Robert De Niro e Joe Pesci in "The Irishman" (foto LaPresse)

Alla politica serve il modello Netflix

Claudio Cerasa

Doveva distruggere il cinema e invece lo sta rilanciando a colpi d’innovazione. Nell’anno in cui Netflix è diventata grande i cinema non si sono svuotati ma si sono riempiti (più 13 per cento in Italia). Spunti per fare della concorrenza non una fonte di paura ma di opportunità

Dicevano che avrebbe distrutto il cinema, che avrebbe abbassato gli standard dei film, che avrebbe fatto diventare inutili le sale, che avrebbe reso le pellicole ostaggio di un algoritmo e che avrebbe ovviamente disincentivato per sempre a uscire dalle loro case tutti gli appassionati di cinema. E invece nulla di tutto questo è successo e tutti i soloni che negli ultimi anni hanno cercato di scaricare su Netflix i problemi dell’industria cinematografica mondiale non potranno non riconoscere oggi che l’industria cinematografica mondiale ha dato segnali di grande vitalità proprio nell’anno in cui Netflix è diventata grande. Succede così, notizia di lunedì, che per la prima volta nella storia la stessa Netflix che l’industria cinematografica mondiale ha tentato di ostracizzare per anni dall’olimpo del cinema riesce a ottenere, da sola, ventiquattro nomination agli Oscar, superando di una nomination la Disney, che nel frattempo anche per competere con Netflix si è messa in pancia la 20th Century Fox e Fox Searchlight.

 

  

Succede così che film come “The Irishman”, che secondo il regista Martin Scorsese nessun’altra casa di produzione al mondo sarebbe stata in grado di realizzare con uno studio tradizionale, ottiene dieci nomination, quattro in più di “Storia di un matrimonio”, appena due anni dopo una polemica fatta nascere da Steven Spielberg secondo il quale i film prodotti da Netflix non avrebbero dovuto essere nominati agli Oscar perché non sarebbero film capaci di rispettare gli standard minimi di qualità. E mentre succede tutto questo succede anche dell’altro. E cioè che i dati mondiali del box office ci dicono che nei mesi di maturità di Netflix, nei mesi in cui in altre parole al pubblico viene offerta su un piatto d’argento l’opzione di vedersi in mutande con la canottiera macchiata di sugo film che potrebbero tranquillamente vedersi al cinema, le sale cinematografiche piuttosto che svuotarsi progressivamente si sono riempite sempre di più. Nel corso del 2019, ha riportato sul suo sito l’Hollywood Reporter lo scorso dieci gennaio, le entrate globali al botteghino hanno raggiunto la cifra record di 42,5 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti il calo di incassi è stato del 4 per cento rispetto all’anno precedente ma quello americano resta un caso quasi isolato e tra i mercati esteri che hanno registrato guadagni significativi rispetto all’anno precedente ci sono realtà importanti come la Cina, il Giappone, la Corea del sud, la Francia, la Germania, la Russia, il Messico, la Spagna, il Brasile e, udite udite, anche l’Italia.

 

Il dato non è ancora a portata di tutti ma nella giornata di oggi l’Anica, l’Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive multimediali, ne confermerà uno già anticipato all’inizio dell’anno, secondo il quale nel corso del 2019 i cinema italiani, prima ancora di fare i conti con il ciclone Checco Zalone, hanno registrato un incasso complessivo di oltre 630 milioni di euro, per un numero di presenze pari a circa 97 milioni di biglietti venduti, con un incremento del 14 per cento degli incassi rispetto al 2018 e un incremento del 13 per cento delle presenze in sala, che segnano la migliore performance degli ultimi tre anni. Dicevano che avrebbe distrutto il cinema, che avrebbe abbassato gli standard dei film, che avrebbe fatto diventare inutili le sale, che avrebbe reso le pellicole ostaggio di un algoritmo e che avrebbe ovviamente disincentivato per sempre a uscire dalle loro case tutti gli appassionati di cinema. E invece a quanto pare la concorrenza innescata da Netflix e da altri produttori non convenzionali come Amazon (Dio benedica “The Marvelous Mrs. Maisel”) ha innescato un processo di competizione che ha fatto bene al cinema, migliorandone l’offerta, creando una nuova domanda e costringendo soprattutto molti proprietari di cinema a doversi impegnare per evitare di far diventare realtà una fosca previsione messa nero su bianco all’inizio del 2018 dall’attore Edward Norton, secondo il quale il problema del cinema mondiale non ha a che fare con il modello Netflix ma ha a che fare con l’incapacità dei proprietari delle sale cinematografiche di modernizzare le sale in modo da incentivare il pubblico a vedersi film in una modalità diversa da quella fantozziana: frittatona di cipolle, familiare di birra gelata e rutto libero. Avere un po’ di concorrenza sul modello Netflix ha costretto a diversificare i prodotti, ha fatto bene alla produzione, ha fatto molto bene alla fruizione (Netflix ha cominciato persino ad acquistare cinema: a dicembre ha deciso di rilevare e riaprire lo storico Paris Theater di Manhattan dopo aver deciso già di rilevare un’altra sala cinematografica storica, l’Egyptian Theatre a Hollywood) e ha permesso di ricordare che in una stagione come quella presente per convincere lo spettatore a uscire di casa non devi puntare combattere l’innovazione sabotando per esempio chi ti offre prodotti cinematografici che puoi vedere indifferentemente a casa o al cinema ma devi puntare su un’offerta migliore rispetto a quella che trovi su una piattaforma. E’ una lezione che vale per il cinema ma è una lezione che forse dovrebbe valere anche per la politica: trasformare il progresso non in una fonte di paura ma in una fonte di opportunità. Viva Netflix!

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.