Linda Blair ha interpretato Regan MacNeil, la dodicenne posseduta dal demone Pazuzu nell’“Esorcista” di William Friedkin 

William Friedkin è morto mentre “L'esorcista” compie mezzo secolo: cosa successe quando arrivò nei nostri cinema

Andrea Minuz

Le ragioni di un successo strabordante: “satanismo alternativo alla psicanalisi”, “crisi dei valori”. Per Moravia era “propaganda cattolica”. Imitazioni, plagi e parodie all’italiana arrivarono subito a valanga. Dalle commedie sexy a “L’esorciccio”, delirante e psichedelico. Così il maligno stregò l’Italia

Nel Natale del 1973, sfidando il gran freddo, il nevischio e una temperatura sotto lo zero, molti newyorchesi passavano ore in fila davanti ai cinema, accendendo anche falò agli angoli delle strade, pur di vedere il film di cui tutti parlavano. “L’esorcista” era uscito solo in poche sale e i biglietti finivano subito. Alla Warner erano ancora titubanti. Aspettavano di capire cosa fare dopo qualche anteprima contrastante. L’avevano già stroncato Vincent Canby sul Times e la perfida Pauline Kael sul New Yorker (“sembra uno sceneggiato degli anni Cinquanta con un sacco di parolacce e gli effetti speciali”). L’idea di un film su una dodicenne posseduta dal diavolo sembrava insomma una scemenza improbabile. Ma la gente correva al cinema. “L’esorcista” era un evento. Si andava a vederlo sulla scia di un passaparola truculento: vomito, nausea, attacchi di panico, malori diffusi, svenimenti, toilette inagibili a metà proiezione e ambulanze che arrivavano davanti ai cinema a sirene spiegate. Circolavano anche leggende metropolitane su una fantomatica “Exorcist barf bag”, distribuita nei cinema all’ingresso, come i sacchetti per vomitare in aereo. Non poteva esserci campagna pubblicitaria più potente. La mania per possessioni e presenze maligne prese il largo. Il libro di William Peter Blatty, già caso letterario e bestseller, tornava in classifica, e mentre psichiatri, specialisti, gesuiti si azzuffavano sulla veridicità della vicenda, “L’esorcista” diventava il più grande incasso di sempre della Warner, superato anni dopo da “Batman” di Christopher Nolan e oggi da “Barbie”.

In Italia arrivò nell’ottobre del ’74, preceduto da una doppia anteprima a Milano e Roma, il 20 settembre. C’era già il libro, tradotto da Mondadori. Tutti conoscevano la storia. Se n’era parlato anche nei rotocalchi femminili. Ormai da giorni i quotidiani riportavano dettagliate cronache dell’isteria americana, aggiungendo qualche elemento in più, come “vari ricoveri in cliniche psichiatriche” e “persino un aborto”, secondo il Corriere. Ci si domandava come avrebbe reagito il pubblico italiano davanti a quell’“inimmaginabile turpiloquio, senza contare l’elemento escrementizio” (sui giornali si scriveva ancora così). Si rivelavano dettagli decisivi per tranquillizzare l’opinione pubblica. Per esempio, che tutto quel vomitazzo verde di Regan altro non era che un bibitone di “purea di piselli”, o che nella scena della masturbazione col crocifisso “la bambina era stata doppiata da mani adulte”. Per la prima milanese i cronisti erano appostati dentro i bagni, aspettando di cogliere sul fatto gli spettatori. Gli esercenti milanesi si erano invece attrezzati “con ammoniaca, sali e segatura”. Sui giornali, con apposite tabelle, si riportava il numero esatto di svenimenti sala per sala, innescando così una competizione tra i cinema: “Ne abbiamo avuti quindici solo nello spettacolo delle tre!”, diceva il direttore del cinema Tonale, in zona Stazione centrale, ammettendo però che “L’esorcista” era una manna anche per ladruncoli e borseggiatori, “tra uno svenimento e l’altro sono spariti una ventina tra borsette e portafogli”. Campeggiava come prova evidente la foto di una ragazza svenuta davanti al cinema, mentre “la folla che aspettava di entrare bloccava il passaggio delle filovie”. Al cinema Manzoni le ambulanze tornavano indietro vuote, “perché nel frattempo gli svenuti si erano ripresi, e avendo ormai pagato il biglietto volevano finire di vedere il film”. Fuori dal cinema si registravano anche un po’ di proteste dei “giovani della nuova sinistra” che intimavano al pubblico di non andare a vedere “l’ennesima pagliacciata dell’America di Nixon”, ma faceva più notizia la ressa degli spettatori che, sempre al Manzoni, “aveva spostato di due metri la cassa con dentro anche la cassiera”. Comunque, il Corriere rassicurava i lettori: “Alle scene madri i milanesi hanno riso”.

