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Gli Oscar del Foglio

Mariarosa Mancuso

Le belle, le bestie, i sublimi. Tra liste di proscrizione, red carpet di abiti neri e registi rinnegati, si prepara l’edizione numero 90 dei premi, la prima del dopo Weinstein. Ecco le nomination scorrette del nostro cinema Mancuso. Capricci e giudizi insindacabili

Dimentichiamo il pasticcio dell’anno scorso. Prima fu annunciato l’Oscar per il miglior film a “La La Land” di Damien Chazelle, poi arrivò il “contrordine compagni”: Warren Beatty aveva intuito qualcosa di strano aprendo la busta, e con finta galanteria aveva allungato la scheda bollente a Faye Dunaway. Fu decretato genuino vincitore “Moonlight” di Barry Jenkins, melodramma nero totalmente gay e quasi altrettanto platonico. Tra qualche anno dovremo controllare su IMDb se “Moonlight” davvero ha vinto tre Oscar (statuetta anche alla sceneggiatura non originale e all’attore Mahershala Ali). I più avranno dimenticato sia il titolo sia le inquadrature carezzevoli sui pettorali e le schiene nere che la luce della luna sfuma in blu. Capita spesso: qualche giorno fa siamo andati a controllare se davvero “Crash” di Paul Haggis aveva trionfato agli Oscar 2006. Il regista che nel 2009 si è sganciato da Scientology, dopo 35 anni nella setta, ha avuto le sue accuse di molestie e stupro, con la “walk of shame” che tocca in questi casi. Intanto Damien Chazelle sta felicemente dedicando le sue cure a “First Man” sulla vita di Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sulla luna (sì, sono andati lassù, anche se ora la faccenda non interessa più a nessuno, se non per dubitarne: non fu una messa in scena filmata da Stanley Kubrick che poi secondo i complottisti confessò la malefatta in “Shining”).

 

Niente come la cerimonia degli Oscar sembra imprescindibile e indimenticabile quando succede, e puntualmente sparisce dalla memoria nel giro di qualche mese. Immaginavamo che sarebbe aumentata la sorveglianza sugli scrutatori e su chi traffica le buste con i voti – il colpevole, funzionario della PricewaterhouseCoopers, l’anno scorso si era distratto con lo smartphone. Invece siamo pronti con il cordone sanitario contro i presunti molestatori (alle accuse via intervista e via social non sempre seguono denunce in tribunale; ma subito negli Usa si cancellano gli attori dal film e in Italia i nomi dei registi dalla promozione). E speriamo che non si rivestano di nero: non sta affatto bene a tutte, è una leggenda che la cerimonia dei Golden Globe ha contribuito a sfatare.

 

Cambiano anche le parole. “Creep” – come brivido – una volta stava nelle recensioni dei film horror. Utilissimo ad esempio per celebrare “Scappa – Get Out”, scritto e diretto da Jordan Peele. Speriamo di vederlo tra i candidati al miglior film. Se solo qualcuno si desse la briga di far presente ai membri dell’Academy che anche i piccoli film di genere hanno dignità cinematografica – i grandi film di genere li hanno già ben digeriti regalando 17 Oscar al terzo capitolo della saga made in Tolkien “Il Signore degli Anelli”.

 

 

Questo film dell’orrore dove il nero non muore per primo (come vogliono gli stereotipi del genere, inchiodati da “Scream”) ma scopre una tremenda verità sui bianchi, aveva tutto il necessario per diventare l’instant classic che è diventato. E Jordan Peele ne promette altri – si spera con il bravo Daniel Kaluuya, anche lui candidabile se non altro per dare il cambio a Denzel Washington. Con paure “sociali”: non più il maniaco con il machete, le statue al museo delle cere, una fanciulla dai capelli neri che scende incazzata dalla soffitta, bambole, bambolotti, cultori di puzzle umani.

 

“Creeps” è ora l’intestazione di una lista avviata da Manohla Dargis, critico cinematografico del New York Times, quando furono rese pubbliche (ma già se ne parlava sottovoce da mesi) le accuse a Louis C. K. “La lista di tutti i maschi che mi hanno molestata o assalita”, spiega in un articolo intitolato giustappunto “Louis C. K. and the Hollywood Canon of Creep”. Perfettamente in linea con la definizione che leggiamo sull’Urban Dictionary: “1950's word used by women to describe an undesirable man”.

