Come ne scriveremo
Con quali romanzi, con quali storie, con quali dettagli e quali fantasie racconteremo i giorni neri dell’epidemia? C’era una volta una vecchina che contava gli starnuti degli altri...
“Descrivere la crocifissione è come, come un pittore cui viene detto, su, dai, disegna un vaso di fiori: come si fa? Tutti i più grandi pittori hanno già disegnato un vaso di fiori. O un tramonto. Nell’arte ci sono innumerevoli crocifissioni, migliaia di quadri della crocifissione, e ci sono racconti, romanzi, un sacco di film, e ovviamente prima di tutto ci sono le vivide descrizioni nel Nuovo Testamento”, dice Amos Oz a Shira Hadad in un libro-intervista tradotto da Elena Loewenthal e pubblicato da Feltrinelli, Sulla scrittura, sull’amore, sulla colpa e altri piaceri. E’ così per ogni crocifissione, per ogni vaso di fiori: in fondo, le tre parole a cui si può ridurre la storia della letteratura (e quella dell’arte, e la nostra esistenza per intero) sono vita, morte, amore. Nulla accade che non vi sia ricompreso, mille declinazioni di fondamentali e di sottigliezze sono state già dette prima, già dette meglio. Tutto va come nelle ultime righe di Fiaba del materialismo di Alfred Döblin (una storia sull’improvviso capovolgimento delle leggi umane, una rivolta della fisica, una rivoluzione per uomini, animali, vegetali, minerali – un mondo al contrario): “Così viviamo, così viviamo, così tutti i giorni viviamo”. Cos’altro si può scrivere, di più universale e preciso di queste righe?
Ogni volta che uno scrittore guarda la sua biblioteca, ogni volta che pensa ai capolavori scritti prima di lui, prima della sua nascita, sa che farebbe meglio ad andare a fare una passeggiata (soprattutto in questi giorni, dato che a quel pensiero si può pure abbinare un discreto, disperato senso di trasgressione), ed è un pensiero sano, onesto: sentirsi indecentemente inutili è sempre un bene. Poi, dopo aver fatto la sua passeggiata, dopo essersi versato molto vino, dopo aver abbandonato almeno un poco di razionalità, lo scrittore si siede, respira, si dimentica di tutto e si mette a fare il suo dovere, fregandosene di essere un nano accovacciato sulle spalle di un bonario gigante, o sotto la sua ascella avvinto in un paternalistico e minaccioso abbraccio. Perché tante cose può essere la scrittura meno che due verbi, superare e dimostrare, non è mica una gara; la storia della letteratura è storia della misurazione di una profondità e tentativo imperfetto di ripetere uno slancio, raggiungere la prima e conservare il secondo; è una storia di occhi che indicano profondità sempre più irraggiungibili e gambe che tentano salti sempre più complicati. E’ una storia di fallimenti, ovvero del campo in cui gli esseri umani primeggiano.
“Così viviamo, così viviamo, così tutti i giorni viviamo”. Cos’altro si può scrivere, di più universale e preciso di queste righe? Se ci chiediamo come il coronavirus finirà nei romanzi, sappiamo bene che ci è già finito, ancora prima di esistere
Dunque, se ci chiediamo come il coronavirus finirà nei romanzi, sappiamo bene che ci è già finito, ancora prima di esistere, ancora prima che dovessimo arrenderci, a poco a poco, al fatto che qualcosa che non avevamo previsto scardinasse la nostra quotidianità. La prima risposta che ci siamo dati è che esiste già una ricca letteratura del contagio, da Bufalino a King, e una altrettanto ricca letteratura su società immaginarie costruite per obbedire a regole estreme, da Orwell a Atwood. Ma il fatto che la migliore letteratura sia stata già scritta non ha mai impedito che se ne producesse dell’altra, altrimenti ci saremmo fermati alla descrizione che fa Tucidide della peste di Atene e ci saremmo persi Camus o Bruno Schulz.
Innanzitutto, consideriamo i tempi. Sempre nell’intervista a Shira Hadad, Amos Oz dice che “il tempo naturale della letteratura è il passato”, e anche Cesare Pavese riteneva che la letteratura dovesse nascere dallo stupore della memoria, non da quello del presente. Il grande romanzo sul Seicento è stato scritto nell’Ottocento (I promessi sposi); i miti greci sono rinati infinite volte, una delle quali a metà del Novecento, con Robert Graves; la guerra di Secessione (1861-1865) è stata immortalata da Via col vento, un libro del 1936; e così via. Ma, ovviamente, potremmo discutere all’infinito: per sapere qualcosa del Seicento bisogna fidarsi dello sguardo a posteriori di Manzoni o di quello coevo di Cervantes? Il modo in cui siamo influenzati dal mondo classico ha più a che fare con Byron e Foscolo oppure con Aristofane e Ovidio? Quanto alla guerra di Secessione, chi scriverebbe oggi da una prospettiva schiavista senza essere linciato?