A Roma invece oscuri presagi. Alla prima del film, al cinema Metropolitan, c’era stato un forte temporale e un fulmine aveva fatto caracollare in strada “una croce di ferro di due metri”, piovuta “dal tetto di una chiesa lì vicino”. Molti spettatori se n’erano tornati a casa spaventati, rinunciando a vedere il film. Anche a Roma scene di isterismo, vetrine in frantumi, resse. I giornali registravano un certo gender gap negli svenimenti: “Gli uomini si afflosciano in silenzio e cadono a terra, mentre le donne si sentono mancare dopo aver urlato a lungo”. Però in generale a svenire erano quasi solo gli uomini, anche se a Siracusa una donna era morta d’infarto “subito dopo aver visto ‘L’esorcista’”.

Il fenomeno dilagava anche da noi. Riemergeva con “L’esorcista” tutta un’Italia arcaica, rurale, magica e superstiziosa. File più lunghe davanti alle chiese che ai cinema: a Sarsina, in provincia di Cesena, ecco un santuario specializzato in “esorcismi col collare di San Vicinio”; “Qui li facciamo ogni giorno”, spiegava un sacerdote, “mattina, pomeriggio, sera, si alternano diversi preti, ora la richiesta è tanta”. “Una maga a Milano ha visto ‘L’esorcista’, ecco cosa ne pensa”. E la maga rievocava “el pret de Ratanà”, che fermava i tram milanesi con la forza del pensiero, e tutte quelle persone in trance che aveva curato in passato, “anche loro posseduti ma non solo da Satana, anche da Hitler e Mussolini”. Il diavolo spuntava un po’ ovunque. Anche ad Alessandria. Qui marito e moglie erano andati dai carabinieri per denunciare una visita notturna di Satana e chiedere di essere esorcizzati. Il maligno era piombato in casa loro per accoppiarsi con la signora, una maestra d’asilo, e l’aveva fatto davanti agli occhi esterrefatti del marito (“marito mio ti ho fatto le corna col diavolo”, era il titolo del reportage dalla Val Padana). Gli incassi erano alle stelle, “sei volte più del film di Pasolini”, si leggeva sui giornali. Non che ci volesse molto. “Il fiore delle mille e una notte” era un softcore arabeggiante con Franco Citti demone e un’evirazione di Ninetto Davoli che non riusciva però a replicare lo scandalo del “Decameron”. C’era invece un po’ di aria di Pasolini nell’“Esorcista”, perché nella versione italiana la bambina indemoniata era doppiata da Laura Betti. Nell’originale, la voce cavernosa e roca di Regan era di Mercedes McCambridge, vecchia star della radio e grande attrice di classici hollywoodiani. Per ottenere l’effetto voluto, Friedkin le aveva ordinato una dieta a base di uova crude, mele acerbe, whiskey e tre pacchetti di sigarette al giorno, aggiungendo poi un po’ di grugniti di maiale in post-produzione. Laura Betti invece fece tutto “al naturale” (e si raccontava di come usasse poi quella tonalità roca e diabolica anche al telefono, chiudendo le chiamate con un “e ora basta, io devo lavorare e tu vattene affanculo”, detto col timbro satanico della piccola Regan). 

In Italia, le ragioni di un successo così strabordante si reggevano su alcune tesi precise. “Il filone irrazionale del satanismo è ormai l’unica alternativa alla psicanalisi”, scriveva il Corriere, “e se la fiducia terapeutica viene meno, ecco lo slancio mistico, con una forte connotazione magica”. Una spiegazione un po’ troppo borghese per l’Unità, che chiamava invece in causa “la decadenza culturale della classe al potere” e una generale “crisi di valori”, traino di questa “moda dell’occultismo, dello spiritismo e del demonismo. “L’esorcista” era un “film oscurantista” cui l’Unità contrapponeva “un valoroso film sovietico sulla lotta contro cancro, perché non c’è mistero che l’intelletto umano non possa svelare”. In pochi però riuscirono a vederlo. Anche Moravia, sull’Espresso, stroncava il film parlando di aperta “propaganda cattolica”. “L’esorcista”, insomma, suonava come uno spudorato endorsement per la Democrazia cristiana che aveva appena perso il referendum sul divorzio. Forse viene anche da qui, dall’isteria per “Belzebù superstar”, come titolavano i giornali, il soprannome affibbiato ad Andreotti da Craxi (“sempre più si diffonde sulla nostra stampa il brutto vezzo di chiamare Andreotti col nome di Belzebù”, scriveva Montanelli, “piantiamola. Belzebù potrebbe querelarci”). Tutti però erano d’accordo su una cosa: “L’esorcista” era solo un’ingannevole operazione di marketing, una colossale montatura pubblicitaria che s’approfittava della solita creduloneria del pubblico (da sempre il nostro cavallo di battaglia per spiegare i fenomeni della cultura popolare, si leggono le stesse cose oggi su “Barbie”). “In un clima da baraccone ‘L’esorcista’ inizia anche sui nostri schermi l’irrefrenabile scalata alle classifiche degli incassi”, scriveva la Stampa, “ne è garante la sapiente organizzazione del cinema commerciale americano accompagnata dalla costante credulità delle masse. E’ concepito come un grosso affare. E’ un diavolo evocato per fare quattrini”. Il fenomeno dell’“Esorcista”, coi suoi rivoli di cronache paranormali, continuò a tenere banco sui giornali per settimane. “Stanchi dell’Esorcista”, titolerà poi il Corriere ormai a ridosso di Natale, “i milanesi decretano il successo di Tognazzi” (il film era “Romanzo popolare” di Monicelli). “L’esorcista” usciva dagli schermi cinematografici italiani ed entrava nel mito.   

