(foto Unsplash)

Netflix spiegata da David Foster Wallace

Mariarosa Mancuso

No, lo streaming non esisteva ancora, ma fu lo scrittore a immaginare in “Infinite Jest” sistemi tv che avrebbero controllato lo spettatore fingendo di coccolarlo. Il “Leviatano”, gli algoritmi e un libro sul postmoderno

"Una cosa divertente che non farò mai più”. Era il reportage di David Foster Wallace sulle crociere. Una cosa che invece faceva sempre era guardare la televisione: “un modo facile per riempire il vuoto”. Negli anni 90, quando lo streaming ancora non esisteva, non era un impegno di poco conto. Lavorando di fantasia, nel romanzo “Infinite Jest” (1996) immaginò sistemi televisivi che avrebbero controllato lo spettatore fingendo di coccolarlo, e di seguire i suoi gusti. Tolto il sovrappiù di paranoia, aveva già in mente Netflix, che attualmente occupa per funzionare il 15 per cento della larghezza di banda a disposizione nel mondo. Lo scrive Stuart Jeffries, nel libro “Everything. All the Time. Everywhere”. Sottotitolo: “Come siamo diventati postmoderni”. Un’anticipazione su Lit Hub ricorda che la svolta di Netflix (nata come ditta di noleggio Dvd) si deve a Ted Sarandos, e che Ted Sarandos aveva lavorato a Phoenix in un videostore, come Quentin Tarantino. Il “se ti è piaciuto questo ti consiglio quest’altro” l’ha imparato sul campo. E anche noi nel nostro piccolo l’abbiamo sempre adoperato quando qualcuno che non conosciamo vuole consigli su un libro o su un film. 

 

Lo scrittore americano David Foster Wallace (foto Olycom)

Solo che un conto è applicare il metodo al noleggio, dove la lista dei desideri verrà soddisfatta a distanza di qualche giorno. Un altro conto è applicarlo a Netflix, dove tutto è a portata di clic. Gli algoritmi devono cambiare (attualmente ci lavorano 800 ingegneri), tenendo conto anche di quel che abbiamo cercato alle tre del pomeriggio, per ingannare la noia e senza intenzioni serie di guardare il programma. Chiedere allo spettatore “cosa ti piace” è l’ultima cosa da fare: rispondono, è sempre Sarandos che lo dice, “film stranieri e documentari” (che mai guarderanno: per lo stesso motivo i sondaggi elettorali sbagliano). David Foster Wallace sostiene la sua intuizione scomodando il “Leviatano” di Hobbes, anno 1651. Davanti a un’offerta sconfinata (che lui non fece in tempo a sperimentare davvero, è morto nel 2008, “House of Cards” comincia nel 2013) ci sentiamo persi. Troppa libertà nello “stato di natura” richiede che il potere sia delegato a qualcuno che decida per noi. Nel caso degli algoritmi preposti allo streaming, siamo anche disposti a pagare. L’incubo sarebbe scegliere in un catalogo alfabetico: in fondo anche i calzini stanno tutti raggruppati in un cassetto, le magliette da un’altra parte, e il sistema funziona.

David Foster Wallace scriveva queste cose nel 1996, la televisione ricordava i suoi inizi da “finestra aperta sul mondo”. Stava cominciando però a diventare autoreferenziale, come accadeva in letteratura con gli scrittori postmoderni. Non esistevano ancora i social, che portano via tempo (c’è perfino la combinazione schermo grande/schermo piccolo, parlando di vuoti da riempire). Il movimento letterario sembrava difficile da definire, e nello stesso tempo l’etichetta era applicabile a qualsiasi cosa. Ora è tutto più chiaro. E’ quando andiamo in un posto per fotografare quel che è stato fotografato un milione di volte.

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