Pietro Valsecchi (foto LaPresse)

A tu per tu con l'uomo che ha inventato Checco Zalone

Salvatore Merlo

Ritratto del produttore di Taodue Pietro Valsecchi che con il comico ha fatto ricca Mediaset. I tanti film sulla mafia e quel litigio sull’Orso d’argento con Bellocchio. Storia di una scalata straordinaria e di un grande amore (con Camilla Nesbitt)

“È qualcosa che non si ferma. Che è sempre esistita. Che temo continuerà. Ed è una cosa tremenda. Inaccettabile”, dice Camilla, con la sua aria d’intelligenza silenziosa. E Pietro, amichevole, ironico, con gesti complici: “D’accordo. Ma nemmeno puoi criminalizzare la seduzione. Una cosa è Weinstein… ma poi qui sta tutto impazzendo. Se io non avessi insistito con te, e parecchio, oggi non staremmo insieme. Le mie avances erano molestie?”. Al ché lei, con fluidità logica: “Ma io non facevo mica l’attrice. Stavamo sullo stesso piano io e te. Eravamo due produttori cinematografici”. E Pietro, sconfitto: “Certo. Però su un punto siamo d’accordo. I processi si fanno in tribunale, non in televisione o sui giornali com’è successo con Brizzi”. E allora Camilla, una donna sottile ed elegante la cui femminilità è giocata su un tavolo diverso da quello delle ciprie e dei ghingheri, rivolge al marito un lieve sorriso, di assenso.

 

“Ci siamo conosciuti un’estate di ventisette anni fa”, racconta Pietro, quando lei si è allontanata. “Era la ragazza più bella di Roma. E io le facevo una corte spietata”. Un cammino costellato di schianti sentimentali. Ma l’insistenza del corteggiamento forse non sarebbe stata sufficiente a garantirgli il successo dell’impresa, se dentro alle sue vele non si fosse messo a soffiare l’imponderabile vento che chiamano fortuna: “Dovevo andare a un festival cinematografico, alla Maddalena. Salii sull’aereo e c’era lei. Che per la prima volta mi sorride: ‘Vieni Valsecchi, siediti qua... Io ero mezzo rovinato, avevo perso una barca di soldi con il mio primo film. Ero in rosso con la banca, nei guai. Ma pensai: ma sì, chi se ne frega, tre milioni in più o in meno ormai non fanno differenza. Così le presi una macchina, presi l’albergo più caro che c’era. E in quella stanza ci siamo rimasti chiusi per sei giorni consecutivi. Il festival non l’abbiamo visto”. Poi ci fu la grande litigata di Taormina, roba da sceneggiatura cinematografica. Epica e melodrammatica. “Eravamo al Timeo. Gettai le sue valigie dalla finestra, direttamente in mare. Poco dopo Camilla stava su una barchetta a remi a raccogliere gli abiti che galleggiavano sull’acqua. Mentre le sue amiche si lamentavano: ‘Ma come fai a stare con un buzzurro così?’. Alla fine ci siamo profondamente innamorati. E la nostra società l’abbiamo chiamata Tao per questo. Tao, come Taormina”. Però si chiama Taodue, in realtà. “Questo perché Bertolucci mi disse che Tao esisteva già. Era la sua società, quella che aveva prodotto ‘L’ultimo imperatore’”.

 

E Pietro Valsecchi, con sua moglie (e socia) Camilla Nesbitt, è il produttore di “Distretto di polizia” e di “Ultimo”, di “Borsellino” e di “Libero Grassi”, di “Rosy Abate” e di “Squadra Antimafia”, ma soprattutto è l’uomo che ha lanciato Checco Zalone. “E credimi all’inizio non lo voleva nessuno. Pazzi. Arrivò mio figlio dicendomi: ‘Papà, se fai fare un film a questo attore di Zelig, sbanchi’. Il primo film è costato tre milioni e ne ha fatti quindici”. È la comicità “anglosassa”, direbbe Zalone. Ma il menù del cinema italiano è fisso, come al ristorante rapido: perché in Italia facciamo praticamente solo film sulla mafia? “Perché l’Italia è fatta di mafie e di uomini e donne che si oppongono alle mafie. Ognuno parla di quello che conosce. E poi i cattivi sono letteratura. E i nostri cattivi sono i mafiosi”. Non è mancanza di fantasia e di coraggio creativo, invece? Il cinema italiano o fa Suburra o fa Vacanze di Natale. “È vero che non ci sono più gli scrittori. Gli osservatori della realtà. Quel genere di uomini dall’udito lungo capaci di ascoltare all’origine il rumore dell’anima italiana”.