Scomparso due settimane fa, mentre “L’esorcista” compie mezzo secolo esatto, William Friedkin amava ripetere che ci sono solo tre buone ragioni per fare un film: “Per far ridere il pubblico, per farlo piangere o spaventarlo a morte” (quasi mai “per farlo riflettere”, come dicono critici e registi presuntuosi). Arrivato a dirigerlo dopo vari registi tiratisi subito fuori, tra cui Stanley Kubrick e Mike Nichols, con “L’esorcista” Friedkin ha dato agli spettatori qualcosa che sin lì non s’era mai visto. Nella “Horror Hall of Fame” c’è un prima e un dopo. Imitato, scopiazzato, celebrato dai tanti epigoni del genere, il film continua a produrre i suoi effetti ancora oggi. Centinaia di turisti finiscono ogni anno in un tetro vicoletto di Georgetown, a Washington, per farsi un selfie sulla famigerata “scalinata dell’Esorcista”, nel punto esatto dove ruzzola giù padre Karras, scaraventato dalla finestra al culmine della sua lotta col demonio. Visto al cinema negli anni Settanta, nei primi passaggi televisivi, “L’esorcista” ha continuato a tormentarci a lungo coi suoi fluidi verdastri, le urla feroci, le bestemmie, le teste rotanti, i letti che sobbalzavano per aria. Era però molto più di un horror, e la sua ricchezza è cresciuta nel tempo. Trascendentale, metafisico, teologico, tutt’altro che blasfemo e anzi “molto cattolico”, come ha ricordato su questo giornale Maurizio Crippa, “L’esorcista” trascinava lo spettatore nell’inesorabile distruzione di un ambiente familiare. C’era questa lunghissima prima parte in cui non succedeva nulla, ipnotica come un film di Bergman, tra visite mediche, Tac, controlli, prelievi del sangue, referti dei medici. Uno straziante girare a vuoto ma che appunto agli occhi di atei e credenti rendeva tutto il resto plausibile, persino la presenza del demonio in casa.

Imitazioni, plagi e parodie all’italiana arrivarono subito a valanga. Da noi “L’esorcista” si mixava col filone boccaccesco scaturito dalla “trilogia della vita” di Pasolini, un diluvio di commedie sexy allora di gran voga, “La bella Antonia, prima monica poi dimonia”, “Metti lo diavolo tuo nel lo mio inferno” e cose così. Dall’oscuro medioevo erotico agli esorcismi il passo era breve. Già il giorno della prima milanese ecco “L’ossessa”, annunciato come “la risposta italiana all’Esorcista”, con Stella Carnacina, pin-up, cantante, reginetta della commedia sexy, poi conduttrice del Festivalbar, oggi amministratrice della Carnacina Immobiliare, specializzata in ville di Roma nord. Ecco anche “L’anticristo”, con Carla Gravina, ambientato “nella Roma dell’alta nobiltà vaticana”, che sfoderava un amplesso con il crocifisso (ma più grande di quello dell’“Esorcista”), scene di incesto e una furiosa scopata nelle catacombe con un seminarista tedesco. E poi il capolavoro, “L’Esorciccio”, uscito anche col titolo in inglese, “The Exorciccio”, rilettura paesana del film di William Friedkin, ambientata nei pressi di Mentana, subito fuori Roma. Restano agli atti Ciccio Ingrassia che pratica gli esorcismi sfoderando il libretto rosso di Mao e Lino Banfi, posseduto dal demonio, che piscia addosso ai notabili del paese dicendo “l’ora è scoccheta!” (film delirante, psichedelico, reso immortale da Paolo Villaggio, quando Fantozzi, preso possesso del cineclub aziendale, costringe il perfido Guidobaldo Maria Riccardelli amante del cinema d’arte a visionare “per due notti e due giorni di seguito a rotazione: Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia si incazza”). Oggi le parodie dei grandi incassi hollywoodiani finiscono in meme e scenette da social, come Barbie e Ken salvinizzati o melonizzati. All’epoca erano invece un’industria parallela, una miniera d’oro per il cinema italiano. Eravamo imbattibili nel prendere per il culo e riportare alle sagre di paese hit del box-office o grandi film d’autore, come il celeberrimo “Ultimo tango a Zagarolo”, uscito giusto un anno prima dell’“Esorciccio”. 

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