 

Dimentichiamo il pasticcio dell'anno scorso, questa volta siamo pronti con il cordone sanitario contro
i presunti molestatori

Anche prima degli anni Cinquanta. Il bollino “creep” si adatta bene a certi magnifici racconti di Dorothy Parker, che non trovava mai un uomo capace di reggere la sua brillante conversazione (allora andava di Martini, e al quarto cocktail se lo faceva piacere comunque). E all’altrettanto brava Christina Stead, che era nata in Australia e in “Letty Fox” racconta le fatiche di una ragazza newyorchese in cerca di marito, corrono gli anni Quaranta. Ms Dargis coglie l’occasione per confessare che, oltre alla lista dei suoi personali molestatori o goffi corteggiatori, ha compilato – nella sua testa, stavolta senza metterlo per iscritto – un inventario dei registi che (a suo parere) degradano o sviliscono le donne. Non esiste il patentino, per fare questo mestiere, e neanche un’autorità preposta a rilasciarlo. Però la sua lista di proscrizione è un buon motivo per levarla dalla nostra lista: quella dei critici che leggiamo volentieri, invidiandone brillantezza e intelligenza.

 

In questa temperie, tra i titoli che gareggeranno per il miglior film (e per altre eccellenze come la scenografia, i costumi, la sceneggiatura originale, la fotografia) troviamo due variazioni su La Bella e la Bestia. Parentesi: la favola titolare Disney, rifatta da Bill Condon in live action 25 anni dopo la versione animata, non merita nulla se non un premio speciale “alla noia e al capolavoro rovinato”. 

 

Doverosa precisazione: i 6.000 giurati dei premi Oscar – edizione numero 90, presentata da Jimmy Kimmel – hanno votato fino al 12 gennaio, le nomination si sapranno oggi (23 gennaio ndr), la cerimonia di premiazione sarà il 4 marzo (dopo una seconda votazione a fine febbraio). Questi Oscar sono basati sui nostri giudizi, sui nostri capricci, sulle nostre idiosincrasie: sosteneva Mario Praz – con parole sue diverse dalle nostre – che ogni critico ha diritto alla sua zona cieca.

 

Primo titolo, dei due dove la Bella incontra la Bestia, “The Shape of Water” di Guillermo del Toro, già vincitore del Leone d’oro alla Mostra di Venezia (con il titolo “La forma dell’acqua”, sarà nelle sale per San Valentino, ottima scelta). Secondo titolo: “Phantom Thread” di Paul Thomas Anderson (“Il filo nascosto”, uscita italiana il 22 febbraio). Già entrato nella leggenda perché dopo questo film l’attore Daniel Day-Lewis si ritirerà a vita privata (così ha annunciato: conoscendone il perfezionismo, magari ci ripenserà, e sicuramente il prossimo ritiro dalle scene gli riuscirà meglio).

 

“Creep”, come brivido, una volta stava nelle recensioni dei film horror. Ora sono “i maschi che mi hanno molestata o assalita”

Il regista messicano di “Il labirinto del fauno” (non è tra i nostri preferiti, mentre abbiamo adorato “La spina del diavolo” e “Hellboy”) tiene in casa una grandiosa collezione di mostri e memorabilia dai classici film horror – vedere per credere le foto sul New York Times. “La forma dell’acqua” è uno spin off del “Mostro della laguna nera”, girato nel 1954 da Jack Arnold: una delle creature mostruose più sexy mai viste al cinema. In “La forma dell’acqua” c’è una ragazza muta – il dettaglio sarà già considerato da Manohla Dargis “disprezzo per le donne”? allora dobbiamo mettere nella lista nera anche François Truffaut, che faceva dire al personaggio di un suo film: “Ho incontrato la ragazza perfetta, è sordomuta”. Sveglia, bagno, bollitura delle uova sono il rito mattutino, poi al lavoro come donna delle pulizie in un misterioso laboratorio. La creatura, prigioniera in una vasca, è ghiotta d’uova sode: ecco il primo contatto, la prima scintilla, il primo sguardo adorante.

