Tre oscar fra le tartine

Michele Masneri e Andrea Minuz

Al cocktail-party per il documentario su Vittorio Cecchi Gori, nell’attico ai Parioli che il padre Mario comprò con i soldi del “Sorpasso”. I successi e le disgrazie, le donne e una vita alla Manuel Fantoni

Siamo qui di nuovo a via di Monti Parioli, questa volta côté Cecchi Gori (la strada del cinema italiano è fatta “a ferro di cavallo”, spiegano sempre quando si arriva da queste parti, se la prendi da Valle Giulia “te la devi fa’ tutta”, dice il tassista esperto e dice pure il fioraio che sta lì dai tempi di Audrey Hepburn).

  

MM: L’occasione è questo cocktail-party per la fine delle riprese del documentario “Cecchi Gori, di vizi e di virtù”, molto voluto dal produttore, e che viene presentato a chilometri zero nell’ultima casa di famiglia rimastagli e sopravvissuta ai rovesci: in un tramonto anche molto metaforico romano, per ricordare e celebrare la dinastia: il padre Mario, che inizia come autista per Dino De Laurentiis, poi si prende quasi tutto il cinema italiano e la Fiorentina, e poi soprattutto lui, il figlio Vittorio, allievo e continuatore-distruttore della saga, una vita non minimalista tra calcio, donne, politica, televisione, galera, zafferano.

  

Già in ascensore si sale insieme a Franco Nero. Si capisce subito che sarà un “grande freddo” del cinema italiano

AM: Già in ascensore, si sale insieme a Franco Nero, lui in pantaloni di lino e codino, sembra appena sbucato dal Festival di Monterey, California-Parioli, “sono venuto qui l’ultima volta nel ‘69”, dice, “lavoravamo a un film che si chiamava ‘Un detective’”, un thriller romano già “poliziottesco”, con Florinda Bolkan, Adolfo Celi, musiche di Fred Bongusto; entriamo con lui, ci fanno strada i camerieri di colore senza divisa, Vittorio lo abbraccia, gli ricorda “quella volta che sei venuto qui con Vanessa Redgrave, stavi proprio dove sei ora, eravate esausti dal viaggio e vi siete buttati a dormire per terra”; si capisce subito che sarà una grande riunione di autocoscienza collettiva, un “grande freddo” del cinema italiano, d’altronde è il luogo giusto, siamo nella casa comprata dal padre Mario coi soldi del “Sorpasso”, l’ultima rimasta, intestata alla madre Valeria, e si sa che parte tutto da qui, da un film che nessuno voleva fare e che invece sarà l’inizio dell’epica Cecchi Gori e della nostra golden age, perché come dice Vittorio, “la storia del cinema è la storia d’Italia e viceversa”.

   

 

MM: Questa strana cerimonia ha tre tempi: primo, mini-conferenza stampa; poi, aperitivi nel salone interno. Tre, saluti e dissolvenza in terrazza. Cecchi Gori sta seduto in poltrona insieme ai registi del documentario Simone Isola e Marco Spagnoli e a Laura Delli Colli. Risponde contento alle domande dei giornalisti. Pare rinato, e meno gonfio. Ogni tanto mettono degli spezzoni del film, dove appaiono Verdone, Pieraccioni, Marco Risi, Roberto Benigni e tanti altri. Ma soprattutto lui, Cecchi Gori medesimo, che parla nella stessa stanza dove sta lui e stiamo noi adesso, in una mise en abyme completa. Cecchi Gori guarda se stesso e si sorride. L’appartamento, che pare quello di una ex regina in esilio, è popolato anche di bizzarri personaggi. Ci sono: una bionda vestita da bionda (“una ex Miss Mondo”, dice qualcuno senza crederci troppo). Miss Mondo si butta su un divano damascato-impolverato a ricaricare il suo telefono. Tanti maschi di mezza età con la faccia da onorevoli. Una squadra di giovani invece, molto azzimati, che si muovono tutti insieme (sembrano tutti agenti immobiliari Tecnocasa, a un certo punto sorge il dubbio che si sia stati convocati qui per un open house, e circola anche il prezzo: tutto l’appartamento, attico più superattico, viene un milione e due).