Sul coronavirus si innesteranno narrazioni immediate e narrazioni mediate, dirette e indirette, infinite rivisitazioni. La pandemia partorirà romanzi che la tematizzeranno e romanzi che la cannibalizzeranno, romanzi che ignorandola racconteranno il bisogno di fuga, di eclissi da una realtà troppo dolorosa, e romanzi che centrandola ostenteranno l’ossessione di chi non riuscirà a dimenticare. E questi sguardi saranno tutti veri, perché l’unico grande romanzo possibile è la polifonia. L’unico criterio, l’unico metro di giudizio e selezione è stato e sempre resterà la qualità resistente al tempo; intanto, la temperatura salirà quanto più intensa sarà la compromissione tra chi scrive e la morbosità del suo interesse per l’oggetto raccontato, oltre ogni maldestro tentativo di tematizzare ciò che non è di per sé tematizzabile, perché la cronaca è buona per gli instant book, non per i romanzi. Madame Bovary non è un manuale sulla provincia francese né Anna Karenina vuol far riflettere sulle ferrovie russe, tuttavia, insieme alla loro universalità, fotografano dettagli, immortalano epoche.
Ne scriveremo senza accorgercene; sta già cascando dentro le pagine che rivediamo in questi giorni, dentro libri nati prima. La storia di Rodari della vecchina che contava gli starnuti e la previsione della società di delatori creata dal panico pandemico
Così, i romanzi nei quali l’epidemia avrà lasciato tracce o proietterà un’ombra lunga saranno molto diversi dai resoconti, dai diari che gli stessi scrittori scrivono in queste settimane. Scrivere un romanzo è un gesto segreto e folle che trasporta chi lo compie in un pianeta lontano, in apparenza circondato da materiale isolante. Ma anche quella è un’illusione, la scrittura è sempre permeabile e permeata, è spugna che assorbe imprevedibilmente ciò che la circonda, si gonfia delle più impercettibili variazioni della giornata, è alimentata da ossigeno respirato per caso. Scriveremo del coronavirus senza accorgercene; sta già cascando dentro le pagine che rivediamo in questi giorni, dentro romanzi nati prima che si diffondesse e che saranno finiti quando anche lui sarà finito. Non c’è un tempo giusto per la misura di un romanzo, ma è probabile che chi stava scrivendo un libro ci stia mettendo dentro rallentamenti e accelerazioni che non aveva previsto. Non sai mai cosa accadrà nel tempo della scrittura, non sai neppure quanto durerà – certo, non era facile immaginare di veder saltate tutte le leggi. Il contagio, come un demone invisibile, si sta già scrivendo da sé, nel dettare i tempi, nel mostrarci la complessità delle nostre relazioni, l’asfissia delle nostre case, il nostro vecchio mondo al vaglio di una lente macroscopica che lo fa apparire vecchissimo, sia inutile sia fondamentale. Tutto questo è fertilizzante per uno scrittore che si sta occupando di un’altra storia, che sta muovendo personaggi e producendo fatti in un altro secolo, in un altro luogo: si scrive per riverberi, per associazioni, per illusioni. Parleranno del coronavirus soprattutto i romanzi che non saranno sul coronavirus, e conterranno indizi su ciò che stiamo vivendo in un modo misterioso anche a chi li sta scrivendo o concependo.
In modo simile, ora leggiamo tutto in maniera diversa. Le Favole al telefono di Gianni Rodari, nel vecchio mondo, erano diventate così antiche che un illustratore come Negrin ne aveva fatto un remake, Favole al telefonino, pubblicato da Orecchio Acerbo, incantevole e poi invecchiato pure quello; oggi sono tornati tutti e due di moda, perché raccontare storie a distanza è il modo più semplice per genitori separati e nonni di stare vicini ai bambini. La storia della vecchina che contava gli starnuti degli altri perché non aveva niente da fare non è forse una rodariana previsione della società di delatori creata dal panico pandemico? Spoiler: quando la vecchina muore e trovano il quadernetto in cui segnava ogni starnuto, nessuno capisce cosa siano tutte quelle croci e le scambiano per buone azioni, la delatrice diventa subito una santa. Per non parlare di Giovannino Perdigiorno, che va a Roma perché gli salta il ghiribizzo di toccare il naso del re: a leggerlo oggi è un untore, un assassino dei potenti, un Gaetano Bresci mascherato dentro una favola. E la passeggiata del bambino distratto, che perde braccia, mani, orecchie e alla fine la mamma deve rimetterlo a posto e controllare che sia tutto intero? E’ una metafora evidente dell’ora di libertà con i pargoli, la risposta bizzarra (cioè l’unica possibile) al paternalistico dibattito sui loro bisogni. Insomma, i romanzi, i racconti e le favole che parlano del coronavirus non solo li stiamo già scrivendo, ma li stiamo già leggendo. Sarà interessante vedere come cambierà il racconto di quello che è successo, come sarà elastico il nostro sguardo quando avrà accesso a una visione che oggi, tutti intenti a vivere, ad annaspare, ci è preclusa; e questi nostri tempi saranno raccontati sia dai romanzi che parlano di tutt’altro sia da quelli che non parleranno di nient’altro, purché rispondano al vero dovere che la letteratura impone loro: cercare, possibilmente fallendo, di essere meravigliosi.
Antifascismo per definizione