immagine tratta dal film "Miseria e nobiltà"

Storia clemente della fame

Il pane amaro, la farina e tutto ciò che non c'era da mangiare

Francesco Palmieri

L’ansia della penuria alimentare, le file ai supermarket, l’accaparramento. Con la crisi del coronavirus due generazioni sono finite nel mondo del prima, quello di Totò coi vermicelli. Così la paura del digiuno ha svecchiato copioni e romanzi

Cannavacciuolo sì, ma non lo chef. Qui si parla di Cannavacciuolo Salvatore, disoccupato, e dei moltissimi Cannavacciuolo che nel tempo hanno marciato sul filo teso tra fame e sazietà, in quell’ingiusto mezzo tra il mangiare e il digiunare. Fu quel Cannavacciuolo (Salvatore) il personaggio emblema del film di Nanni Loy Mi manda Picone, che uscì quattro anni dopo il terremoto del 1980, mentre la ricostruzione arricchiva la camorra e invogliava i suoi clan alla guerra nella città più splendida e più lazzara d’Italia. Per placare la tensione psichica dall’incessante domanda se alla sera mangerà o non mangerà, Cannavacciuolo si porta perennemente appresso un’intoccabile “riserva”, un pacchetto di pastina cui tiene più d’ogni altra cosa e che un cane randagio al quale ha dato troppa confidenza cercherà di sottrargli. Parabola in un ciak del proverbio pessimista ’o cane mozzeca ’o stracciato, perché l’esperienza ha assodato che avviene proprio così: morde il povero. Se n’accorsero i sociologi soltanto molto dopo, e prendendo spunto dal Vangelo intitolarono pomposamente “effetto San Matteo” quel che i napoletani conoscevano da sempre.

 


Un'immagine tratta dal film Mi manda Picone (via Wikimedia)


 

Chi ha fatto l’arrembaggio ai supermercati, già nelle prime fasi dei lockdown per il coronavirus, non potrà più giudicare paranoico o esagerato lo stracciato Cannavacciuolo con la busta di pastina. Rappresenta rispetto alle provviste dei quarantenati appena il simbolo di un’ancestrale inclinazione. Con provviste più vicine al quintale che ai duecentocinquanta grammi abbiamo più che pareggiato i conti e dunque la paura della fame, è ufficiale, non è retorica o reperto del passato. Puoi pensarla esagerata finché non ti attraversa: prendi Le voci di dentro, che Eduardo De Filippo scrive nel 1948. Uno dei due invidiosi vicini s’intrufola al mattino nella “luminosa e linda cucina” della famiglia Cimmaruta, scrocca un piatto di maccheroni avanzati dalla sera prima e un bicchiere di vino. Quando la padrona di casa dice che per suo nipote sbatterà due uova, non si trattiene proprio: “Due uova? Vi trattate bene”. La sera prima lui ha compartito col fratello appena cento grammi di olive e un piede di porco. Adesso un’ansia generalizzata, specialmente tra le fasce deboli, ha svecchiato di colpo quei copioni: uova del Dopoguerra, pastina del dopoterremoto, chissà che cosa del dopocoronavirus.

 


La paura della fame, è ufficiale, non è retorica o reperto del passato. Puoi pensarla esagerata finché non ti attraversa. Nell’Italia degli chef più che dei cuochi, della qualità più che della quantità, s’era defilata inavvertita la differenza tra chi mangia e chi è digiuno


 

Vale di colpo cento punti in più il realismo minimale di ‘Capannelle’ (impersonato dal caratterista napoletano Carlo Pisacane), che al fallimento del “colpo” dei Soliti ignoti si consola assaporando pasta e ceci dalla pentola. Sono, quelle cucchiaiate, un atto di clemenza con se stesso, replicato da chi dovendo rimanere chiuso in casa fra il crollo del pil, il calo delle borse, la perdita dei posti di lavoro cerca conforto dentro il frigorifero senza sapere quando – e come – ne uscirà.