 

Quando dovevo entrare in società con Berlusconi telefonavano
al Cavaliere e gli dicevano: 'Guarda che quello è un comunista'

Eppure la cronaca italiana è dominata dal grottesco. E di spunti ne offrirebbe parecchi. A Trani, per esempio, come ha ampiamente raccontato Luciano Capone sul Foglio, è stato montato un surreale processo alle agenzie di rating. Con gli americani che avuto notizia d’essere indagati, dai loro grattacieli lanciati sulla city, si chiedevano: “What is Trani?”. A un certo punto sono arrivati in Puglia Tremonti, Mario Monti, Romano Prodi, addirittura Mario Draghi… E al presidente della Consob, mentre testimoniava in aula, hanno rubato la macchina della scorta, con il lampeggiante dentro. “Questa devo raccontarla a Zalone”, dice Valsecchi, ridendo. Poi seriamente: “Mancano gli osservatori della realtà. Ma la verità è che la mafia si vende. E si vende anche all’estero”. Mentre Zalone no. “La lingua è un problema insormontabile”. Zalone è intraducibile, come Totò e Alberto Sordi. A proposito: lo conoscevi Sordi? “Molti anni fa dovevamo fare Pinocchio. Lui avrebbe avuto il ruolo di Geppetto. Venne anche a cena a casa mia. E c’era Furio Scarpelli, il grande sceneggiatore, che lo conosceva e per questo era sospettoso. ‘Stai attento ad Alberto. Controllalo. Perché quello finisce che fa diventare protagonista Geppetto’. Forse aveva ragione Scarpelli. Sordi era un gigante. Poi purtroppo si ammalò e il film non si fece più”.

 

E nella sua magnifica casa romana, dove colleziona opere d’arte, Valsecchi assapora la pienezza dei suoi sessantaquattro anni all’ombra di conquiste sicure: la famiglia, il successo, il denaro. “Ma non riesco a goderne”, racconta. “Nemmeno quando faccio settanta milioni con Zalone. Vorrei godermela di più. Me lo dicono anche i miei figli: papà, rilassati… Però mi sento uno fortunato. E penso che quello che mi è arrivato vorrei redistribuirlo. Vorrei fare qualcosa per Roma. Vorrei aprire la Galleria degli Specchi, a Palazzo Borghese”. Che è casa sua. Chissà quante storie, compresa quella della caduta di Vittorio Cecchi Gori, che qui abitò, proprio in questo appartamento oggi di Valsecchi. “Era ricchissimo, Vittorio. Non so come abbia fatto. Avrà bruciato un patrimonio di almeno due miliardi”. Ma i muri, si sa, non parlano. O forse parlano, a saperli interrogare, a saperli scrutare al di là dell’intonaco.

 

Sei di sinistra? “Ho fatto il sessantotto”. E la sua dev’essere stata un’adolescenza selvatica e ribelle, “il cinema che ha arricchito la mia vita è stato quello di Elio Petri, di Francesco Rosi… di Gian Maria Volontè, che era l’attore carismatico per eccellenza”. I film politici. “La classe operaia va in paradiso”, “Le mani sulla città”. Chi avrebbe mai immaginato che la vecchia talpa sessantottina sarebbe saltata fuori da sotto il divano di un sontuoso palazzo nobiliare del centro di Roma. “Ben scavato, vecchia talpa”, ride lui, citando Marx. “Vengo da una famiglia povera. Mia madre morì davanti a me quando avevo nove anni. Mio padre dopo la guerra tornò in Italia a piedi, da Dachau. Da ragazzo ho fatto la contestazione, venivano a casa i miei compagni di lotta, molti dell’aristocrazia della mia città, Crema. Oggi loro sono nobili decaduti. E io sono ricco. Guarda il destino”. Sei ancora di sinistra? “Mi ricordo quando dovevo entrare in società con Berlusconi. E c’erano tutti quelli che telefonavano al Cavaliere: ‘Guarda che quello è un comunista’”. Oggi Taodue è di proprietà Mediaset. “Dieci anni fa De Agostini voleva comprarci. Claudio Costamagna curava i dettagli dell’affare. Era quasi fatta. Ma poiché avevamo lavorato a lungo con Mediaset, mi sentii in dovere di telefonare a Piersilvio Berlusconi per avvertirlo. Lui mi disse che quei soldi loro non potevano darmeli. Poi mi chiamò il Cavaliere. E lo incontrai. Alla fine mi disse: “Caro Valsecchi, venda a De Agostini. Il treno passa una volta sola”. Ero sollevato. Ma dopo neanche un’ora mi richiamano quelli di Mediaset: “Vogliamo trattare”. In pratica Berlusconi mi aveva convocato per farmi un test, voleva vedere di che stoffa ero fatto. Voleva capire chi si stava mettendo in casa. E a quel punto, chiuso l’affare con Berlusconi, ho tirato fuori Zalone. Solo con lui ho ripagato Mediaset del capitale che aveva versato per prendere Taodue”.