  

AM: Sì ma è tutto da ristrutturare, offrirei novecento, anche meno.

  

MM: “Più centomila per rimetterlo a posto” dice infatti qualcun altro. “Ma sei matto? Chissà che impicci” replica un altro ancora. Tutte voci senza senso, naturalmente. Ma intanto la folla scompare a un certo punto dal salone e si sente tutto un “che bello!”, “sono veri!”, “quanto pesano?”. Si va allora verso il grande tavolo a buffet allestito in un angolo del salone, e lì, in mezzo alle tartine e ai finger food, sberluccicano tre statuette, tre Oscar. Sono quelli vinti per “Mediterraneo”, “La vita è bella” e “Nuovo cinema Paradiso”, viene spiegato. Gli Oscar in mezzo alle tartine non li avevo mai visti, e lo straniamento è tale che tutti fanno foto, stories, ma nessuno osa toccarli, e a quel punto nemmeno toccare le tartine, che sembrano rifulgere di quella luce sacra, la luce di Hollywood.

  

L’appartamento pare quello di una ex regina in esilio. “C’avevo gli uffici a Beverly Hills”, dice Cecchi Gori. L’idea rubata da Hollywood

AM: Da giallo-oro a giallo-zafferano. “C’avevo gli uffici a Beverly Hills”, dice Cecchi Gori. Hollywood era Roma e Roma era Hollywood, e siamo subito dentro “Borotalco”, tutto un “vivo tra Roma e Los Angeles”, come Manuel Fantoni alla fine del film, un film “modernissimo”, dice giustamente Vittorio, prodotto da suo padre che a Verdone disse: “Voglio un film brillante, che faccia ridere e che faccia soldi”; Vittorio Cecchi Gori aveva due società americane, la Cecchi Gori Pictures, la Cecchi Gori Usa e un cinema, il “Fine Arts Theatre”, poi dismesso, poi ristrutturato; racconta che in uno dei tanti voli buttò giù un soggetto: “Era una storia che ruotava attorno ai sette peccati capitali, con un taglio comico, intorno a ogni peccato si sviluppava un racconto”; quando arriva a Los Angeles ne parla subito coi colleghi americani, passa un po’ di tempo, lui se ne dimentica, finisce che quelli ci fanno “Seven” con Brad Pitt e Kevin Spacey, “la commedia qui non funziona, meglio farci un thriller”, gli spiegano, e qui siamo tra la storia e la leggenda, gli americani che ci copiano, ci fregano le idee, siamo sempre dentro Manuel Fantoni.

  

MM: Questo doveva essere davvero un attico da Manuel Fantoni, ai tempi. Tra il salone e il favoloso terrazzo c’è anche uno strano scompartimento, come un acquario che sia stato improvvisamente svuotato della sua acqua. Forse una volta ci nuotava Moana Pozzi o una sua variante d’epoca. Adesso ci sta invece, come per punizione o nemesi, un tapis roulant, impolverato, col filo staccato. Chissà che party, all’epoca, in questa terrazza dove pare di stare in barca, parte di Monti Parioli che diventa grandiosa e schiumosa, palazzi bianchissimi che guardano Roma dall’altra parte rispetto a quella ricercata dai turisti. Il palazzo ha mosaici e dettagli modernistici che pare puro Rio de Janeiro, quartiere Leblon Alto. Nell’appartamento, signorilità e parquet a spina di pesce più una dose di esotico drammatico declino, tapparelle e bagni rotti, scale pericolanti. Intanto il gruppo dei giovani azzimati si fa selfie col “presidente”. Non resistendo, chiedo: siete tifosi della Fiorentina? “No, praticanti”, rispondono (di un vasto studio legale che difende Cecchi Gori nelle sue variegate vicissitudini). Nella biblioteca del salotto stanno tutti i classici Rizzoli, i David di Donatello, e le foto di famiglia: con Benigni di “Johnny Stecchino”, i figli Vittoria e Mario, che vivono a Miami con la madre. Salgo le scale e sopra c’è un altro attico, ma è disabitato, fa parte dello stesso appartamento di Cecchi Gori, sembra che ci siano passati i ladri, c’è un camino divelto, mobili buttati a terra. “I creditori”, dice qualcuno con un sorriso. “I ladri”. La maledizione delle case di Cecchi Gori. Case e finali sbagliati.