 

C’è un riflesso bulimico all’angoscia che non assomiglia proprio alla reazione tutta gioia e quasi infantile di Totò. Per dissimulare la voracità al cospetto di un’inaspettata opulenza accenna passi di tarantella sulla tavola della miserrima casa, dove hanno appena depositato canestri di cibarie e una monumentale quantità di spaghetti al pomodoro. E’ la famosa scena di Miseria e nobiltà, il film del 1954 che fece da remake all’omonima commedia di Eduardo Scarpetta, una scena anche più nota di quella in cui – pensando d’impegnare un cappotto liso che non è “il paletot di Napoleone” – il coinquilino suggerisce a Totò di comprare un ben di dio culinario con la lussuosa aggiunta di due sigari, e si sfrena nel piacere della lista impossibile. C’è sempre un carico di sogni che fermenta nel desiderio degli affamati e che sta lì, pronto a sprizzare a fiotti per l’occasione. E’ un sentimento viscerale che se insoddisfatto vira in malinconia: quella di Cienzo per esempio, protagonista della fiaba di Giambattista Basile Il mercante. Costretto a scappare da Napoli, per avere spaccato la testa “a no figlio de no re” in una sassaiola, si volge a salutare la città che già rimpiange con una trasfigurazione decuplicata alla Hänsel e Gretel dinanzi alla casetta di marzapane: “Chissà se potrò più vedervi, mattoni di zucchero e mura di pasta reale, dove le pietre sono fatte di manna, le travi di zucchero di canna, le porte e le finestre di sfogliatelle! … Addio carote e bietole, addio zeppole e migliacci, addio broccoli e ventresche, addio trippa e frattaglie, addio spezzatini e pasticci… me ne parto per restare per sempre vedovo dei pignati maritati, vado via da questo bel casale; broccoli miei, vi lascio alle spalle”.

 

Come sarebbe facile derubricare nella categoria delle enfasi barocche la malinconia alimentare del fuggitivo; o ridurre a farsesco il Totò che trangugia ciuffi di spaghetti dalle mani. Chi lo facesse confermerebbe solo un altro vecchio detto napoletano. Dice che ’o sazio nun crede ‘o riuno: chi è sazio non crede a chi è digiuno. Nell’Italia degli chef più che dei cuochi, della qualità più che della quantità gastronomica, della compulsiva oscillazione fra la nevrosi degli ingredienti e quella delle diete, s’era defilata inavvertita la netta differenza tra chi mangia e chi è digiuno. Si ostinava a ricordarla, ma ormai quasi tacendo per carenza d’ascolti, la categoria anagrafica più falcidiata in queste settimane dal coronavirus: molti fra le migliaia di ottantenni che se ne sono andati, tra ospedali e case di riposo, provarono la fame o la paura della fame alla stessa età in cui i loro nipoti e pronipoti si sentono assillati dai dilemmi calorici e dall’estetica dei piatti. E così questa parola o la paura della parola “fame”, già remota nel tempo e nello spazio s’è presentata all’improvviso a nipoti e pronipoti assieme a “quarantena”, altro vocabolo da dizionario fuori catalogo. L’ansia della penuria alimentare, le file ai supermarket dilatate dalla distanza sociale a lunghezze di decametri, l’istinto dell’accaparramento hanno proiettato due o tre comode generazioni nel mondo del prima – quello di guerre e Dopoguerra e dei Totò coi vermicelli – o nel mondo del dopo. Questo ancora peggiore, fatto di film e romanzi apocalittici come La strada di Cormac McCarthy, che ha non per caso a emblema il carrello del supermercato. E un padre e un figlio.

  

E’ dal cibo – ossia per fame – che scatta la molla della sommossa e dell’efferatezza. Il primo squillo si leva nella piazza (o nei gruppi Facebook), da una bocca che grida e anela a mangiare. Così accadde per la rivolta di Masaniello dopo l’ennesimo balzello sulla frutta, in un’afosa domenica di luglio del 1647, per certe sporte di pesche e susine rovesciate dai gabellieri a due passi dalla chiesa del Carmine, dove pochi giorni e parecchio sangue dopo si sarebbe completato il dramma. Non trascorsero dieci anni che Napoli fu aggredita da una tragedia peggiore: la pestilenza del 1656, al cui cospetto il coronavirus pare – avrebbe detto Totò – quisquilia e pinzellacchera: centocinquantamila morti, qualcosa di prossimo allo sterminio della città. Comunque le epidemie al di là dei numeri, delle epoche e dei rimedi sanitari s’assomigliano tutte: in quel caso è un bastimento che approda dalla Sardegna infetta malgrado il blocco navale. Ed ecco poco dopo qualche strano decesso attribuito al mal caduco, quindi la moltiplicazione delle morti, le incertezze dei medici, l’individuazione del male, la reticenza delle autorità, i gendarmi per strada, l’immancabile caccia ai presunti untori, l’apprestamento dei lazzaretti, il rifiuto dei ricoveri per mancanza di posti, le agonie nelle case, i contagi familiari, i seppellimenti fuori le mura di cadaveri senza più nome rovesciati nelle grotte, la scarcerazione dei detenuti utilizzati come becchini coatti, gli sciacallaggi, le frodi, la scarsità di cibo, la gente chiusa in casa col terrore o svincolata per terrore dai freni inibitori che si vota a sollazzi e stravizi. Perché tanto tutti, oddio così giovani, si deve presto morire.

