Hayley Atwell, Brian Cox e Simon Pegg a una manifestazione in supporto del sindacato Sag-Aftra in sciopero (Ansa)

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I ceo di Hollywood stretti fra gli scioperi e il crollo della qualità dei prodotti

Mariarosa Mancuso

Era dal 1960 che i due sindacati, sceneggiatori e attori, non scioperavano insieme. “Richieste irrealistiche”, sostiene Bob Iger, ceo del Gruppo Disney. E non è l'unico guaio per i capi che hanno dimenticato tutto quel riguarda il loro lavoro: contano soltanto i risultati in borsa

Centosessantamila attori sono in sciopero dal 13 luglio scorso, portavoce la combattiva Fran Drescher (l’attrice che era diventata famosa in Italia con il telefilm, ancora non si parlava di serie, “La tata”). Gli 11 mila e 500 sceneggiatori sono in sciopero dal 2 maggio, ma da quando anche i colleghi che recitano le loro battute sono scesi sul piede di guerra la temperatura del conflitto si è alzata. Se ne avvertiranno le conseguenze sui red carpet – sfilare in ghingheri e rilasciare interviste fa parte del lavoro, soprattutto ai festival internazionali che scelgono i film in base ai divi che li accompagnano, da fotografare per l’ennesima volta anche se vantano una montagna di scatti.

E noi, possiamo andare al cinema senza far mancare agli scioperanti la nostra solidarietà? Non sarà un comportamento da crumiri? Non lo è, confermano i professionisti interessati. Un cinema che incassa è un bene per tutti, in questi tempi magri che si stavano risollevando. Possiamo guardare i film in streaming. E pagare il biglietto per “Barbie” di Greta Gerwig e per “Oppenheimer” di Christopher Nolan (da noi, a fine agosto) senza far venir meno il nostro sostegno. Sta scritto sul New York Times, che consulta legali e spettatori – uno solo sostiene che bisogna cancellare l’abbonamento a Netflix, lui lo ha già fatto.

Sull’Atlantic, qualche giorno fa, un articolo di Xochitl Gonzalez (sceneggiatore in sciopero) era intitolato “The Businessman Broke Hollywood” – sottotitolo: “e ora non vogliono pagare chi lavora per loro”. I due sindacati, attori e sceneggiatori, non scioperavano insieme dal 1960 – per gli attori era Ronald Reagan a trattare (e i picchetti facevano chiudere i set). Oggi, in piena sintonia con gli sceneggiatori, vogliono “tutti i loro soldi”. Oltre alla paga, quel che il film incassa quando viene venduto all’estero, alle tv, alle piattaforme, ceduto in licenza per farne un videogioco. Vogliono anche protezione, ora che l’Intelligenza Artificiale si appropria della loro voce e della loro immagine.

“Richieste irrealistiche”, sostiene Bob Iger, ceo del Gruppo Disney: “Pericolose e distruttive, soprattutto adesso che anche noi navighiamo in cattive acque”. Dichiara un altro boss (rimasto anonimo per la sua sicurezza) a Deadline: “Resisteremo finché gli scioperanti cominceranno a perdere le loro case”. Situazione da minatori irlandesi, ma neanche Mrs Thatcher pubblicamente avrebbe mai pronunciato una frase simile. C’era da rimettere in piedi una nazione.

I ceo sono davvero in difficoltà, continua Xochitl Gonzalez, e non per colpa degli scioperi. Hanno dimenticato tutto quel riguarda il loro lavoro, contano soltanto i risultati in borsa. E non vale solo per il cinema. Gestiscono le compagnie per produrre dividendi, invece di migliorare la qualità dei prodotti da cui ricavare reddito: siano libri, caffè, oppure film e show televisivi.

I soldi investiti devono produrre soldi, prodotti e contenuti sono un inciampo. Finché, e lo sappiamo tutti, la qualità non sarà così bassa che gli abbonamenti diminuiranno, e i cinema chiuderanno. Resteranno alti, fino al crollo definitivo del sistema, i compensi e i bonus degli amministratori. Ma intanto la “C suite ignorance” – l’ignoranza dei piani alti – ha fatto danni irreparabili.

I “Residual”, o diritti residuali tanto desiderati, si spiegano meglio con un esempio. Gli attori di “Friends” erano molto ricchi per il gran numero dei paesi in cui la serie era stata distribuita, passando poi dalla tv via cavo alla tv generalista. Ora che va in streaming su Max, gli attori dalla piattaforma hanno ricavato molto meno. In passato, nessuno faceva obiezioni all’idea che se un programma o uno show andava bene e girava il mondo, il merito era degli sceneggiatori e degli attori. “Non stiamo inventando qualcosa di nuovo”, dicono. “Stiamo cercando di correggere le distorsioni di un sistema che prima delle piattaforme aveva funzionato bene”.

Certo, poi ci sono gli sceneggiatori ricci, gli attori miliardari, e però in entrambe le categorie gente che stenta la vita. A Los Angeles, una Food Bank fornisce cibo e altri generi indispensabili agli sceneggiatori in difficoltà. In queste condizioni non sappiamo quando l’astensione dal lavoro durerà, prima che gli scioperanti misurino le differenze tra ricchi e poveri.

Poi c’è l’indotto. “A Bright Spot in The New York Economy Goes Dark”, titola il New York Times. La foto mostra Ryan Quinlan che fa l’elettricista sui set, se capita anche lo stuntman e l’attore, e ha un magazzino da trovarobe: lampade, sedie, mobili, varie chincaglierie per arredare i set. Non è l’unico che da New York lavora nel cinema, si parla di 200 mila persone. Solidarizza con gli scioperanti, ma si aspetta mesi difficili: chi vorrà affittare il suo leopardo impagliato? Truccatori, costumisti, scenografi (non solo sulla East Coast) hanno davanti mesi senza lavoro. La Mostra di Venezia quest’anno non avrà i divi Usa. Noi speriamo di aver in futuro ancora i film – lunghi un’ora e mezza, non strascinati a inutili miniserie.

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