   

AM: C’è infatti questa foto pazzesca del padre Mario sul set del film, accanto alla carcassa dell’Aurelia B 24, cioè della Fiat che buttarono nel fosso al posto dell’Aurelia; ha la sigaretta in bocca e l’aria incerta di uno cui hanno appena rifilato un bidone, perché si sa che il finale col morto proprio non lo voleva fare: o si ride, o si muore; invece è lì che si mette a punto la legge fondamentale, la sezione aurea della nostra commedia incredibile e moderna, tutti film in cui “si deve morire, non si può mica ridere e basta”. Adesso Vittorio pensa a un remake, ha buttato giù un soggettino da un po’ di tempo e prova a venderlo in giro, dice che ora si fa, “è tutto pronto”; più o meno sarebbe così: Bruno Cortona è un ex socialista, un avanzo della Prima Repubblica, ormai anziano, uno che ha perso tutto, gli è rimasta solo la macchina ma anche quella un po’ sfasciata (“lo facciamo con una vecchia Ferrari”); al posto di Trintignant, uno studentello in Erasmus, magari residente al Pigneto che gli presta il caricabatteria per l’iPhone comprato a rate e parte la storia in un’Aurelia intasata, Bruno Cortona potrebbe farlo Christian De Sica, “però gli attori ancora non ci sono”, dice, “tanto appena parte il film, vedrai quanta gente vorrà farlo”; può funzionare? Chissà, forse sì; intanto siamo qui, con Vittorio Cecchi Gori che gioca coi i suoi cani, Oscar e Principessa, e ci parla del remake del “Sorpasso” nella terrazza della casa comprata da suo padre coi soldi proprio del “Sorpasso” che è già un bel capitolo edipico-immobiliare di un Grande Romanzo Italiano tutto da scrivere.

   

La famosa villa sulla duna a Sabaudia. Poi da Palazzo Borghese a Regina Coeli in una notte, “e non è mica facile”, come dice lui

MM: Ma le case di Cecchi Gori erano un tema, una leggenda. A Sabaudia c’è la famosa villa sulla duna con la piscina dalla strana forma. C’è chi dice a forma di giglio fiorentino, chi di più prosaico fallo. Io – non per vantarmi – ci ho fatto il bagno, in quelle sacre acque. Appartiene a una simpatica signora russa che l’ha tutta ristrutturata. La casa è finita nella micidiale lite giudiziaria con l’ex moglie Rita Rusic, poi all’asta. Narra la leggenda che al passaggio di proprietà sia stato rinvenuto anche uno stuolo di servitori cecchigoriani che, non venendo più pagati da anni, avevano okkupato l’immobile. Il Circeo poi è stato il teatro dell’ultimo degli arresti di Cecchi (tre Oscar, tre arresti). Nell’estate 2011 era in barca verso Ponza di fronte, quando una motovedetta della Capitaneria di Porto lo ferma per uno dei tanti fallimenti, questa volta della FinMaVi, la finanziaria di famiglia. L’ordine di arresto, pare, arriva da un impiccio o tribunale della California, di nuovo. Designed in California, eseguito al Circeo (la storia di Cecchi Gori è tutta così, successi e fallimenti e impicci a cavallo dell’Oceano).

  

AM: Poi da Palazzo Borghese a Regina Coeli in una notte, “e non è mica facile”, come dice lui.