   

Il picco dei decessi fu raggiunto a luglio, il mese color sangue di Masaniello. Ad agosto la curva cominciò la discesa. L’8 dicembre Napoli veniva finalmente dichiarata libera dalla peste – per i pochi che ormai l’abitavano.

 

Pubblicata oltre un quarto di secolo fa, c’è una pagina di Nino Leone che conclude un capitolo di La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello. Letta quando uscì sembrava una di quelle considerazioni da storico; riletta adesso ti ci ritrovi coi brividi: il morbo aveva cancellato “interi pezzi di società, forze produttive, intellettuali d’ingegno, pittori di fama, uomini di primo e infimo ordine… Passata l’epidemia il dopo non fu mai più come prima… E a chi era sopravvissuto si poté leggere in faccia, per il resto dei giorni, la fine del mondo che aveva visto e soprattutto attraversato con le proprie gambe”.

  

C’è qualcuno che ha cominciato a fare o rifare il pane in casa. Gli scaffali hanno subìto l’incetta di farina e lievito di birra, di zucchero, sale e conserve. L’istinto livella i secoli e le lauree, fa del raziocinio incudine e delle paure martello. Perciò non è più solo un vezzo, un gioco o l’hashtag di qualche settimana addietro, non più la compulsiva sindrome di Peter Pan che spinge i bambini smarriti di Neverland a esibire pasti presunti nel mondo virtuale, nient’altro che pretended meals per i palati immaginativi di amici del web. E’ una pandemia che adesso detta la rievocazione de profundis di istinti ancestrali che sempre fecero del pane, in Occidente, il cibo rifugio come è l’oro per gli investitori intimiditi, quando l’oncia schizza al rialzo perché i mercati finanziari sono confusi dalle incertezze congiunturali. Pagnotta e lingotto rassicurano nei giorni delle ansie maggiori.

  

Perciò per un pezzo di pane, come per un lingotto, c’è chi fu o sarà disposto alla battaglia ancorché nelle stagioni d’abbondanza abbia profuso ai cani il superfluo. Perché la mera paura della fame può mettere in moratoria la morale. Chi ha contemplato, per la prima volta, lo squallore degli scaffali svuotati d’assalto a una Esselunga, dovrebbe inorridire meno circa la fine di Giovan Vincenzo Starace, Eletto (ossia rappresentante) del Popolo per la municipalità di Napoli nel 1565, novantun anni prima di quella grande peste. Fu un rincaro del pane, provocato da un prelievo straordinario di grano chiesto dagli spagnoli, a scatenare l’ira della folla. Ma fu anche la cattiva sorte a decretare il martirio di Starace, primo perché quel giorno lui non si sentiva bene e mancò alla riunione di giunta; secondo perché era un uomo piuttosto pingue. L’assenza fu interpretata come connivenza e la corpulenza come insolente abbondanza: due indizi imperdonabili in una città che paventava la carestia. Chiamato a furor di popolo dal letto di casa alla portantina, l’Eletto cercò invano di discolparsi finché fu colpito da un mattone in testa, agguantato e sospinto a forza in una chiesa. Lo gettarono in una fossa da sepoltura, ma poi l’orda ci ripensò: non volevano finire così presto. Perciò lo denudarono, lo accoltellarono e lo trascinarono agonizzante per la strada. E chi gli amputò una mammella, chi una mano, chi gli strappò il cuore, chi lacerò dalla testa spaccata il cervello finché agli esaltati del contrappasso venne voglia di divorare, più che l’insidiato pane, lui proprio. Ci fu così, riferisce una cronaca testimoniale, “chi se magnò lo core” dell’Eletto Starace o addirittura “se pigliò un pezzo della cammisa insanguilentata et se la magnò”, mentre qualcuno “se zucò lo sangue”. Più raffinati quelli che misero a sacco il palazzetto della vittima, prosciugando le botti colme di Lacrima Christi, Greco di Tufo e Moscatello.

  


Molti fra gli ottantenni che se ne sono andati provarono la fame alla stessa età in cui i loro nipoti si sentono assillati dai dilemmi calorici. Le epidemie al di là dei numeri, delle epoche e dei rimedi sanitari s’assomigliano tutte. La peste di Napoli riletta oggi fa venire i brividi


 

Perché da un pezzo di pane può scaturire l’orrore. E chissà da quale bocca proruppe il primo grido o chi scandì all’inizio la parola “fame” – come il fruttivendolo che innescò l’ira di Masaniello – attizzando la brama dei lazzari cannibaleschi. Fu magari un uomo dimesso, che incrociato il giorno prima avresti detto mansueto padre di famiglia.

