Hollywood scopre che il futuro è nei prequel, cioè nel fare storie con gli avanzi

Mariarosa Mancuso

I prequel stanno sostituendo i sequel: le major preferiscono andare sul sicuro, sono più semplici da maneggiare e nessuno è mai stato licenziato per il loro insuccesso. “I Soprano”, “Lightyear” e altri casi più o meno ignobili

Stavamo guardando “I molti santi del New Jersey”, titolo italiano per il prequel dei “Soprano” (nelle sale da ieri). Regista Alan Taylor, protagonista Alessandro Nivola con Michael Gandolfini figlio di James, e un vorticoso intreccio di riferimenti alla serie finita nel 2007. Solo i fanatici come noi l’hanno vista e rivista. Quando un Moltisanti parla dalla tomba – niente spoiler, è la prima scena del film – sappiamo benissimo di cosa è morto. Difficile immaginare l’effetto che fa a chi non conosce la famiglia Soprano (ricuperare, però, non sapete cosa avete perso).


Il cinema che diventa flashback, e torna all’origine di storie che conosciamo (o dovremmo conoscere) ha colpito anche Helen O’Hara, giornalista del Guardian. Colpa del trailer di “Lightyear”, film Pixar in uscita nel 2022. L’hanno visto in tanti, senza il solito entusiasmo: punta solo sul personaggio, l’astronauta di “Toy Story”, e qualche effetto speciale, che però in un film d’animazione sono la regola. Neanche le spiegazioni del regista Angus MacLane hanno convinto. Il film vorrebbe raccontare le avventure spaziali del vero Buzz Lightyear, se si può dire “vero” del personaggio-giocattolo di un film d’animazione che diventa l’eroe di un altro film di animazione. Complicanza, perché evidentemente i registi hanno la memoria corta: nel primo “Toy Story” l’astronauta-giocattolo era convinto di essere un individuo, a differenza dei compagni. Si convince solo quando vede se stesso moltiplicato sugli scaffali del negozio.


“Lightyear” è la punta dell’iceberg, ora che i prequel stanno sostituendo i sequel. Le major hollywoodiane amano andare sul sicuro, scrive O’Hara: nessuno è mai stato licenziato per aver dato il via a un sequel o a un prequel. Finora alle infanzie e giovinezze si dedicavano le serie: il giovane Norman Bates, il giovane Sheldon (da “The Big Bang Theory”), il giovane avvocato Saul Goodman (da “Breaking Bad”) e in Italia il nostro giovane Montalbano. 


Nella categoria “certe cose non le vogliamo neanche sentire”, un paio d’anni fa era stata annunciata la serie “Gatz”. Ovvero, quando il Grande Gatsby ancora non era tale, e se ne andava perfino lassù, verso Harlem. Per fortuna del progetto si sono perse le tracce. Molestano perfino un personaggio che deve il suo fascino romanzesco a un passato che Francis Scott Fitzgerald preferisce lasciare nell’ombra. Immaginate cosa potrebbe succedere ai personaggi e alle storie che Jeff Bezos si è comprato con la Mgm (o quel che ne resta, più che sufficiente per inventare una storia in cui James Bond da piccolo era molto amico della Pantera Rosa).


Il futuro sta nei prequel. Solo le ragazze di “Sex & the City”, dopo qualche film malamente congegnato, sfuggono alla moda mettendo in cantiere per dicembre dieci episodi di una serie intitolata “And Just Like That…”. I prequel facilitano anche i passaggi di testimone. Via Johnny Depp, che ora dà la voce ai “Puffins”, cortometraggi d’animazione con il pinguino imperatore. Ne “La fabbrica di cioccolato” entra Timothée Chalamet (e chissà che ne sarà degli Umpa Lumpa, mica tanto in linea con i nuovi standard puritani).


Ognuno è libero di fabbricare le storie con gli avanzi, se gli va. E’ stato calcolato che le storie originarie sarebbero sette in tutto, le altre sono variazioni. Il fatto è che le “origin stories” risultano particolarmente antipatiche, molto spesso ridotte come sono ad altrettante “infanzie difficili”, prima di passare al “lato oscuro della forza”. Il trucchetto di sceneggiatura che il grande regista Sidney Lumet chiamava “psicologia del pupazzetto”: da piccolo gli hanno rubato il giocattolo, da grande farà il serial killer.

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