Diego Armando Maradona (LaPresse)

al festival di Venezia

“Per grazia ricevuta". Sorrentino rende omaggio a Maradona

Francesco Palmieri

Il titolo, manco a dirlo, è “È stata la mano di Dio”. Un revival di straordinaria nostalgia sulla Napoli degli anni Ottanta girato da chi ha vissuto scudetti e trionfi, ma anche il più misterioso dei miracoli

"È stata la mano di Dio", il nuovo film di Paolo Sorrentino, verrà proiettato oggi alla settantottesima edizione del Festival di Venezia. Qui di seguito l'articolo che Francesco Palmieri ha scritto sul Foglio del Weekend per presentare la pellicola, dedicata alla carriera di Diego Armando Maradona.


 

L’unica storia che vorrebbe raccontare è la sua, ma non ne ha il coraggio. Non per pudore, ma perché gli provoca un dolore indicibile.
P. Sorrentino, “Gli aspetti irrilevanti”

 

A Napoli fuori dal campo Diego Armando Maradona manifestò la facoltà, tipica dei santi inclini ai portenti, di apparire all’improvviso nei posti e nelle ore più inattese, sicché talvolta chi lo aveva visto non credeva ai suoi occhi o non era creduto quando lo raccontava. Per quest’esigenza primordiale, la conferma di un’epifania, chi lo scorgeva ne gridava il nome, affinché una folla certificasse che Diego stava veramente lì. Circa quarant’anni dopo, il tempo ha sminuzzato o dilatato i ricordi secondo la perenne prassi: abolizione biologica dei testimoni, deformazione della memoria, stratificazione di migliaia di sogni su altrettanti giorni che li smentiscono. Svantaggiato rispetto a san Gennaro, che ripete a scadenza fissa il prodigio del sangue indifferente al tempo e a chi non crede, Maradona ha sezionato i napoletani in tre categorie (più una): chi se n’andò prima di vederlo e si consola in cielo con Sallustro, Jeppson, Sivori e Vinicio; chi lo vide giocare e con lui vinse due scudetti e Coppa Uefa come pezzi tangibili di paradiso; chi arrivando dopo ha assorbito la leggenda, l’ha goduta di seconda vista su YouTube, ne ha fatto macchina del tempo per già esserci quando non era nato, mentre Maradona grasso e malato, incorreggibile e immalinconito, era pur sempre vivo. (La quarta categoria, per ora ancora tra parentesi, è di quelli venuti dopo il 25 novembre 2020, data della definitiva morte fisica del Pibe).

 

Paolo Sorrentino ha il privilegio di appartenere alla seconda specie di napoletani e gli correva l’obbligo di attestare col suo cinema, un giorno o l’altro, i prodigi della “mano di Dio”, tra cui il più cospicuo fu di salvargli la vita a diciassette anni. Quando per vedere una partita in trasferta non seguì i genitori nel fine settimana a Roccaraso, dove morirono nel sonno per una fuga di gas. (Quel 5 aprile 1987 fu Empoli-Napoli e qualche bella giocata di Diego non bastò a sbloccare lo 0-0 su un campo così tignoso che solo con l’arrivo di Maurizio Sarri sulla panchina azzurra, molti anni dopo, sarebbe stato espugnato). “La realtà è scadente” è il meno che può dire un ragazzo rimasto orfano di padre e madre all’improvviso. E’ la frase che pronuncia Fabietto Schisa, protagonista autobiografico di “È stata la mano di Dio”, nel trailer del film scritto e diretto da Sorrentino e prodotto da The Apartment, società del Gruppo Fremantle. Presentata in anteprima mondiale il 2 settembre a Venezia in concorso alla 78esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica, la pellicola, spiega il comunicato ufficiale, è “la storia di un ragazzo nella tumultuosa Napoli degli anni Ottanta. Una vicenda costellata da gioie inattese, come l’arrivo della leggenda del calcio Diego Armando Maradona, e una tragedia altrettanto inattesa”. Ha scritto il regista su Instagram: “Da ragazzi, il futuro ci sembra buio. Barcollanti tra gioie e dolori, ci sentiamo inadeguati. E invece il futuro è là dietro. Bisogna aspettare e cercare. Poi arriva. E sa essere bellissimo. Di questo parla ‘E’ stata la mano di Dio’. Senza trucchi, questa è la mia storia e, probabilmente, anche la vostra”.