 

Il regista americano di “The Master”, di “Boogie Nights, di “Magnolia” e del “Petroliere” colloca la sua Bella e la sua Bestia a Londra, negli anni Cinquanta. il suo eroe è un sarto-artista, prima che i fabbricatori di vestiti decidessero di farsi chiamare “stilisti”. Lavora per le signore ricche e aristocratiche, ha un gusto squisito che subito dopo i titoli di testa viene telefonato allo spettatore con un paio di calzini color magenta (pare scelti personalmente dall’attore, che non si è fatto mancare un corso di taglio e cucito, come saggio finale un abito per la consorte Rebecca Miller). Barbablù si svela al mattino a colazione, nel palazzo dove ha casa e bottega: non vuole essere importunato, fa liquidare la musa ormai scaduta dalla sorella (Lesley Manville, strega al punto giusto).

 

In letteratura, l’americano che volle farsi europeo si chiama Henry James. Potrebbe essere uno dei fili nascosti nella trama del film, anche se lo scrittore di “Ritratto di signora” preferiva dire “la cifra nel tappeto”. Si intreccia bene con l’altro filo, un po’ meno nascosto, che viene da Alfred Hitchcock: oltre a “Ritratto di signora” dobbiamo a James il misterioso “Giro di vite”. Di breakfast in breakfast il film procede, a differenza dei romanzi che riservano i colpi di scena ai pranzo, alle cena, alle feste danzanti e al tè del pomeriggio. A una sostanziosa colazione campagnola – con il welsh rarebit, crostone di formaggio, e salsicce per contorno – dobbiamo l’incontro con la Bella. Durante un’altra colazione, il crostino imburrato con troppa foga e fracasso – sostiene il sarto, se contrariato gli vengono storti i punti – annuncia la crisi.

 

“I Love You, Daddy” doveva uscire nelle sale americane il 17 novembre, una settimana prima scattarono le denunce dell'esibizionista Louis C. K. (sulla tempistica delle accuse, servirebbe uno studio: James Franco riceve un Golden Globe, e sui social media in tempo reale si fanno vive le molestate) 

Da una parte abbiamo il mostro alla King Kong, tutto occhi e grandi mani per spogliare la fanciulla nella giungla e riscaldarla con una soffiata – altro modello che sicuramente Guillermo del Toro ha tenuto presente, qui sono pinne e squame ma non cambia granché. Dall’altra parte abbiamo Barbablù, assassino seriale di mogli per futili motivi. Noi tifiamo per la creatura acquatica, vitale nelle disgrazie quanto il sarto è mortifero, lamentoso perché le clienti non sono all’altezza (e via con le altre paturnie legate all’arte). Nella scala Weinstein, l’orco più orco parrebbe il sarto. Facendo il verso al Woody Allen di “Pallottole su Broadway” – tutto un tormentone “Ami in me l’uomo o l’artista?” – qui siamo a “Ami l’artista, e allora ti becchi la stronzaggine dell’uomo”.

 

E’ una variazione su La Bella e la Bestia, a guardar bene, anche l’elefante nella stanza. Parliamo di “I Love You, Daddy”, l’ultimo film di Louis C. K. rinnegato anche dai suoi produttori e distributori, e neppure menzionabile – figuriamoci candidabile – al premio Oscar. John Malkovich ha la parte della Bestia, ennesimo regista-artista a cui piacciono le ragazzine (le uniche, detto malignamente, che si bevono le sue chiacchiere piene di pretese). La Bella – incantevole e bravissima – è Chloë Moretz. Louis C. K. scrive e dirige, è il padre della viziatissima Bella, e grande ammiratore della Bestia. Ha venduto una serie sulle infermiere senza aver scritto una riga, licenzia un’attrice e ne scrittura un’altra per portarsela a letto. Lei capisce tutto subito, e le va bene: così smetterà di mostrare le tette in pellicole di serie B.