 

Cominciai malissimo. Con il primo film di Bellocchio persi 600 milioni. Però fu un'esperienza utile.
Imparai a non farmi fregare

E in quest’uomo brizzolato e con il pepe nel cervello, che si esprime in una lingua disinvolta, costellata di settentrionalismo, ci sono un’inesprimibile solidità, che gli deriva dal carattere, e una specie di cordialità esplosiva. Con nello sguardo qualcosa di duro, roccioso ma al tempo stesso simpatico – “a volte sono collerico, m’infastidisce la sciatteria, il pressappochismo: oggi per esempio ti ho dato appuntamento alle 14 e 45. Non un minuto di più non uno di meno”. È un uomo incline all’esattezza appassionata. “M’incazzo”, ammette ridendo. “Anche con me stesso, però. E a volte sono irascibile”. Litigate storiche? “Con Bellocchio. È stata enorme. Abbiamo litigato anche per l’Orso d’argento. Bellocchio l’aveva ritirato nel 1991 per il film ‘La caduta’. Poi me lo prestò. E io me lo sono tenuto”. Come te lo sei tenuto? “Me lo sono tenuto. E Bellocchio mi fa: ‘Ti denuncio per furto’. E io: ‘E io ti denuncio per sottrazione. Il premio è mio’. Mi feci mandare pure una lettera dal festival di Berlino nella quale si diceva che il premio va al produttore. Ma pure Bellocchio si fece mandare una lettera, nella quale si diceva che il premio è del regista”.

 

E a un certo punto, lui e Bellocchio, intorno a quel pesante Orso d’argento, ma forse ancora di più intorno alla potestà e alla paternità del film, erano in balìa di un paradosso. “Alla fine abbiamo fatto pace. Feci fare una copia del premio, e gliela regalai”. L’originale dov’è? “È qui”, dice Valsecchi, mentre sguscia via. Quando rientra ci troviamo a maneggiare questo pesantissimo orsacchiotto d’argento ossidato. Ma insomma i film di chi sono? Del regista o del produttore? E Valsecchi: “I film sono sempre del produttore”, esclama, prendendosi una pausa intensamente declamatoria. Poi, abbassando la voce: “… anche se la parte intellettuale è del regista”.

 

Devo raccontare a Zalone la storia del processo di Trani alle agenzie
di rating. Con gli americani che si chiedono: 'What is Trani?'

Dicono che senza i film di Zalone il cinema italiano non fa numeri, non vende. Molti accusano la concorrenza di Netflix e di Amazon. “Lo spazio te lo tolgono quando non ce l’hai. Il problema del cinema italiano non è la concorrenza, ma è il linguaggio. Il linguaggio di un racconto dev’essere universale”. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha fatto una legge che impone quote di cinema italiano alle reti. “È una legge sbagliata. Per prima cosa va detto che se non ci sono idee e non c’è talento puoi fare tutte le leggi del mondo, ma il cinema affonda comunque. E poi, se i film sono brutti, perché devi obbligare a trasmetterli? È grottesco. La legge Franceschini dà la patente a ogni idiota per fare questo lavoro. E i nostri difetti, che sono già evidenti, si acuiranno”.

 

E chi è bravo? “Paolo Virzì, è intelligente, colto, affabulatore. Il suo miglior film è senza dubbio ‘Ferie d’agosto’. Un affresco dell’Italia: comunisti contro qualunquisti. E poi è un bravissimo scrittore. Mi piace anche Daniele Lucchetti, col quale ho lavorato. C’è una generazione di cinquantenni che sono ancora l’espressione migliore del cinema. Poi ci sono dei giovani che si insuperbiscono, sono presuntuosi, sbagliano i film, non accettano critiche e consigli. Un’eccezione è Gabriele Mainetti, che ha testa e talento. Ma con i giovani c’è un problema, serio. Noi abbiamo i cinquantenni, pochi. E poi gli ultimi grandi vecchi… Ecco, se la legge Franceschini servisse per dare i soldi ai Taviani, a Bellocchio, a Olmi, a Bertolucci, a Gianni Amelio, allora sarebbe utile. In modo tale che questi grandi vecchi non debbano barcamenarsi, aspettare e tribolare per finanziare i loro film. Olmi per esempio sta girando adesso un film bellissimo. Che vorrei aiutare”.