 

“Tumultuosa” sì fu Napoli dopo la cesura del terremoto nel 1980, che aprì la sua terra a un decennio fatto di splendori e orrori e chiuse un Dopoguerra dagli interminabili tempi supplementari per cominciare tutt’altra partita. Il cinema mandò in archivio i vecchi delinquenti, che Sergio Corbucci aveva fatto in tempo a immortalare con “Giallo napoletano” e “La mazzetta” alla fine degli anni Settanta, mentre la cronaca spazzava via l’ultimo guappo: Antonio Spavone ’o malommo, sfigurato dai proiettili di Raffaele Cutolo, dovrà rifarsi un viso di plastica e ritirarsi a vita privata. L’avvento della Nuova camorra organizzata e la guerra contro i clan della Nuova famiglia sfarinarono il contrabbando di sigarette sugli scafi blu, quello dei film con Mario Merola, in un ricordo quasi romantico rispetto alla dimensione industriale che acquisiva la criminalità. Grazie ai fondi per la ricostruzione del dopo terremoto (56 mila miliardi di lire), al traffico dell’eroina e alle collusioni politiche, la camorra diventa negli anni Ottanta “un’impresa polivalente, la più solida nel panorama meridionale; temuta e ricercata, partecipa a tutti gli affari, nelle migliori compagnie”, nota lo storico Francesco Barbagallo.

 

Il film più suggestivo di quegli anni è “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore ispirato al libro di Joe Marrazzo sulla vita di Cutolo. Però aiuta a capire anche “Mi manda Picone” di Nanni Loy, con Giancarlo Giannini che s’aggira di notte tra i palazzi puntellati dopo il terremoto. Palazzi e notti puntellate da cui muove anche Massimo Troisi nella scena iniziale di “Ricomincio da tre”. Furono inseparabili dramma e commedia, ardori culturali e fetori stradali. Per Napoli camminano Andy Warhol, Joseph Beuys, Pino Daniele, terroristi, pazzi sparsi e i sicari dei clan. Il capo dei boss vincenti contro la Nco di Cutolo si chiama Luigi Giuliano, alias ‘Lovegino’ perché piace alle donne, tanto spietato quanto dedito alla musica neomelodica, per cui scrive testi che diventeranno molto più famosi delle poesie di campagna composte da Cutolo. E ‘Annarè’ di Gigi D’Alessio vola al di là dei labirinti di Forcella.

 

Ma un giorno all’improvviso nel 1984 da Barcellona arriva Diego Armando Maradona e nessuno, né gli intellettuali del centro né gli sbandati di periferia, né i guaglioni dei Quartieri Spagnoli né quelli di Posillipo, né i vecchi né i giovani, né gli assessori e i latitanti che hanno entrambi l’unghia lunga del mignolo possono più ignorare che è lui, da quel momento, a rappresentare una storia che riunisce tutti quanti ma non è solo calcio. Non soltanto il tifo per la squadra com’era successo prima e accadrà poi con campioni non qualunque eppure ripetibili: Altafini, Savoldi, Krol, Lavezzi, Cavani, Higuaìn. Non è soltanto il calcio Maradona, ma qualcosa di indefinibile perché infiltrato in tutte le altre cose, presagio del futuro di ciascuno e memoria di ciascun passato. È anche il Maradona di dopo, quello obeso e affaticato, un monstre nella piscina di “Youth” cui Sorrentino lascia una pallina da tennis con cui è ancora capace di produrre stupore; è il Maradona di prima, quello di cui il cardinale Voiello rivede i gol sul pc nella serie “The Young Pope”; è il Maradona di dopo e di prima che riceve la dedica dell’Oscar per “La grande bellezza”; è un Maradona ancora da venire quello accentuato dalla completa assenza dentro lo spogliatoio di “L’uomo in più”, primo lungometraggio del regista.

 

Allo stesso modo, in chiunque lo abbia vissuto negli anni della gloria, permane un’intima scheggia di Maradona. Riemerge in chi poi ha fatto il salumiere o il chirurgo e un pomeriggio taglia il prosciutto o una pancia con insolita maestria; in chi ha fatto il giornalista e s’accorge di una frase riuscita come un impeccabile calcio di punizione; riemerge in chi suona o cucina quando un raro sprazzo di compiuta bellezza gli riecheggia all’improvviso come un assist, un gol imparabile, compreso naturalmente quello fatto con la ‘mano di Dio’ all’Inghilterra. Perché guardando lui giocare tutti intuirono per sempre quale sensazione spande un gesto che supera la pura tecnica e la tentazione estetica. Quando anche gli avversari applaudivano, significava che la magia era avvenuta. Quando fischiavano da prima, era per la paura che avvenisse.