 

“Pettegolezzi”, dice la controfigura di Louis C. K. a proposito della passione del regista per le ragazzine. Finché il suo idolo mette gli occhi sulla figliola, che per casa gira perlopiù in bikini. Le variazioni sul tema e i voltafaccia producono dialoghi sul modello che conosciamo, in un magnifico bianco e nero che ricorda “Manhattan”. E siamo a Woody Allen, altro elefante nella stanza. Per farla breve, e restringerla agli Oscar, diremo che spunterà al massimo una candidatura per Kate Winslet, attrice fallita ora casalinga disperata a Coney Island (sempre negli anni Cinquanta, titolo “La Ruota delle meraviglie”).

 

“I Love You, Daddy” doveva uscire nelle sale americane il 17 novembre, una settimana prima scattarono le denunce all’esibizionista Louis C. K. (sulla tempistica delle accuse, servirebbe uno studio: James Franco riceve un Golden Globe per “The Disaster Artist”, e sui social media in tempo reale si fanno vive le molestate). Il critico Matt Stoller Seitz sostiene che lo statuto del film ritirato è paragonabile al famigerato “The Day the Clown Cried”.

 

Esagera, naturalmente. Del film girato da Jerry Lewis nel 1972 – sotto Percodan, va detto – esce a scadenze regolari il solito spezzone o poco più (solo il critico francese Jean-Michel Frodon sostiene di averlo visto per intero, e l’ha trovato coraggioso, importante, interessante). Il film di Louis C. K. si trova su internet senza neanche diventar matti a cercare – l’avessero messo a pagamento, come i primi spettacoli del comico, avremmo versato volentieri il nostro obolo, gli manderemo le arance quando e se lo arresteranno.

 

Delle tre Bestie – intendiamo “il ruolo nella favola”, come lo avrebbe potuto smontare Vladimir Propp – Malkovich è la più “creepy”. Gira film d’autore, che dagli anni Settanta in poi devono avere almeno una scena di nudo o di sesso trasgressivo, vedi “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Prende in giro la pratica anche Michel Hazanavicius, quando nel film “Il mio Godard” – sciocco titolo italiano – racconta Jean-Luc Godard e le sue gelosie. Certificando che Marco Ferreri – tra le sue molte e grandi virtù – ha avuto quella di far spogliare i maschi. 

 

Matt Stoller Seitz – sempre esagerando, ma l’odio trascina più dell’amore – pensa al tenente Colombo (deve essere un suo guilty pleasure, vabbè). Il comico ricco e potente commette un delitto, poi dimentica il dettaglio che lo inchioda. Qui il dettaglio dura tutto il film, un po’ troppo per una distrazione, e se dovessimo arrestare i registi con queste motivazioni resterebbe solo il pesciolino Nemo – su “Toy Story” già vengono i dubbi. Ultima punta di veleno anche nella chiusa: bell’impermeabile (si intende, quello che l’esibizionista spalanca al parco). Ciliegina sulla torta: il New York Times che ha subito cancellato una conversazione pubblica con James Franco accusato di molestie con un tweet, nel 1973, a firma Vincent Canby, su “Ultimo Tango a Parigi” scriveva: “Last Tango in Paris is all about romantic love, but its expressions are the sometimes brave”.

 

“La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro vince su “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson. Ma parlando di film – e di regia, e di scrittura, e di attori – oltre che per il mostro acquatico il cuore batte a pari merito per “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, di Martin McDonagh. Puro piacere, anche se la storia è tragica: una ragazzina ammazzata dopo una violenza, la madre che affitta tre enormi spazi pubblicitari per chiedere allo sceriffo di fare giustizia. Tutto quel che da spettatori possiamo desiderare: dialoghi in cui non va sprecata una sola parola; personaggi che cambiano nel volgere di una scena; thriller usato per trattare faccende serissime; una trama dove tutti i dettagli concorrono al finale. Bisognerebbe usare la sceneggiatura come materia di studio, per imparare a sgrassare i copioni come si fa bucherellando le salsicce: niente di quel che lo spettatore deve capire è spiegato o sottolineato (così capita nella vita, i momenti decisivi non sono annunciati dalla musichetta). Se poi dovete spiegare a qualcuno cos’è la catarsi, Aristotele approverebbe la scelta di questo film come esempio.

