è ancora in corso in Italia, perchè un giudice si è battuto affinché gli assassini di Sana vengano processati a Brescia. In Pakistan, dove sono stati processati nel 2018 all’epoca del delitto, sono stati assolti. 

 

E dove sono Nosheen e sua madre Shehnaz? Nosheen presa a sprangate a Novi di Modena dal padre e dal fratello, e Shehnaz lapidata perchè difendeva la figlia? Nosheen, dopo mesi di coma, è ancora viva ma è come se non ci fosse più. Dov’è Azka, stuprata e poi uccisa dal padre in provincia di Macerata? Farah, invece, è stata più fortunata: rimasta incinta del suo fidanzato italiano, voleva sposarsi. Prima di essere stata riportata con il solito trucco in Pakistan, drogata, fatta abortire e rinchiusa in casa degli zii. Deve la salvezza soltanto alla sua prontezza di spirito: con il computer del cugino  è andata sui social media e ha allertato il compagno e gli amici. E’ stata riportata in Italia dopo lunghi sforzi diplomatici e molte pressioni dell’ambasciata italiana. Anche Memoona, trascinata in Pakistan e imprigionata in casa, è riuscita a scappare e ad allertare le sue compagne di scuola in provincia di Brescia. L’ambasciata e l’Interpol  l’hanno riportata in Italia. E la lista potrebbe essere molto più lunga. Il copione è sempre lo stesso: la ragazza vuole studiare,  lavorare, frequentare i coetanei, indossare un paio di jeans, sposare un ragazzo di sua scelta. Si inventa allora un matrimonio o un funerale in Pakistan  per dare la ragazza in moglie contro la sua volontà o, più spesso, per essere uccisa quasi impunemente. 

 

Il delitto d’onore, in Pakistan, è uno dei pilastri della società, una società in cui le donne  sono negli ultimi vent’anni inesorabilmente scivolate indietro mentre il resto del mondo entrava nel Ventunesimo secolo. Nel 2016 aveva fatto scalpore il caso di Qandeel Baloch, ammazzata dal fratello per aver disonorato la famiglia. La famiglia ha supplicato i giudici di perdonare l’assassino in base alla legge, emendata dopo la sua morte, che permette all’assassino di non scontare alcuna pena pagando alla famiglia della vittima il cosiddetto “prezzo del sangue”. 

Quanto vale in Pakistan la vita di una donna? Pochi spiccioli. E non si tratta di casi isolati o circoscritti a settori disagiati della società, di “usanze tribali” non condivise dalla maggioranza. La sharia, la legge islamica integralista, è diventata agenda politica e ha permeato tutti gli strati della società, a cominciare da quelli che hanno studiato a Oxford o a Harvard.  Saman si sentiva una ragazza italiana. Come Hina, come Sana, come Azka. Ragazze per cui essere italiane significava indipendenza e libertà. Ragazze che l’Italia non è riuscita a proteggere in nome di un pilatesco, malinteso e a volte criminale “rispetto della loro cultura”. E che hanno pagato con la vita la loro scelta di libertà.

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