 

La memoria, aveva ragione Roberto Calasso, “è fatta in prevalenza di buchi, come un territorio crivellato di crateri vulcanici ormai inattivi”. E l’oblio, dice Borges, “è l’altra faccia della memoria”. Succede agli artisti buoni o cattivi che quando se n’accorgono devono ormai coniugare al passato: “La frenesia della mia vita mi aveva impedito di sedimentare la memoria” ammette Tony Pagoda nel romanzo di Sorrentino “Hanno tutti ragione”. Chi ha vissuto nelle redazioni di cronaca all’epoca di Maradona, se pensa a lui ripensa pure ai marciapiedi arrossati dal sangue degli omicidi ma tinti d’azzurro per due scudetti. Ricorda la diffusione del toto nero perché pagava subito le vincite, e del lotto clandestino rispetto a quello ufficiale che si giocava solo al sabato. La pesca bendata dei bussolotti dall’urna al Grande Archivio rovinò migliaia di napoletani nella rincorsa al ritardatario 34. I giornali di fuori comandarono agli inviati il resoconto di quella sfida alla sorte, perché si sa che una speranza troppo febbrile ha effetti simili a un conflitto mediorientale, a una catastrofe psichica di massa.

 

Ricorda, chi ha vissuto i “tumultuosi” anni Ottanta, l’assassinio del cronista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, e a rifletterci adesso persiste il rammarico che così giovane non abbia fatto in tempo a vedere quel primo scudetto, non abbia potuto raccontare anche lui strade, piazze e balconi dove tutti festeggiarono tranne i malati gravi, gli juventini e i carcerati. La storia di Siani avrebbe ispirato un libro culto, “L’abusivo” di Antonio Franchini, omaggio a una generazione napoletana costretta ad accettare la città o lasciarla vivendo da lontano Maradona o fingendo di ignorarlo per non soffrire due volte.

Lui intanto appariva e riappariva fuori dal campo. Apparve a Forcella nella vasca da bagno a forma di conchiglia – lusso kitsch degli anni Ottanta – del boss Carmine Giuliano, detto ’o lione, fratello di “Lovegino”. Apparve su un campetto infangato di Acerra dove giocò una partita coi dilettanti per beneficenza a un bambino malato – e se un filmato non lo testimoniasse, chi ci avrebbe creduto. “In quegli anni Maradona veniva avvistato ovunque, tutti vedevano Maradona, tutti l’avevano incontrato in Ferrari a un semaforo di Fuorigrotta, tutti se l’erano ritrovato al battesimo del nipote, alla comunione del cugino, al matrimonio del fratello o dello zio…” scrive nel libro ‘Maradona è amico mio’ Marco Ciriello, che ha dedicato a quel periodo anche un memoir tratto dalle esperienze di un giovane cronista di ‘nera’: ‘Un giorno di questi’.

 

Apparve, Maradona, un sabato mattina (’88, ‘89?) a Mario Colella, oggi avvocato e allora neanche diciottenne: lo intravide come un miraggio dal settimo piano di casa, ultimo palazzo in via Cavalleggeri d’Aosta, mentre si riscaldava con la squadra sul campetto Italsider. Chiamò il papà, chiamò i vicini mentre giù si faceva la folla: l’epifania va condivisa sennò chi ci crede. Quel giorno il Centro Paradiso di Soccavo, sede abituale degli allenamenti, restava chiuso per lavori sicché i calciatori s’arrangiarono sul campo di Bagnoli poi divorato dalle erbacce, campo che aveva ospitato i remoti inizi del football nel Golfo e forse pure i fantasmi dei giocatori dell’Ilva Bagnolese si fermarono a guardare Diego. “Le mie sensazioni furono quelle di un adolescente che si trova davanti, dal vivo, il suo idolo per la prima volta, sebbene dal settimo piano si vedesse peggio che in tv, ma Sky non esisteva e non sempre potevamo andare allo stadio”, dice l’avvocato Colella.

