American fiction (gettyimages) 

Il ritratto

Da “cowboy vecchio e stupido”, Percival Everett non ricorda che libri ha scritto

Mariarosa Mancuso

L'autore di “Cancellazione” che ha ispirato “American fiction” ora dice di soffrire di "work amnesia"

Interrogato nel 2017 dalla Paris Review per la splendida serie “The Art of Fiction”, Percival Everett considerava il film di Mel Brooks “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” uno dei più seri tentativi di affrontare la questione afro-americana. In particolare, la scena con lo sceriffo nero che arriva nella cittadina western, vestito Gucci da capo a piedi. Gli abitanti rumoreggiano, “è per questo che abbiamo ammazzato gli indiani?”. La tensione sale, lo sceriffo fa una mossa geniale: si punta la pistola alla tempia e grida “fermi tutti o ammazzo il negro”. Un ragazzino sorridente al posto dello sceriffo, sempre con la pistola puntata alla tempia, sta in copertina alla nuova edizione di “Cancellazione”, da La nave di Teseo. Con il riferimento ad “American Fiction” – premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale – sulla fascetta.

Nel volume di “Conversazioni letterarie” da lui curate (Neri Pozza) Adam Biles racconta l’incontro con Percival Everett nella libreria parigina “Shakespeare and Company”. Fondata da Sylvia Beach per gli expats che cercavano libri in inglese, divenne un salotto letterario frequentato da Ernest Hemingway, James Joyce, Ford Madox Ford e Ezra Pound. Negli anni 50, fu il rifugio della Beat Generation (qualcuno ci dormiva, in cambio di qualche ora di lavoro). Era il 2012, erano da poco usciti “Cancellazione” e “Non sono Sidney Poitier”: la storia di un nero molto ricco battezzato proprio così. “Non sono” fa parte del nome proprio.


Si parla di identità, e Percival Everett subito chiarisce che non gli interessa l’identità. Ha occhi solo per la sua identità. Quella che, ammette, gli ha fatto fare qualche passo falso romanzesco. Per esempio, in “Non sono Sidney Poitier” un personaggio che si chiama Percival Everett. “Grazie a Dio l’ho fatto solo in quel libro. Prendevo in giro un sacco di gente e mi sono detto ‘potrei ridere un po’ anche di me’. Mi sono reso conto che facevo ridere parecchio, è stato un po’ deprimente. Come la definizione di non-fiction, o di non-bianco: quando mi guardo allo specchio la mattina non penso a me come a un non-bianco”. Lo pseudo-Everett insegna Letteratura creativa all’università. Come il vero Everett, al centro di un ritratto riproposto ieri sul sito del New Yorker. Non si parla del successo di “American Fiction” di Cord Jefferson, né delle candidatura all’Oscar. Percival Everett si presenta come un “cowboy vecchio e stupido”. Convinto che i suoi 24 romanzi non valgano granché. Lui comunque soffre di “work amnesia”, amnesia lavorativa: una volta pubblicato un libro se lo dimentica. All’intervistatore, dice di non sapere nulla.

Il poveretto supplisce ricordando che l’idea di “Cancellazione” arrivò con la lettura di Sapphire e del suo sgrammaticato volumetto “Push”: la ragazzina nera che a 12 anni è stata messa incinta due volte dal padre. Avevamo il sospetto, per aver letto a suo tempo “Push”, osannato per lo “sporco realismo”, e per aver calcolato gli anni. Ora abbiamo la certezza. Percival Everett si infuriò per la cifra offerta all’autrice per il tascabile. E perché si era reso conto del razzismo esercitato contro di lui, restio – eufemismo – ad accettare che il colore della pelle definisse la sua arte. Figlio e nipote di medici – il bisnonno era uno schiavo emancipato – Percival Everett ha dedicato l’ultimo libro – “James” – a una riscrittura di Mark Twain. “Le avventure di Huckleberry Finn”, uscito nel 1884. Dal punto di vista di Jim, lo schiavo fuggitivo amico di Huck. Ne fa un avido lettore, in dialogo con Rousseau e Voltaire. L’obiettivo del “romanzo che tutti odieranno” – confessato due anni fa al Guardian – è ancora lontano.

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