 

Una ragazzina ammazzata dopo
una violenza, la madre che affitta tre enormi spazi pubblicitari per chiedere allo sceriffo di fare giustizia. Tutto quel che da spettatori possiamo desiderare: dialoghi in cui non va sprecata una sola parola, una trama dove tutti i dettagli concorrono al finale 

Stiamo ancora sui film e sui registi. “Dunkirk” è un altro film da considerare (“for your consideration” recita la formula con cui si ricorda un titolo ai membri dell’Academy, nudge o spintarella gentile verso il voto). Il geniale spezzettamento dei tempi mostra – se ancora ce ne fosse bisogno – che le scelte veramente d’avanguardia riescono solo ai registi che intendono riempire le sale (gli altri cincischiano senza risultati apprezzabili, e hanno bisogno di spiegare le loro intenzioni – che come è noto non interessano a nessuno – in conferenza stampa).

 

Christopher Nolan ricostruisce l’evacuazione di trecentomila soldati britannici intrappolati a Dunkirk su tre assi temporali. Una settimana sul molo: fate conto ci fosse un bersaglio disegnato sopra, le navi attraccavano, caricavano, qualche volta venivano bombardate prima che potessero ripartire. Un giorno a bordo della una barchetta privata che attraversò come molte altre la Manica per contribuire allo sforzo bellico. Un’ora a bordo di uno Spitfire che provvedeva, per quanto possibile e perdipiù con l’indicatore del carburante rotto, al fuoco di copertura.

 

Candidati sicuri, a giudicare dai clamorosi punteggi ottenuti sull’aggregatore di recensioni “Rotten Tomatoes”, “Lady Bird” di Greta Gerwig e “Call Me by Your Name” di Luca Guadagnino. Il primo ha ottenuto 164 ottime recensioni consecutive, battendo lo scorso novembre il record che apparteneva a “Toy Story 2”, anno 1999, con appena un’ottima recensione consecutiva in meno. Il solito bastian contrario ha provato a guastare la festa, restano comunque 214 critici favorevoli e uno contro. Impressionante anche il punteggio del film che Luca Guadagnino ha tratto dal romanzo di André Aciman (“Chiamami col tuo nome”, da Guanda) in arrivo il 25 gennaio: 210 recensioni favorevoli e soltanto 9 contrarie.

 

Son due racconti di formazione adolescenziale, uno ambientato a Sacramento, California e l’altro a Crema (Crema provincia di Cremona, sostituisce la Liguria del romanzo originale). Le somiglianze finiscono qui. In novanta minuti secchi, Greta Gerwig – nata nel 1983 a Sacramento – racconta la sua voglia di scappare verso un’università della East Coast. Pensiero condiviso da chiunque sia nato e cresciuto in provincia (con l’aggravante della “wrong side of the tracks”, la parte più povera della città). A Sacramento era nata nel 1934, e si era molto annoiata, la scrittrice Joan Didion, sua la frase che apre il film: “Chi parla di edonismo californiano non ha mai passato un Natale a Sacramento”.

 

Storia vecchia osservata con un gran gusto per i dettagli, e molto conta la componente autobiografica: lo spettatore sa che la ragazza diventerà Greta Gerwig, l’attrice di “Frances Ha” e di molto altro cinema indipendente. A nessun’altra avremmo perdonato la pace subitanea con la mamma che la voleva in un college vicino a casa (la mamma vera compariva proprio in “Frances Ha” diretto da Noah Baumbach: una ragazza che a New York vede gente e fa cose, in cerca di un lavoro artistico, torna per un tristissimo Natale a Sacramento).

 

Non si può dire lo stesso di “Chiamami con il mio nome”, che sbriga in mezz’ora il coming of age – anche sessuale, nell’età in cui si può esser indecisi tra i maschi e le femmine. Lo fa con destrezza, e con un bel sapore di verità. Assieme alla strepitosa leggiadria di Timothée Chalamet (anche in “Lady Bird”, dove fa il fidanzato etero e intellettuale – sigarette fatte a mano, il governo spione – che segue al fidanzato cripto-gay) fa immaginare che bel film sarebbe stato senza bisogno di metterci l’archeologia, le statue da accarezzare, la famiglia intellettuale poliglotta che passa l’estate nella villa di campagna a Crema e accoglie ogni anno uno studente americano. Coltissimo, qua: gli fai vedere un’albicocca e lui snocciola l’etimologia (“non è vero che viene dall’arabo”).