 

Un pezzo di pane è genere essenziale secondo tutti i Dpcm ed è ammesso persino dai variegati De Luca (Cateno sindaco di Messina, Vincenzo governatore della Campania), i quali sanno che a sottrarlo nei momenti emergenziali si rischia la sorte di Starace e a equipararlo alle brioche il destino di Maria Antonietta. Il pane di quarantena, che oggi costa una fila in mascherina o un’uscita supplementare all’ora in cui non vorresti, ovvero il pane lievitato in casa dall’orgoglio delle proprie mani, sarà domani rievocato come più sapido di qualsiasi altro che verrà mai mangiato. (Qualche volta s’assegna ai ricordi anche l’onere d’ingannarci). Sarà un po’ come la nostalgia di quel Cienzo della fiaba, quando si volta allontanandosi dalla città e ne rigusta pure le delizie che non aveva assaggiato. Sarà un po’ come il rimpianto dello scrittore Giuseppe Marotta, che a Milano ricordava con affetto – perché dopo è più facile – anche la fame dell’infanzia napoletana. Alla quale, naturalmente, offrì rifugio il pane: con sale e olio. Per i più poveri quel cibo fu “ereditario come il colore dei capelli o la tisi”; oggi “pane, sale e olio” sarà citato al più nei post del genere “Noi che negli anni ’70”. Perché sì, fu una merenda che resistette a lungo, e forse ancora varrebbe un hashtag su Instagram nel lezioso circuito dei pretended meals. Si può provare: la banalità suscita indulgenza.

 

Scrive Marotta che “questo pane con sale e olio si determina, in una casa meridionale, quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, c’è sempre qualche goccia di olio nella bottiglia, c’è sempre qualche pezzo di pane raffermo nei cassetti in cucina, ci sono sempre un pizzico di sale nel barattolo e l’affettuosa acqua del Serino nella fontana”. Lui lo raccontava a fame prescritta e a fama raggiunta perché non di solo pane si trattava, ma di memoria gentile, e riaccendeva “la sensazione che passi leggeri ci si avvicinino e care mani ci sfiorino”, mentre “un odore di alito di bambino si diffonde nella stanza”.

  

Qualcosa di simile permane, per chi li frequentò, nella memoria dei refettori, così diversi dalle mense aziendali dove l’opulenza è dietetica e cronometrata. Furono enormi sale di conventi, come quella affrescata nel monastero di San Domenico Maggiore dove pregarono e cenarono il docente Tommaso d’Aquino o i terribili novizi Giordano Bruno e Tommaso Campanella. O furono i locali assai più umili delle scuole elementari, dove i “passi leggeri” erano quelli delle suore e gli aliti di bambino si mischiavano agli odori di pasta e patate, di cappotti bagnati, di matite continuamente temperate e spuntate. Era in quei refettori che insegnavano a tradurre, per buona creanza, il pensiero della “fame” con l’eufemistico vocabolo “appetito”.

 

Ma è la fame, non l’appetito, che fissa nel pane la gallery degli affetti da sfogliare domani, li imprime sul rovescio di una moneta che nella faccia opposta reca inciso lo strazio dell’Eletto Starace. La fossa sepolcrale in cui fu proiettato il poveretto stava nella chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, sulla stessa strada dove il piccolo Marotta avrebbe abitato senza stentare a crescere malgrado, o in virtù, di quel pane. Con sale e olio bastò. E bastò al poeta Libero Bovio mangiarselo con le ciliegie, desueto ma riscopribile companatico, per non dimenticare più la ragazza che dopo, fatta fortuna in teatro, l’avrebbe solo distrattamente ripensato. Centotré anni sono già passati, ma Reginella si canta dovunque:

Reginè, quanno stive cu mmico

Nun magnave ca pane e cerase,

Nuie campavamo ‘e vase! E che vase,

Tu cantave e chiagnive pe ‘me…

 

Quattro versi per descrivere la tenue corrispondenza che connette eros e fame, il pane ai baci, quando davvero amiamo e ne scriviamo da giovani. Se si riesce persino a sottoscriverle una musica adatta, come si fissa il sapore di un cibo e d’un bacio, allora è proprio un ricordo perfetto. Può restarsene a lungo sepolto ma un giorno riemergerà, con l’opzione delle lacrime o, che sarebbe meglio, di un sorriso.

