Pieter Aertsen, “Il banco del macellaio” (1551-55 ca.), particolare

In cerca della cucina eroica

Camillo Langone

Ciò che rimane vivo dopo la morte della tradizione. Con esempi e indirizzi. E non accettate consigli dagli indigeni

La tradizione è morta. E non posso nemmeno dire, parafrasando una nota locuzione monarchica, “la tradizione è morta, viva la tradizione”. Perché se la vecchia tradizione è defunta davvero, la nuova tradizione la sto aspettando ma non la vedo e non credo sia nata. Poi se qualcuno mi smentirà sarò l’uomo più felice del mondo perché io, è evidente, la tradizione la amo. Ma amare non significa, nel mio vocabolario, ignorare la realtà: io amavo mia nonna però se mia nonna è morta non posso fingere che sia viva, non posso telefonarle e dirle che domani arrivo a Potenza così mi prepara gli strascinati col ragù o i baccalà coi peperoni cruschi… Se facessi così non sarei un tradizionalista, sarei un pazzo. E io più ancora che nella tradizione credo nella sanità mentale.

 

Se la Chiesa alza le braccia e abbandona porchetta e filzetta a un incerto destino, che cosa possiamo fare noi?

Si è capito che quando parlo di tradizione sto parlando di cibo. Potrei parlare anche di altri ambiti (quasi ovunque la tradizione appare morta o morente o molto malestante) ma cercherò di stare in tema e mi limiterò al cibo. Ammesso e non concesso che parlare di cibo sia limitante: non so voi ma io dentro a un piatto ci vedo tantissime cose, ci vedo l’arte, l’economia, la politica, la medicina, la filosofia, la religione… Sarebbe senz’altro meglio non vedercele, si godrebbe di più, si digerirebbe meglio, ma io ce le vedo e non ci posso fare nulla: forse la colpa è dei troppi libri che ho letto, perdonatemi, dovevo guardare anch’io le partite di pallone alla tv.

 

A proposito di religione. Forse siete stati mediaticamente raggiunti dalle polemiche riguardanti la demaializzazione clericale: a Bologna il cardinale Zuppi ha benedetto il tortellino senza ripieno di maiale mentre a Roma, nell’aula Paolo VI, in occasione della Giornata mondiale della povertà il Papa Bergoglio ha voluto offrire ai poveri un menù ostentatamente privo di carne suina. Sono episodi inerenti alla sottomissione occidentale all’islam, materia per Michel Houellebecq e non per un discorso gastronomico, dunque li cito soltanto per mostrare la velocità del vento del nichilismo, capace di sfondare perfino il portone di bronzo del Palazzo apostolico. Rendiamoci conto: la più antica istituzione esistente, la Chiesa fondata duemila anni fa da Cristo in persona, rinnega se stessa e le parole del suo fondatore che abolì esplicitamente (Matteo 15,11 e Marco 7,19) tutti i tabù alimentari. Così liberando l’uomo da una miriade di prescrizioni (i bizzarri eppur serissimi distinguo fra animali con zoccolo fesso e zoccolo intero, uccelli con becco adunco e becco arrotondato, pesci con squame e senza squame…), creando le condizioni per ricettari onnivoristi e variati, ad esempio quello italiano di cui siamo tanto orgogliosi ma di cui non siamo degni visto che accettiamo senza batter ciglio la sua amputazione.

 

Volevo dire: se la Chiesa alza le braccia e abbandona porchetta e filzetta a un incerto destino, che cosa possiamo fare noi? Se la nonna è morta e la zia non si sente tanto bene, se l’angelo diserta il focolare, se le trattorie a conduzione famigliare seguono la sorte della famiglia e dunque procedono verso l’estinzione, se le culle vuote significano cucine vuote di persone capaci di ricordarsi come si mangia, come si cucina, come si pronuncia la cassoeula, se animalismo e veganesimo fanno strage di ingredienti, se la lettera uccide ossia se le normative nazionali e sovranazionali strangolano ogni piccola produzione artigianale, se i giovani, plasmati da Erasmus e dal digitale, si ritengono più figli del tempo che non dello spazio, di quello spazio che è l’unico habitat possibile per le gastronomie peculiari, insomma se la deculturazione, che è il contrario della tradizione, avanza, che cosa possiamo fare noi?