 

Il diciassettenne si mette al pianoforte e fa con i musicisti classici quello che Checco Zalone fa con Jovanotti e a Giovanni Allevi. Se non sapete ben collocare Ferruccio Busoni, e ignorate il rapporto che lo lega a Bach, funziona come un ricattino intellettuale ben riuscito. A prenderla con più garbo, “Chiamami con il tuo nome” a furia di name dropping lusinga lo spettatore di Fabio Fazio. Ma non scordiamo il nocciolo del film: un diciassettenne che insidia un ventiquattrenne, con l’attenuante dell’innamoramento e l’aggravante delle mani lunghe anche se l’adulto dice “no”. Dalle nomination, si capirà se i giurati vedono i film, o solo leggono le recensioni (che comunque insistono sul potenziale erotico di una pesca matura).

 

I due film sono considerati antidoti alla “Trump culture” (anche se il vero antidoto sarebbe non più usare a vanvera né parola “cultura”, né la parola “filosofia”). In tutt’altra categoria cinematografica, ma sempre avverso al grande nemico – anche se i pettegolezzi dicono che il film fu concepito per fiancheggiare Hillary Clinton presidente – è “The Post” di Steven Spielberg. Parecchio esaltato, e ancora più esaltati sono gli attori Meryl Streep e Tom Hanks. Fa da scena primaria “E’ la stampa bellezza… e tu non ci puoi fare niente” con Humphrey Bogart al telefono; poi la cornetta si stacca dall’orecchio e trasmette il rumore delle rotative. Il film è “L’ultima minaccia” di Richard Brooks, anno 1952, titolo originale “Deadline”: un giornale da salvare, dopo la morte dell’editore, e un’inchiesta contro un’organizzazione criminale da chiudere.

 

Candidati sicuri, a giudicare dai clamorosi punteggi ottenuti sull'aggregatore di recensioni “Rotten Tomatoes”, “Lady Bird” di Greta Gerwig e “Call Me by Your Name” di Luca Guadagnino. Due racconti di formazione adolescenziale, uno ambientato a Sacramento, California, e l'altro a Crema

Katharine Graham si trova alla guida del Washington Post dopo il suicidio del marito Philip, nel 1963. Prima era nella categoria “ladies who lunch” (le signore con cui Truman Capote andava a pranzo in posti come La Côte Basque, per poi rivelarne i segreti in “Preghiere esaudite”). Il genitore proprietario del giornale la saltò bellamente passando le consegne al genero Philip. Cose che si facevano all’epoca, e nessuno ci badava, pare piuttosto strano che si commentino nel film. In giro c’erano i “Pentagon Papers”, settemila pagine top secret sui disastri della guerra del Vietnam. Il New York Times era stato diffidato dal pubblicarle, la scatola di cartone arrivò sul tavolo di Ben Bradlee al Post.

 

Che fare? Oltre che sfidare Nixon, era in gioco l’avvenire del quotidiano, appena quotato in Borsa. Scommessa vinta da Mrs Graham, che aveva scelto bene il suo caporedattore. Il giornale cominciò a rivaleggiare con il New York Times, nel 1972 rivelerà lo scandalo Watergate. Nel 2013 il quotidiano fu comprato da Jeff Bezos per 250 milioni di dollari, se la passava male e adesso è in attivo per il secondo anno consecutivo. Forse, più della vecchia storia con le cabine telefoniche che fanno venire i lucciconi agli occhi, questa sarebbe una storia interessante da sentir raccontare.

 