 

Apparve, Maradona, a Mario de Laurentiis, oggi editor a Milano, allora studente al liceo Umberto: “Fu un lunedì mattina tra l’86 e l’87. Invece di andare a scuola, io e un amico decidemmo di giocare a tennis al Parco Virgiliano. A un certo punto, nel campo accanto, vedemmo arrivare lui con qualcuno del suo entourage, poi cominciò a giocare con un amico o forse un istruttore. Fuori nel giro di minuti si formò una folla. Non posso mai dimenticare gli autisti del 140, la linea che stazionava più giù. L’uno dopo l’altro fermarono gli autobus e scesero ad assistere in silenzio”. El Pibe usava spesso una Renault 5 turbo nera con le filettature rosse, identificata ormai dai ragazzini: “A sciami seguivano la macchina coi motorini” ricorda de Laurentiis: “Dopo le partite al San Paolo, Maradona passava sotto casa mia in via Caravaggio. Perciò mi affacciavo apposta per aspettare la R5 scortata dai tifosi motociclisti”. Come il corteo di un capo di Stato degli scugnizzi.  

 

La memoria, s’è detto, è crivellata di crateri. Alla morte di Diego gli invecchiati redattori dell’estinto Giornale di Napoli, che usciva anche con le ultimissime nel pomeriggio, si sovvennero di quando Maradona andava in redazione per rispondere alle telefonate dei tifosi. Il quotidiano stava in un vicolo alla Riviera di Chiaia e adesso c’è chi giura che Maradona comparisse alla guida di una 500 per eludere i tifosi e chi è convinto lo portassero con una Golf bianca. C’è chi rammenta due visite e chi di più. Come al risveglio dai sogni, al cospetto del tempo passato non sei mai sicuro dei fatti. A complicarli un sosia, il rotativista Gino Mastrangelo dall’ovvio soprannome ‘Maradona’, che volendo avrebbe buggerato schiere di tifosi guidando una R5, la 500 o forse la Golf bianca.

 

Più certe dei ricordi sono le sensazioni che questo nume tutelare suscitò. A decine di migliaia si sentirono come chi in un mattino di sole aspetta l’imbarco per Capri. “Tantissime persone, che non avevano alcun motivo di sorridere, con l’avvento di Maradona sorrisero” racconta Sergio Siano, classe ’69, fotografo oggi e allora, figlio e fratello d’arte: “Abitavo ai Quartieri Spagnoli, avevo appena dieci anni quando assistetti a un omicidio e da quando ne ebbi sedici cominciai a fotografarli per lavoro, a fotografare le proteste dei disoccupati, dei terremotati che dormivano davanti alla prefettura. Perciò per me il Centro Paradiso, nome forse non casuale, era il rifugio da tutte le brutture come lo fu per Maradona, che non poteva uscire di casa senza subire la pressione dei fan. Negli allenamenti era l’ultimo ad andarsene perché voleva dare soddisfazione a chi veniva a vederlo lì non avendo i soldi per il biglietto allo stadio. Mi permise sempre, io giovanissimo fotoreporter, di restare con lui perché percepiva rispetto e ricambiava: gli scugnizzi argentini di Villa Fiorito capiscono quelli di Napoli”. Secondo Siano “Sorrentino non esagera se mette Maradona al centro di un’autobiografia: così è stato per migliaia di persone. Diego fece un miracolo che non ho più rivisto quando il Napoli vinse lo scudetto. Io lo vissi da tifoso e da fotografo: l’intera città si abbracciò e festeggiò e mangiò allo stesso tavolo al di là dei ceti, dei quartieri e della condizione personale. Tutti avevano in volto la stessa espressione di gioia. Questo è stato per me, e san Gennaro non me ne voglia, il miracolo più grande”.

 

Maradona aiutò a scavallare la vacuità invincibile della domenica pomeriggio, che per gli adolescenti è già l’oceano di noia del lunedì mattina e dovette esserlo per un futuro regista che ancora pensava di iscriversi alla facoltà di Economia e un domani lavorare, come il padre, in una banca. Via San Domenico, dove abitava il giovane Sorrentino, è ascritta al quartiere collinare borghese del Vomero ma è un’area liminare, confinaria. Mezzo chilometro di discesa o salita, a seconda della prospettiva, che s’affaccia su Soccavo. Una strada da cui non si vede il mare ma la collina dei Camaldoli, conferendo a chi ci abita – come a tutti i napoletani che dalla finestra non godono il Vesuvio – una maggiore capacità immaginativa rispetto a chi è abituato al panorama, perché la dimestichezza a figurarselo li aiuta a portarselo appresso anche quando se ne vanno via.
La distanza è stata già sperimentata tutta in mente.