 

Che cosa possiamo fare noi, tutti insieme, non lo so. Siamo a un tornante della storia, nessuno può sapere cosa ci aspetta oltre la curva. Oppure fra i miei venticinque lettori ci sono dei veggenti? Se sì, vorrei tanto mi segnalassero (la mail è [email protected]) le azioni che nei prossimi mesi subiranno forti rialzi… Che cosa posso fare io, e magari qualcun altro come me perciò con le mie ossessioni, invece lo ipotizzo e lo dico. Io cerco la cucina eroica. Se esiste una viticoltura eroica, quella praticata in montagna, sui forti pendii, nelle piccole isole, laddove il calcolo economico consiglierebbe di lasciar perdere, perché non dovrebbe esistere una cucina eroica?

 

Un cuoco, se lo vuole e forse pure se non lo vuole, rispetto a un vignaiolo ha più occasioni di eroismo, dovendo superare grandi difficoltà quotidianamente, non una volta all’anno. E rischiando ogni ora di essere diffamato su TripAdvisor. Quando dico cucina eroica intendo una cucina non commerciale, non ordinaria, non mercenaria, non guidistica, ovviamente non turistica. Una cucina vocazionale, quasi spirituale. Una cucina non generica bensì personale. Cucina commerciale e cucina turistica sono ormai quasi sinonimi perché tutto il mondo è diventato turismo e figuriamoci l’Italia e figuriamoci le nostre città d’arte. Tutti gli italiani sono diventati turisti, anche i residenti.

 

Quando vado in una città che non conosco mi guardo bene dal farmi consigliare ristoranti dagli indigeni perché costoro ormai ne sanno quanto i visitatori occasionali, nutrendosi di ricordi, di illusioni e di folclore. Io vengo da Parma dove le trattorie finto-tradizionali che servono le melanzane alla parmigiana come fossero una specialità parmigiana sono affollate di turisti così come di parmigiani, e sono tutti quanti felicissimi, beati loro. E però perfino a Parma, perfino nel centro di Parma affollato di gruppi in fila dietro alla guida turistica con la bandierina colorata, è possibile la cucina eroica e penso alla coppia che nel proprio locale serve tre vecchie di cavallo e sono un record mondiale queste tre versioni diverse della stessa specialità parmigiana a base di carne equina, un piatto che averne in lista una versione sarebbe già troppo, antimoderno com’è.

 

Mi piacerebbe sciogliere un inno alle valorose e ai valorosi che ogni giorno stendono la sfoglia per preparare la pasta fresca

Il locale, una piccola gastronomia con pochissimi posti a sedere, si chiama Tra l’uss e l’asa e anche chiamare una nuova attività in vernacolo così stretto e incomprensibile è molto eroico. La cucina eroica è una cucina non guidistica, dicevo, ossia una cucina orientata al cliente anziché agli ispettori. Ho parlato di eroi parmigiani e adesso cito un eroe degli antipodi, il cuoco di Seul (copiaincollo il nome: Eo Yun-gwon) che anziché limitarsi a lamentarsi della Michelin, come fanno tanti cuochi quando perdono una stella, addirittura l’ha denunciata: “E’ insultante che il mio nome e il nome del mio ristorante siano stati elencati in un libro malsano”. Cosa intenda per malsano il signor Eo non l’ho capito benissimo, ho qualche problema con la traduzione, invece ho capito benissimo che la Michelin produce omologazione, un livellamento magari verso l’alto ma di un alto che è altro rispetto a me e ai miei interessi. I criteri della Guida Rossa sono in parte incomprensibili, opachi, e in parte non miei. Sospetto che siano premianti le grandi cantine e i lunghi menù quando invece a me bastano tre primi, tre secondi, tre rossi e tre bianchi e un rosa. Se è tutto buono non mi serve altro e non intendo pagare altro (le grandi cantine indirettamente le paga anche chi, come me, non si è mai sognato di ordinare uno champagne o un Brunello).