 

Riaffiora dalla morte Pulcinella sempre per mano di Bovio, che scrive un atto unico nello stesso periodo di Reginella, mentre divampa la Prima guerra mondiale. E’ che forse durante l’epoca delle emergenze collassa il senso del tempo, sicché “c’era una volta” può distrattamente diventare “c’è adesso”. Pulcinella torna fantasma sulla terra però senza più fame, soltanto per portare con sé nell’oltretomba la moglie Colombina che da quando lui non c’è, per sfamarsi, s’è cambiata in sciantosa un po’ puttana, una mezza Reginella smunta su cui cipria, smalti e rossetto stentano il camuffamento. Stavolta più spettrale che buffone, il morto mascherato dal camicione bianco rincontra la vedova in una trattoria sulle alture del Vomero, quando gli ultimi clienti se ne sono andati e i suonatori ci stanno ancora ma si sentono stanchi. Flebile resta la musica tra stomaco vuoto e stomaco pieno, tra l’adesso e il c’era una volta, che fu quella in cui Pulcinella corteggiò Colombina nella stessa trattoria, lei molto più giovane ma lui sempre lo stesso, e alla fine la conquistò versandole più vino e strappandole una risata.

 

E’ all’osteria che si sazia la fame o se hai bevuto troppo risalgono quelli dal mondo di giù, è all’osteria che uno fra gli ultimi poeti dialettali della città, si chiamava Pasquale Ruocco, cadde nel sonno dopo pranzo e immaginò di visitare l’Inferno, sminuito nell’apparenza di un’enorme trattoria dove i dannati stramangiano e giocano, tracannano tutto il vino possibile coi cibi più piccanti perché il vero supplizio è non bere mai acqua. Quella è l’unica cosa che manca. Ruocco pubblicò All’Inferno nel settembre 1943, alla vigilia dell’insurrezione napoletana contro l’occupazione tedesca. Tra l’incubo dei bombardamenti e le penurie alimentari, s’immaginò un Inferno che chiunque, in quel momento, avrebbe preferito alla terra. E poi si dice che i poeti non servono. Il poemetto fu stampato su quella fragile “carta di guerra” che si fa subito giallastra e sbrindellata, e pare fosse immaginaria anche l’ispirazione dei versi scaturita dopo il banchetto alla taverna. Se lo sognava, in mezzo a quel dramma, il lauto pasto del ristorante – e questo fu difatti: sogno nel sogno.

 

E’ che sempre le taverne più o meno celebrate illuminarono per secoli, come amuleti contro la fame, il buio di certe notti napoletane; e che sporadiche ma periodiche cuccagne accesero l’oscurità dei secoli spagnoli, borbonici e italiani dando tregua alle privazioni alimentari e a ricorrenti carestie. Fu chiamata a testimone cortese la musica, dalla linda sfida tra mandolino e calascione che Giovanni Paisiello immaginò ne L’osteria di Marechiaro alla presenza assidua dei posteggiatori, fra gli ultimi i gemelli Raffaele e Giulio Vezza, di cui qualcuno avrà memoria come di due dolci e allampanati signori nelle trattorie della Riviera di Chiaia, mentre fu territorio di Mimì Pedullà, manella d’oro, il ristorante D’Angelo col suo sontuoso panorama. Perché una volta chi banchettava festeggiava. Più rara fu l’abbondanza di cibo, più apprezzata la musica che la rallegrò.

 

Preso un giorno da quella vaga forma di follia che i più chiamano sbrigativamente collezionismo, un tale Palmieri cominciò a raccogliere le voci degli ambulanti napoletani nell’Ottocento, arrivando a trascriverne sul pentagramma cinquecento circa. Nei melodici richiami dei venditori alimentari c’era il genoma della musica partenopea: il modo dorico della Grecia antica, la struttura delle cosiddette scale napoletane e certe fioriture arabe che Sergio Bruni sapeva ancora cantare. Come se fame e sazietà fossero parallele al silenzio e alla voce, musica e cibo s’intrecciarono in una relazione più intensa che altrove. E fu soltanto un caso, però curioso, che quel Palmieri venisse soprannominato Ciccione, quasi che trascrivendo i richiami di maccaronari, mellonari, spigaiole, ovaiole, mozzarellari e acquavitari si fosse progressivamente enfiato, bevendo e mangiando pure con le orecchie. Assunse infine l’aspetto prosperoso di un Eletto Starace ovvero – tanto meglio per lui – di un Cannavacciuolo (non il disoccupato Salvatore, ovviamente, bensì Antonino lo chef).

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