Natalie Portman ha commentato ai Golden Globe “i candidati registi son tutti maschi” (lei per la verità non ha dato un gran contributo alla causa dirigendo “Una storia d’amore e di tenebra”, dal romanzo autobiografico di Amos Oz). Il più bel ritratto di femmina tosta da Oscar si deve a Aaron Sorkin, che con “Molly’s Game” ha debuttato nella regia (dopo “The West Wing” e la sceneggiatura di “The Social Network”, per limitarci). Mettiamo a verbale che non gli abbiamo ancora perdonato l’accorata letterina “figlia mia purtroppo crescerai sotto Trump”, né la scena – tra padre e figlia, un’ossessione – che in questo film spiega allo spettatore quel che già aveva capito da un pezzo. Restano i dialoghi strepitosi, spesso con voce fuori campo (e per riuscirci bisogna essere campioni) e una Jessica Chastain mai così brava. Racconta la storia vera di Molly Bloom – non parente di quella che alla fine dell’“Ulisse” di James Joyce dice “sì”, solo irlandese d’origine: prima sciatrice e poi organizzatrice di tavoli da poker (li frequentava tutta Hollywood). Soldi piuttosto facili, purtroppo qualche giocatore apparteneva alla mafia russa: si ritrovò sotto processo e senza i soldi per pagare l’avvocato (i conti li aveva sequestrati l’Fbi).

 

E’ ufficiale, capitato in tv: Meryl Streep ha avuto così tante candidature agli Oscar che neppure le ricorda tutte. Meglio le cattive ragazze: Frances McDormand in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, e Margot Robbie in “I, Tonya” di Craig Gillespie (esce a marzo, portate pazienza). Racconta la pattinatrice nata per davvero nella “wrong side of the tracks”. White trash, per essere più chiari. Con una mamma aguzzina (sportivamente parlando, l’attrice è l’incredibile Allison Janney, in prima fila nella categoria “non protagoniste”), un marito manesco e un amico del marito che crede di essere un agente segreto e vive in casa con la mamma. Tanto fecero, i due idioti, che azzopparono la pattinatrice rivale appena fuori dagli spogliatoi. Fu lo scandalo sportivo del 1994.

 

Tra i maschi l’asso pigliatutto è Daniel Day-Lewis, anche se il suo corso da scarparo fatto a Firenze ricorda “L’informazione” di Martin Amis: lo scrittore di successo con un laboratorio di falegnameria nello scantinato, scatta il discorsetto sulla scrittura e il lavoro con pialla e chiodi (a uso dei giornalisti che sempre ci cascano). Secondo nella lista, Tom Hanks-giornalista-incorruttibile.

 

Si parlava anche di James Franco per “The Disaster Artist”, neanche nel film di Tim Burton su James Wood abbiamo visto attori così – volontariamente – cani. Gary Oldman fa Winston Churchill nel didattico “L’ora più buia”, ai giurati piacciono sempre le imitazioni di personaggi storici. Deve solo sperare che a qualcuna non torni in mente una vecchia palpata, o un goffo tentativo di seduzione, o una mano morta nel taxi da ubriaco.

 

Parlando di cose nuove, c’è “The Florida Project” di Sean Baker, giovanotto che era entrato nel nostro orizzonte girando con uno smartphone “Tangerine”. Altro “white trash”, ma i bambini non sanno di esserlo, nell’albergo lilla costruito dietro la Disneyland di Orlando, ora adibito ad alloggio per chi non può permettersi altro. Tre mocciosi si divertono come possono: anche la pioggia, o una casa disabitata con qualche materasso da mandare a fuoco, risolve un pomeriggio. Fa da capo comitiva una bambina – la bravissima Brooklynn Prince – che urla sempre. E pure noi, che i ragazzini al cinema li sopportiamo quasi solo nei film di Wes Anderson, restiamo incantati. Aiuta la misura aurea dell’ora e mezza, aiuta la bravura di Willem Dafoe che fa il custode della baracca, aiuta lo sguardo senza retorica del regista. Il film è bellissimo, senza riserve, ed è un altro caso di scrittura come l’arte comanda. Per dire, la mamma riceve uomini in casa, ma lo dobbiamo capire da soli.

 

Non è sopravvissuto all’estate “The Big Sick – Il matrimonio si può evitare l’amore no” di Michael Showalter (titolo italiano cretino, si parla di una ragazza in coma). E dire che per mesi non si è parlato d’altro. Resta nella categoria del “carino”, e ribadisce che l’arte della stand up comedy è tutta americana (al massimo jewish, come dimostrano Lenny Bruce e la serie Amazon “The Marvelous Mrs Maisel”). Il pakistano Kumail Nanjiani non ce la può fare, e – piena confessione – noi eravamo anche un po’ tiepidi di fronte al talento comico di Aziz Ansari.

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