 

La cucina eroica è fatta per l’appunto da eroi, da persone straordinarie animate da una vocazione. Non si atteggiano a professionisti, somigliano piuttosto a monaci se non addirittura a santi. Esagero? Chiedo troppo? Può darsi, e infatti non pretendo che tutta la cucina sia eroica, gli eroi sono per forza di cose pochi. Chiedo semplicemente che la cucina eroica sia riconosciuta e ammirata. Comincio pertanto col lodare la trattoria dei miei sogni ossia quella che se garantisco una tavolata apre anche nel giorno di chiusura, che il primo dell’anno è aperta, che a Ferragosto è aperta, che se arrivo alle due o anche alle tre del pomeriggio, beninteso avvisando del ritardo, mi dà da mangiare lo stesso e pure col sorriso, e non sto parlando dell’araba fenice ma della Trattoria da Bassano che si trova in un paesello vicino Crema, a Madignano. Ovviamente simile impegno può essere profuso solo da chi unisce arte e vita, amore e lavoro. La cucina eroica impone la castità o l’endogamia. Una ristorazione prona alle regole erotiche americane, al divieto di rapporti sentimentali fra colleghi, non può che rispettare pedissequamente gli orari. Se hai una moglie, una fidanzata, una vita fuori dal locale, odierai l’avventore che si attarda.

 

Nel mio sforzo definitorio sulla cucina eroica mi viene in aiuto Chesterton: “Una cosa morta può andare con la corrente, ma solo una cosa viva può andarvi contro”. La cucina burocratica è onnipresente quanto insignificante, migliaia di locali sembrano avere lo stesso identico, inutile, soporifero menù. Conformismo gastronomico. Soltanto la cucina eroica è davvero vitale e dunque capace di andare controcorrente, di difendere la varietà alimentare portando in tavola piatti che cuochi e clienti ordinari avrebbero già fatto estinguere da un pezzo come la cervella fritta (Osteria Fratelli Pavesi di Podenzano), il torresan ovvero piccioncino di nido (La Cusineta di Breganze), la bomba di riso coi magoncini (Trattoria della Gallina di Langhirano), la cioncia ovvero il muso calloso del vitello (Da Giulio in Pelleria di Lucca), la coscia di faraona fritta con tanto di zampa (ristorante Punto, sempre di Lucca), lo zampetto di maiale al forno farcito con le sue trippette (Cà Murani di Faenza), i ciccioli però sorprendentemente serviti su lussuose guantiere (Ambasciata di Quistello, dove Romano Tamani mi fece provare anche il pavone), l’omaggio al quinto quarto di maiale (agriturismo Il cielo di Strela, Compiano, e qui l’eroismo più che nelle frattaglie suine è nella magnifica autarchia del titolare Mario Marini che il maiale oltre a cucinarlo lo alleva, lo macella, lo seziona)…

 

L’elenco è già lunghetto ma non posso dimenticare la sezione Spiedo & Brace del ristorante Andreina di Loreto, eroica per ingredienti e per tecniche (sarebbe tanto più comodo cuocere nelle bustine della bassa temperatura), con un vertice di audacia nella milza essiccata che viene grattugiata sul piatto davanti al commensale… Per ricordare che non tutta la cucina eroica è cucina tradizionale (in nessun vecchio ricettario ho mai letto di milza essiccata e grattugiata). Inoltre voglio sia chiaro che non tutta la cucina eroica è legata ai cibi estremi: mi piacerebbe sciogliere un inno, prima o poi lo farò, alle valorose e ai valorosi che ogni giorno stendono la sfoglia (niente di particolarmente estremo dunque, solo tanto lavoro, tanta passione, tanta anima) per preparare quella pasta fresca che la ristorazione pigra ha sostituito con paccheri e linguine. La tradizione è morta ma gli eroi sono vivi e possiamo andare a mangiare da loro: per essere vivi e un po’ eroi anche noi.

Di più su questi argomenti:
  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).