 

“Andai ad abitare in via San Domenico nel 1969, quando la strada stava nascendo. C’era la clinica Sanatrix, c’era ancora il cantiere aperto della Tangenziale e un campetto per giocare a pallone, che sarebbe stato soppiantato dai campi da tennis, dove ospitavamo tornei piuttosto improvvisati di calcetto con ragazzi di altre zone del Vomero”, ricorda Fulvio Bufi, giornalista. “A quei tempi la nostra era una strada decentrata, tanto che le prime pattuglie dei poliziotti in motocicletta, i ‘falchi’, ci passavano spesso perché era un posto ideale per gli scippi. Ma malgrado l’isolamento, alla fine degli anni Settanta anche via San Domenico fu coinvolta nell’ondata delle violenze politiche. Io e i miei amici” prosegue Bufi “ci riunivamo al civico 24, proprio il parco dove abitava la famiglia Sorrentino. Un mattino vennero i fascisti del Fronte della Gioventù e cancellarono con lo spray nero un murale che uno di noi, che eravamo comunisti, aveva dipinto all’angolo con via Cilea. Mandammo subito a chiamare i rinforzi a piazza Medaglie d’Oro, dove si concentravano i militanti di Autonomia Operaia. Ne arrivarono due sulla moto e scesero nel parco del 24 dove ci stavamo confrontando coi fascisti. Scoppiò una rissa violentissima. Sopraggiunsero a darci man forte altri ragazzi tra cui Salvatore Colonna, che poi entrò nelle Brigate Rosse e avrebbe fatto parte del commando che uccise l’assessore regionale della Dc, Pino Amato, nel 1980. Quella mattina fu sparato un colpo di pistola dagli autonomi, fortunatamente a vuoto, ma un mio amico venne accoltellato dai fascisti, un altro picchiato alla testa con un tubo da idraulico e un terzo fu arrestato”. Bufi si trasferì nel 1987, l’anno della tragedia che sconvolse i Sorrentino: “Me lo ricordo come un anno terribile. Ai primi di agosto un altro lutto: morirono in un incidente d’auto in Abruzzo cinque ragazzi napoletani tra cui Fabrizio Pandolfi, che era una ventunenne promessa del tennis e abitava proprio in via San Domenico”.

 

È in quell’anno, quello fatidico del primo scudetto, che Edoardo Bennato pubblica uno dei suoi album di maggior successo, “Ok Italia”, dove inserisce un brano dedicato a Napoli: “La città obliqua” è un progetto che aveva immaginato assieme all’architetto Michele Cennamo. Scale mobili che avrebbero collegato i quartieri di giù a quelli di su seguendo le tracce delle antiche pedamentine e alleviando la fatica delle salite, quelle che preludono comunque alla leggerezza delle discese e costituiscono, per chi vive in alto, il primo insegnamento sulle altalene della vita, più efficace dei libri perché impartito attraverso il corpo. Solo qualche sparuta scala mobile è stata realizzata nel tempo, come quella che sale da via Morghen all’Istituto Salesiano dove il regista di “È stata la mano di Dio” fece il liceo, la stessa scuola dove molti decenni prima frequentò il ginnasio Salvo D’Acquisto, il carabiniere che si offrì ai fucili dei nazisti per salvare altre vite durante la Seconda guerra mondiale. (Era nato ad Antignano, il borgo di confine tra Vomero e Arenella dove è più forte il culto di san Gennaro. Dove nei giardinetti di piazza degli Artisti i bambini degli anni Ottanta si sforzavano di riprodurre, col Super Santos consumato, le prodezze della domenica del Pibe).

 

Poi, pensandoci bene, forse il posto giusto di ogni scuola è proprio in cima a una salita, perché al ritorno a casa diventa discesa che proietta gambe e cuore verso illusioni pomeridiane ogni giorno ricucite come la tela di Penelope. E forse il posto giusto di uno stadio è proprio dove sta il San Paolo, alla morte di Diego ribattezzato Stadio Maradona: al termine di una discesa, perché si arriva leggeri e l’importante è l’andata. Dopo, a partita finita e con qualunque risultato, non c’è più fretta di tornare. Fa niente se il 181, il 521, il 522, la vostra macchina o lo scooter arrancano nel traffico lungo la disillusa vacuità di una domenica proiettata verso il buio. Questi però erano gli autobus in servizio all’epoca di Diego Armando Maradona, ammesso che possa mai trascorrere davvero per chi l’ha vissuta o che possa al contrario finire fossilizzata sotto il fiabesco epitaffio del “c’era una volta”.

 

Sorrentino fa dire a Sean Penn, nei panni della rockstar Cheyenne in “This Must Be the Place”: “‘Lo sai qual è il vero problema, Rachel?’. ‘Quale?’. ‘Che passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice: un giorno farò così’ all’età in cui si dice: è andata così’”.

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