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Il Foglio della moda

Barbie, la nostra Eva au contraire

Paola Jacobbi

Ha donato una costola a Ken, s’è fatta vestire dal Who’s who della moda, è stata candidata presidente degli Usa vent’anni prima che questo accadesse nel mondo reale. Consigli non richiesti e molti richiami al cinema d’autore per prepararsi al film di Greta Gerwig senza pregiudizi

La bambola Barbie è più famosa dell’attrice che la interpreta in un film in uscita fra due settimane. È più famosa della regista che dirige il film ed è persino più famosa delle molte donne “esemplari”, scienziate e astronaute, sportive ed eroine, cui sono state dedicate le bambole che dovrebbero ispirare le nuove generazioni di bambine affinché diventino anche loro esemplari, di successo, centravanti di sfondamento del tetto di cristallo. Barbie è un giocattolo, venduto da oltre sessant’anni, in tutto l’Occidente e in grandissimi numeri: più di un miliardo di bambole, un’umanità parallela a quella in carne ed ossa, un’umanità di plastica ma sempre fantastica, come cantavano gli Aqua a fine anni Novanta: “Life in plastic, it’s fantastic”.

  

Il film “Barbie” è invece il primo live action che ha per protagonista la bambola uscirà in tutto il mondo il 21 luglio. Dirige Greta Gerwig, che lo ha scritto con il marito Noah Baumbach. Sono una power couple, come si dice. Sceneggiatori e registi da Oscar, lei anche attrice. A volte lavorano insieme (“White Noise”), a volte no (“Piccole donne” lei, “Marriage Story”, lui). Stavolta lei non appare, i protagonisti sono Margot Robbie e Ryan Gosling nei ruoli di quell’altra power couple, Barbie e Ken: asessuati, senza un filo di grasso e con una genesi assai particolare: Ken è nato infatti da una costola di Barbie e non viceversa. Barbie, che nel trailer del film appare con lo stesso costume da bagno a righe bianche e nere che indossava nella sua prima apparizione sul mercato nel 1959, è stata (è) idolo delle bambine da più generazioni: alzi la mano chi non ne ha mai avuta o almeno desiderata una, chi non si sia divertita a pettinarla, spogliarla e rivestirla, chi non abbia sognato quel gran repertorio consumistico di accessori (la macchina, la casa con piscina, le innumerevoli scarpette colorate), segni di quella vie en rose che non conosce contrasti né disperazioni né errori. Io ho avuto una “Barbie Malibu” e manco sapevo dove si trovasse Malibu, ma quelle tre sillabe associate alla bambola bionda mi proiettavano in un immaginario fatto di splendide attività. Ma so che bene che nel tempo Barbie, come tutti gli idoli che si rispettino, ha raccolto parecchie critiche, soprattutto nell’ultimo ventennio. Primo esempio: “Barbie è la materializzazione della supremazia bianca e wasp”. (Non è vero: già negli anni Sessanta, esistevano delle varianti black, poi sono seguite le Barbie latine, asiatiche e native-american). Secondo esempio: “Barbie è un modello fisico irraggiungibile, induce all’anoressia”. (Non è vero, vi pare che una bambola possa indurre all’anoressia? Comunque sia, la Mattel, l’azienda che la produce, nel 2016 ha creato Barbie curvy, tall e petite, cioè curvacea, altissima e bassina, e anche una Barbie in carrozzella: ndr, non hanno avuto successo). Infine, l’accusa più diffusa: “Barbie è una donna oggetto”. Non è proprio vero nemmeno questo: se c’è una figura opaca in quella coppia, è Ken. Anzi, fossi in lui, mi ribellerei. Ken è ancora, nel 2023, un bellimbusto tutto sport e distintivi, mentre Barbie sarà anche nata come “fashion model” ma poi ha praticato oltre duecento professioni e si è persino candidata alla presidenza degli Stati Uniti. È successo nel 1992, tra l’altro, cioè ben prima che ci fossero candidate donne nel paese reale.

  

Del resto, Barbie è l’invenzione di una donna: Ruth Handler, moglie di uno dei due fondatori della Mattel. Aveva notato che la figlia Barbara si divertiva assai con le bambole di carta. Cambiava loro d’abito e le immaginava nel mondo adulto, in un’epoca in cui le sole bambole sul mercato erano in forma di poppanti, per educare le bambine ad essere madri in futuro, unica identità possibile nel 1959. Così Ruth, evidentemente femminista malgré soi, propose al marito l’idea di Barbie (il nome in omaggio alla figlia) e da lì un metaverso intero ha preso vita. Il progetto di un film live action su Barbie è iniziato a girare per le scrivanie di Hollywood nel 2014, sotto forma di una sceneggiatura di Jenny Bicks (una delle autrici di “Sex and the City”) poi passata per le mani di Diablo Cody (“Juno”, “Tully”) che l’ha riscritta e che avrebbe dovuto dirigerla, prima di dare forfait. Non è stata facile neanche la selezione delle attrici: nel 2016, Barbie avrebbe dovuto essere interpretata dalla comica Amy Schumer che, alla fine, ha sbattuto la porta per “divergenze creative”.

 

Dopo un nuovo periodo di stallo, viene arruolata come protagonista Anne Hathaway; segue nuovo abbandono del Barbie World. Infine arrivano Gerwig e Baumbach e promettono faville, insieme al loro cast di pregio. Oltre a Margot Robbie e Ryan Gosling, i due si sono persino concessi il lusso di chiamare Helen Mirren come voce narrante e la popstar Dua Lipa per la colonna sonora. Il resto lo vedremo al cinema. Per prepararsi, consiglio il finale di “Toy Story 2”. Un’automobilina con a bordo un gruppo di giocattoli tra cui un dinosauro e un maiale, corre a tutta velocità. Uno dei pupazzi strilla: “Siamo già passati da questo corridoio!”. Un altro risponde: “Ma no, guarda, è rosa!”. I giocattoli (maschi) si straniscono quando entrano nel mondo in rosa dove, avete indovinato, trovano Barbie. Mica una sola: un esercito di Barbie in bikini che ballano. Persino il dinosauro resta colpito. Appare una Barbie Guida Turistica (non in bikini ma in divisa da hostess) che li accompagna all’uscita. Alla fine, saluta tutti e quando è certa che non ci sia più nessuno, nemmeno in sala perché il film è finito, esclama: “Finalmente posso smettere di sorridere, mi fanno male le mascelle”.

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