L'acqua Lurisia è stata acquista dalla Coca Cola. E Slow Food ha deciso di interrompere la collaborazione col marchio dell'azienda italiana (foto LaPresse)

Va bene il chilometro zero, ma senza consumatori global come si fa a essere slow?

Antonio Pascale

L'acquisizione di Lurisia da parte di Coca Cola ci induce ad ammettere che tra la filiera corta e la grande distribuzione conviene restare nel limbo

La recente vendita dell’acqua Lurisia alla Coca Cola offre a noi tutti una grande opportunità culturale nonché filosofica: interrogarci sul concetto di chilometro zero. Meglio, sull’inevitabile e inestricabile conflitto morale che si viene a creare quando da una parte abbiamo un prodotto particolare, vuoi perché è fresco, vuoi perché buono, vuoi perché nasce in uno specifico territorio e lì e solo lì ci sono quelle singolari caratteristiche morfologiche e climatiche che lo rendono, appunto, particolare. Vedi alcune varietà di pomodoro studiate da Luigi Frusciante (San Marzano, Vesuviano ed Heinz) che hanno mostrato una differente plasticità fenotipica: alcuni geni si esprimono solo in quel territorio, se li coltivi due chilometri più avanti non si esprimono. E dall’altra parte, e qui il conflitto, desideri far conoscere quel prodotto. Perché è buono, fresco, particolare e solo in quel territorio si può coltivare, insomma è un vanto.

 

Quindi da una parte si usa o si inventa il concetto di chilometro zero – Slow Food da anni lo promuove – e allora filiera corta, meno sprechi, meno emissioni e così via, e dall’altra chi mangia da solo si strozza. Vediamo: sono un fanatico della mozzarella di Caserta. Attenzione! Caserta! Non Salerno, non cominciamo. Perché solo in quel territorio eccetera eccetera. Quindi non faccio altro che parlare di quanto è buona e quanto è diversa quella di Caserta, e di come gli altri tipi di mozzarella siano (a mio insindacabile parere) non all’altezza. Tanto ne parlo che qualcuno del nord mi dice: ma me la vuoi far assaggiare? Io dico: e qual è il problema? La prossima volta che scendo a Caserta, vado nel mio caseificio di fiducia (solo in quello, non in quello accanto), ne prendo cinque chili e te la porto. Ottimo dice lui. Scendo a Caserta, duecento chilometri per andare, duecento per tornare a Roma, e altri cinquecento per raggiungere il nord e consegnare la mozzarella. Tutti dicono: ma lo sai che hai ragione? E’ buonissima, peccato che è a chilometro zero, che la fanno solo lì. Cioè mica posso chiederti di scendere un’altra volta. Infatti dico, col cavolo, vacci tu. E quello prende la macchina, viaggia verso Caserta e poi torna, serve il prodotto a cena e dice: a chilometro zero, presa direttamente alla fonte e portata a Milano. Capite? Se ognuno di noi residente in quel territorio deve consumare solo i prodotti di quel territorio, allora deve stare zitto sulla bontà dei suoi prodotti, non deve fare come me, altrimenti al mondo intorno viene voglia di assaggiarli. In quel caso, una volta acceso il desiderio, o vado io alla fonte o la fonte viene da me, ma sempre gli stessi chilometri facciamo.

 

Ma approfondiamo il dilemma. Quello che mangia solo prodotti locali mi può anche dire: senti, basta con questa mozzarella, mi è venuta ’na panza… voglio la robiola. La robiola? Ma è un prodotto tipico di Pavia, non è a chilometro zero. Oh, senti, piglia ’sta robiola! Per una volta, che sarà mai. Insomma, non so come uscire dal dilemma: voglio mangiare solo le cose del territorio e nello stesso tempo desidero che anche gli altri le assaggino. Oppure, al contrario, ma stesso movimento, mica posso passare la vita a mangiare sempre la stessa roba a chilometro zero? Fatemi assaggiare il chilometro zero altrui. Il suddetto conflitto, inoltre, è un moltiplicatore di dilemmi. Vogliamo parlare a questo proposito del fagiolo di Sorana? Tempo fa lessi un articolo di Slow Food: ritorno alla terra ecc. ecc., ma coltivando a chilometro zero prodotti dimenticati, come il fagiolo di Sorana. C’era chi aveva lasciato – si diceva nell’articolo – tutto per dedicarsi al fagiolo di Sorana. Che è buono, come la mozzarella. Ma seguite l’evolversi del dilemma. Da una parte l’articolo elogiava le vecchie tradizioni, i ritmi lenti (anticapitalistici, anticonsumistici e così via), la scelta di mollare il selvaggio e alienante mondo e coltivare il fagiolo sul greto del fiume, dall’altra si diceva che il fagiolo dà soddisfazione economica, cioè costa €22 al chilo (i Borlotti da decreto-prezzi ministeriale arrivano a 2,5 euro al chilo). Quindi i slowfoodisti desiderano essere sostenibili e slow, quindi meno emissioni e prodotti local, dall’altra parte per coltivare e vendere (oltre alla necessità di mettere su brochure illustrative) bisogna essere fast. Dunque, dilemma: senza un consumatore capitalista, global e pure consumista, disposto a pagare €22 euro al chilo per il fagiolo di Sorana, come fai a essere slow? Da una parte si contestano le élite di tecnocrati capitalisti, veloci e alienati, dall’altra se non ci fossero le élite, chi lo compra il fagiolo a quel prezzo? Si vuole il local ma si fa leva su un consumatore global. Come se ne esce? Forse non se ne esce, perché conviene restare in questo limbo un po’ bugiardo, si fanno affari.

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