 

Da ragazzo facevi l’attore di teatro. “E poi di cinema. Una sera di quarant’anni fa venni a Roma, al teatro dei Satiri. Non c’era nessuno in sala. Però c’era la sceneggiatrice Sofia Scandurra, che mi fermò e mi disse: ‘Hai una faccia meravigliosa, perché non fai del cinema?”. Parole che avevano preso a ronzargli in testa, ad attecchire. “La chiamavo continuamente al telefono. Tornavo continuamente a Roma. A un certo punto andai a vivere a casa di Lù Leone, l’agente del cinema romano, protagonista del movimento femminista negli anni Settanta”. Alla fine il film si fece. Era “Io sono mia”. Correva l’anno 1978. “Recitavo con Maria Schneider e Stefania Sandrelli, che era bellissima. Conobbi Michele Placido, con il quale da allora siamo amici per la pelle. Ma le riprese del film a un certo punto s’interruppero bruscamente. La Schneider, che aveva problemi con la droga, aveva dato di matto. Se n’era andata. Era scomparsa. Introvabile. Allora il produttore del film, Silvio Clementelli, mi dice: ‘Valla a prendere, trovala e ti faccio un regalo’. Io la trovai. Gliela riportai. E completammo il film. Ma poi quel regalo lui non me lo fece. Moltissimi anni dopo però Clementelli mi fece vincere un premio: ‘Finalmente mi hai fatto quel regalo’”.

 

La legge Franceschini è anacronistica e grottesca. In pratica dà la patente per fare questo lavoro a ogni idiota che passa

E quando hai deciso di fare il produttore? “Quando capii che sarei stato un gregario per tutta la vita cambiai mestiere”. E quell’idea, mollare tutto, in realtà era un suono ritmico, che si era insinuato in lui a poco a poco. “Ricordo perfettamente una sera a teatro, recitavamo Brecht. Guardavo il pubblico e pensavo che non mi importava niente della gente che era lì davanti a me”. Da attore a produttore, quindi. Una forza misteriosa e inafferrabile lo guidava fino a terre inesplorate. “Cominciai malissimo. Con il primo film di Bellocchio persi 600 milioni. Però fu un’esperienza utile”. Per cosa? “Capii cosa voleva dire fare il produttore, con un regista molto importante e molto prepotente che non voleva cambiare niente”.

 

E oltre Zalone chi hai lanciato? “Una mattina andavo a Formello. E sul ciglio della strada vedo un ragazzo che faceva l’autostop. Lo faccio salire, lo guardo e penso: ‘Questo è proprio bello’. Poi di nuovo lo guardo: ‘Cazzo, ma questo ragazzino è veramente molto bello’. Comprensibilmente il tizio si stava pure irrigidendo. Era Kim Rossi Stuart”.

Un’ultima domanda: ma è vero che costringi Zalone a cantare, quando lo inviti a cena? “Quando c’è Zalone ci divertiamo un mondo. Averlo tutta la sera è un privilegio. È un artista nato, uno straordinario lettore della contemporaneità. E ha sempre una battuta. L’altro giorno mi ha chiamato, e siccome ero in Svizzera, in un lampo mi ha chiesto: “’Ma sei lì per depositare o prelevare?’… Questo però non scriverlo”.

  

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro, Giancarlo Leone, Flavio Briatore, Fedele Confalonieri, Giovanni Minoli, Luca Cordero di Montezemolo, Urbano Cairo, Claudio Lotito, Giovanni Malagò, Beppe Caschetto, Bruno Vespa, Vincino, Marco Carrai, Ettore Bernabei, Umberto Bossi, Ennio Doris, Paolo Del Debbio, Simona Ercolani, Raffaele Cantone, Milo Manara, Francesco Paolo Tronca, Raffaele La Capria, Carlo De Benedetti, Federico Pizzarotti, Michele Serra, Michele Santoro, Andrea Salerno, Walter Veltroni.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.