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Un altro tiro, per favore

Il divieto di fumo all'aperto: difficile da pensare e da far rispettare

Alberto Mingardi

Dopo la giusta legge Sirchia, che vieta di fumare al chiuso, estendere il divieto anche agli spazi aperti è un’aberrazione

Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione”. In alcune auree pagine dei “Promessi sposi”, Alessandro Manzoni ha descritto una delle più autentiche regolarità della politica. La tendenza, cioè, a continuare ad arare il terreno già arato. Specialmente se un intervento sembra non dare i risultati attesi, il potere politico farà sempre alla stessa maniera: ne vorrà di più, raddoppierà senza mai considerare nemmeno l’ipotesi di aggiustare il tiro. Sulla carta, perlomeno. Antonio Ferrer, costretto a constatare che le sue decisioni in materia di calmieri e fornai hanno avuto un esito diverso da quello desiderato, arriva a immaginare una sorta di stato di polizia cerealicola: chiunque ha granaglie in casa non ne può comprare, tutti sono cordialmente indicati a denunciare chi nasconda farina in eccesso. Il realismo rispetto alle possibilità di applicazione della norma non è cosa di cui debba curarsi il legislatore.

 

Il governo Meloni pare intenzionato a estendere all’aperto il divieto di fumo. Fra tanti distinguo, è un momento di continuità con gli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi, cui si deve la legge Sirchia che ha proibito il fumo al chiuso. Fra chiuso e aperto c’è una differenza fin troppo evidente per doverla sottolineare. Il ministro della Salute Schillaci vorrebbe estendere il divieto al chiuso anche alle sigarette elettroniche, abolire le sale fumatori negli aeroporti e in quei locali che se le sono volute e realizzate, in piena coerenza con le norme e con costi ingenti, impedire il consumo di sigarette (e-cig) se si pranza o si prende un caffè all’aperto, o se si aspetta un autobus, e persino il fumo nei parchi, se si oltrepassa la distanza di sicurezza (due metri) da bambini e donne incinte. 

 

Non è ben chiaro perché il ministro della Salute, se non per il titolo altisonante che si porta appresso, abbia deciso di muoversi in questo senso. La legge Sirchia è stata accettata dal grosso della popolazione, fumatori inclusi. La norma è stata pensata per limitare i rischi del fumo passivo ma è stata rispettata perché apprezzata, e apprezzata perché ha eliminato qualcosa che molti ritenevano fosse un vero fastidio.

 

Il divieto all’aperto è difficile da argomentare, riferendosi al fumo passivo. Quello attivo è oggetto da anni di martellanti campagne d’informazione. Sappiamo tutto, sin dalla più tenera età, dei danni che induce. Esattamente come sappiamo che mangiare a quattro palmenti o non fare movimento nuoce al nostro organismo. Una differenza fra i paesi liberi e quelli che liberi non sono è che nei primi le persone possono non curarsi della salute del proprio spirito, e nemmeno di quella del proprio corpo. O almeno, potevano. Il supplemento di educazione richiesto ai fumatori non può essere un assegno in bianco, come invece pare sia. La legge Sirchia fu preparata da un vasto dibattito. Ora non si discute neanche più.

 

La norma ha funzionato, ma evidentemente per alcuni non abbastanza. L’equilibrio che si è stabilito fra disposizioni di legge e abitudini delle persone è insoddisfacente. Per quanto i consumi si siano ridotti, a un certo punto si sono stabilizzati. Sigarette se ne continuano a vendere, fra l’altro l’erario ne trae serenamente beneficio, e chi ha perso il vizio è stato aiutato dalla disponibilità di surrogati: come le sigarette elettroniche. C’è ancora chi fuma. È una libertà, per chi la esercita non la più insignificante.

 

Giustamente Meloni ha più volte detto che “il modello della privazione della libertà non ha funzionato”. Vale solo per il Covid? Segnaliamo al ministro che restano da sistemare alcuni dettagli. Nel mondo di ieri lo stato interessante o meno de* signor* era materia strettamente personale, la nuova norma ne fa, almeno per quel che riguarda i pochi cittadini tabagisti rimasti (per loro, il plurale resta maschile), una questione pubblica. Urge dunque pensare come distinguere in modo chiaro e non controverso una generosa dotazione adiposa, più o meno temporanea, dallo stato di gravidanza. Un distintivo al bavero della giacca?

 

A Milano vige dal gennaio 2021 una norma che impedisce di fumare all’aperto se ci sono altre persone nel raggio di dieci metri. Per quanto nel capoluogo lombardo i devoti della sharia del politicamente corretto siano più numerosi che altrove, capita di vedere gente con la sigaretta alle labbra alla fermata del tram e per ora nessuno ha scagliato la prima pietra. Il fatto che una disposizione analoga adesso diventi legge dello stato impone di attrezzarsi per farla rispettare. Come si fanno a calcolare i due metri? Ciascuno di noi dovrà portarsi appresso uno strumento di misurazione? Se sì, è inaccettabile che diventi un onere per i più poveri, che non sono i meno propensi a fumare. Siamo pronti al centimetro di cittadinanza? Appunto, chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione.

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