  

MM: Passa al gabbio direttamente dal più bel palazzo di Roma, sulla omonima piazza, dove stanno il circolo della Caccia, oltre ai Borghese proprietari. Logge teatrali, da stordimento. Cecchi Gori lo comprò ai tempi della massima grandeur negli anni Novanta, doveva essere la dote della piccola Vittoria. Diventa il simbolo immobiliare del crack: nel 2011 dopo vari passaggi giudiziari finisce a un altro produttore, Pietro Valsecchi, che oggi ne ha fatto la casa più bella di Roma, con una delle collezioni d’arte più incredibili d’Italia. Ma ai tempi cecchigoriani, il solito format: strani furti, perquisizioni, sequestri. Teatro dell’assurdo, tra Goldoni e Genet e il marchese del Grillo. C’è appunto la famosa storia dello zafferano: il 5 luglio 2001 la polizia cerca dei documenti, fa aprire la famosa cassaforte e trova 8 grammi di cocaina. Cecchi Gori dirà che pensava fosse zafferano (poi dirà invece che sapeva benissimo cos’era, e che era un periodaccio). Poi da perquisito diventa perquisitore. “Ci sono degli intrusi, mi stanno rubando in casa”, dice al 112 in una fatale chiamata qualche anno dopo. I carabinieri arrivano e trovano i parenti della moglie. Ma siamo già in un’altra casa e in un’altra fase ancora. Qui siamo a via Platone, parte chic di Prati (le location cecchigoriane sono sempre top, seguire la sua vicenda è anche fare una mappatura del real estate romano). E’ “l’attico di via Platone” che nel 1999 lascia signorilmente alla moglie Rita Rusic. Salvo poi rivolerlo indietro, e chiamare i carabinieri, perché ci sono i ladri, e i carabinieri scoprono invece trattarsi di parenti, di lei: non un’efferata gang di scassinatori ma la famiglia allargata della ex cantante istriana poi attrice in “Attila flagello di Dio”, che ha flagellato il cuore e le sostanze cecchigoriane. Oggi lui ne parla comunque con rispetto. “E’ pur sempre la madre dei miei figli, queste cose rimangono”, dice dalla poltrona. E a una giornalista che gli chiede se farebbe mai una passeggiata a braccetto delle due donne della sua vita, “la Rusic” e “la Marini”, insieme, lui dice che “insomma, le donne hanno il loro carattere”, e sembra rianimarsi, e pare quasi che questa contesa, quella giudiziaria e quella muliebre, gli faccia in fondo piacere.

   

“La Rusic” e “la Marini”: le donne, dice “hanno il loro carattere”. Ma il suo grande amore è stato Maria Grazia Buccella

AM: Che poi il suo grande amore è stato Maria Grazia Buccella, una storia pazzesca partita sul set del “Gaucho”, altro film di Dino Risi, ma in Argentina, è lei che l’ha portato in ospedale quando ha avuto l’ictus, “mi ha salvato la vita”, dice lui.

  

MM: “Io sono stato soprattutto un figlio, mia mamma mi ha fatto che aveva diciannove anni”, dice lui. E nella galleria di ritratti ce ne sono tante piccole dei figli, ma la più grande è per il padre Mario. “Mio padre non capì mai il successo di Bud Spencer e Terence Hill”, dice a un certo punto lui dalla poltrona. E a pensarci, quell’idea non può essere di un adulto: non può che venire da un bambino, un bambino mai cresciuto. Forse di qui anche i tracolli. Ma intanto gli Oscar non ci sono già più. Il cameriere-badante o chi per lui li ha spostati, li ha messi fuori sul tavolo del terrazzo, accanto a una torta con disegnata la copertina del documentario, e a una specie di cuscino di fiori. Cecchi Gori taglia la torta, gli si fa un sincero applauso. Lui a quel punto pare come spegnersi, aver perduto ogni residua energia. Si va a sedere in un angolo della terrazza a prendere il fresco, parla solo coi suoi adepti, si sentono le parole “dissequestro” e “meglio presentarlo a Venezia”. Gli fanno sedere accanto miss Mondo. I canetti ai suoi piedi. Gli portano un lume. E però tutto è assurdo, romantico e vagamente sinistro. La torta è una tortina al massimo per dieci persone, e saremo cento. E non c’è stata una vera cena, prima. Dunque nessuno l’ha mangiata. Ma cos’è? Dove siamo stati? Una merenda? Un compleanno? Uno strano rito funebre? Intanto i tre Oscar stanno lì, maestosi, e riflettono la luce dorata un po’ dei Parioli e un po’ di Hollywood.