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Nuove uscite

Margot come fosse una bambola in una Barbieland pop e allegrissima. Da oggi al cinema il film di Greta Gerwig

Mariarosa Mancuso

L'atteso nuova pellicola su Barbie colpisce per idee, fantasia e cura dei dettagli. Un magnifico viaggio tra incanto e delusioni

"Ricordi la Barbie Proust? Non fu un gran successo”. Lo scambio di battute si immagina tra i dirigenti della Mattel, corvacci vestiti di nero che inseguono la prima Barbie – uguale precisa a Margot Robbie – per rimetterla nella scatola. E’ uscita da Barbieland, un mondo perfetto dal rosa confetto al fucsia, dove vivono Barbie premio Nobel e Barbie presidente, oltre a molte Barbie festaiole e svariati Ken, primo tra tutti Ryan Gosling con i capelli ossigenati. Felicità e piedini arcuati, ideali per i tacchi alti – e pantofoline con pon pon. Uguali a quelle di Grace Kelly nella “Finestra sul cortile” (tolte dalla valigetta con cui vorrebbe seguire James Stewart in pericolose missioni fotografiche).

Esce oggi al cinema “Barbie” di Greta Gerwig – già regista di “Piccole donne” dove faceva comunella con Jo la scrittrice (pensandoci su, è invece Amy la sorella da rivalutare). Inizia come “2001: Odissea nello spazio”: Kubrick mostrava scimmioni sul punto di evolversi, l’osso usato come arma. Qui abbiamo bambine con il grembiulino, e i loro bambolotti. Cullati, nutriti, portati in giro nel passeggino imparando a fare la mamma. Scende dal cielo una gigantesca divinità in forma di Barbie, la Numero Uno: costume da bagno a righe, unghie dei piedi con lo smalto, occhiali da sole. Le bambine la guardano. Poi massacrano i bambolotti a pietrate o lanciandoli per aria

E torniamo a Barbieland, pop e allegrissima. La Barbie basic e pure le altre, avendo fatto l’astronauta e la dentista, sono convinte che anche il mondo reale, raggiungibile in spider rosa su strada nel deserto – quando capotti, sei arrivato di là – sia in mano alle donne. E gli uomini siano altrettanti Ken: interrogato su quello che fa dice solo “spiaggia”. In realtà, fa anche un paio di numeri di ballo niente male, uno in tuta bianca da bravo ragazzo, l’altro in t-shirt nera e i bicipiti belli gonfi.

“Morire” è una parola che non esiste. Quando Barbie la pronuncia, il latte (finto, peraltro) inacidisce. Va a consulto da Barbie Stramba, che nella vita ne ha passate troppe (si sa come fanno le bambine: capelli tagliati brutalmente, trucco con i pennarelli rossi, eterna spaccata perché il meccanismo si è rotto). Diagnosi: c’è una bambina triste che ti pensa. 

Da qui il viaggio nel mondo reale. Cocente delusione: le donne non dirigono niente neppure alla Mattel. Tocca al fantasma di Ruth Handler – la donna che creò Barbie, osservando la figlia Barbara che cambiava i vestitini alle bambole di carta – chiarire qualche punto. Tacendo sul resto: fu presidente della ditta dal 1945 al 1975, quando partì un’indagine per documenti finanziari falsificati.

Ken scopre il “patriarcato”, e spiega agli altri Ken che nel mondo reale gli uomini comandano. Ora è vestito con una pelliccia di ermellino lunga fino ai piedi, potrebbe stare in una tribù di “Fuga da New York”, macchinone nero ornato da due enormi lampadari. Assieme al predominino maschile, scoprono i cavalli e gli abiti da cow-boy con le frange. Restano un po’ tonti, mancando di pratica. Ma già sono riusciti a intontire anche le Barbie studiose, servizievoli come mogli di Stepford.

Qui ci saremmo aspettati una battaglia a colpi di rossetto, tacchi a spillo, spruzzate di profumo, mosse di karate che con le gambe snodate vengono bene. E invece no. La grande fantasia e le idee a raffica, la cura di ogni dettaglio – Barbie e Ken con ginocchiere e  pattini gialli fluo – lascia spazio per una lezioncina, molto ribadita, sui generi. Meno male che nei titoli di coda vediamo le Barbie “sbagliate”, ritirate dal commercio. Midge, la bambola incinta con nascituro estraibile, e uno “Sugar Daddy” raccapricciante. 

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