Alice Waters. Nata nel ’44 in New Jersey, middle class, negli anni dell’università finì a Berkeley dove impazzava la rivolta

Addio pollo fritto

Michele Masneri

L’intellettuale organica. Alice Waters ha rivoluzionato la cucina americana nel nome della lattuga. Il suo cibo: locale, stagionale, fresco

Se l’avocado is the new cheeseburger lo si deve a questa signora incantevole come il suo nome, Alice Waters. Il suo ristorante Chez Panisse, aperto nel 1971, già premiato come il migliore d’America, ha sconvolto gli americani mettendoli di fronte a una conturbante verità: si poteva mangiare non in macchina ma addirittura seduti a tavola come cristiani, persino senza pollo fritto all’antibiotico.

 

Ha inventato la cucina bio, è stata premiata da Barack Obama con una delle più alte onorificenze americane. A settantadtré anni, bella ed elegante, va ancora tutti i giorni al mercato a scegliere le verdure più fresche. Waters ci riceve nel suo studiolo in quello che è ormai divenuto un compound nella città universitaria, una specie di pagodina di stile giapponese arroccata su una collinetta su una delle vie principali di Berkeley, tra studi di yoga e le villette basse dei professori dell’augusta università (le uniche case senza bandiera d’America, del resto nacquero qui la controcultura americana e i ‘68 poi esportati in tutto il globo). Ancora oggi, tra la vegetazione lussureggiante, professori in pantaloni di velluto a coste seduti in caffè con due o tre tomi, e studenti in bici.

 

Stampe di fiori e frutti alle pareti, un’assistente porta una brocca d’acqua su un vassoietto di legno con due bicchieri da bistrot. Un’altra assistente ricorda appuntamenti fittissimi, c’è un libro da promuovere, ci sono incombenze. Lei però è gentile e dolce come una fatina, parla talmente sussurrato che non si capisce. Ha una collanina d’oro piccina piccina con il simbolo della pace e i capelli che porta sempre un po’ spettinati, come vezzo forse un po’ francese, unica nota stonata in tutta una perfezione di vita e business: anche, per stemperare la bella faccia che è più volitiva di quanto vorrebbe. Da una libreria con i suoi libri tradotti in giapponese incombe la foto di lei con Michelle Obama. Waters è colei che ha convinto la first lady a creare il famoso orto biologico alla Casa Bianca. “In realtà ci avevo provato già coi Clinton” si schermisce, “ma se Hillary era convinta, Bill un po’ meno. Piantarono dei pomodori sul tetto della Casa Bianca, e la cosa finì lì. Non era proprio quello che avevo in mente”. Michelle invece l’ha seguita fino in fondo, “anzi, è andata oltre”. “Hillary aveva poi degli ottimi progetti sul cibo e sul chilometro zero se fosse stata eletta, ma è andata come è andata”. Sospira.

 

A 73 anni va ancora tutti i giorni al mercato a scegliere le verdure più fresche. Sua l'idea dell'orto biologico alla Casa Bianca

Però la nuova first lady Melania Trump ha detto che l’orto lo manterrà. (Waters abbassa gli occhi e sospira). “Non riesco a immaginare un suo interesse in questo settore”. Le darebbe dei consigli ortofrutticoli, se richiesta? Silenzio. Altro sospiro. “Magari al telefono. Sì, sì, al telefono sì. Ma incontrarla però no, non so”, ecco.

 

Dove c’è Waters sbocciano lattughe. Ha fatto aprire un orto all’università di Yale dove studiava sua figlia, e di passaggio alla American Academy di Roma ha notato che “in un posto così meraviglioso il cibo non era all’altezza, così abbiamo creato questo orto e questo progetto di cibo sostenibile, si chiama Rome Sustainable Food Project (Rsfp)”, e oggi gli allievi della accademia americana oltre al panorama di villa Aurelia hanno anche i manicaretti a chilometri zero. Lei è molto impegnata in tutti gli Slow Food, è amicissima di Carlin Petrini e di tutte le Terre Madri, e il suo sogno è un mondo che è una valle degli orti: partendo dalle scuole americane col suo “Edible Schoolyard Project”. 

 

Avrà delle passioni segrete. Nutella? Schifezze? “Certo, sì” confessa, “le patatine, però bio!”. Vabbè. Ci sta che alcuni la accusino volgarmente di elitismo, come lo sbafatore televisivo Antony Bourdain, che qualche anno fa pur riconoscendo il suo “contributo rivoluzionario alla cultura alimentare americana” ha detto che non è che tutti possono mangiare la natura di prima mano. Lei oggi sorride: “Lo sa che l’ottantacinque per cento degli americani non si siedono a tavola mai, e che il ventinove per cento mangia in macchina?”. Un suo alleato invece è Michael Pollan, grande scrittore di cibo (autore di “Cotto”, in italiano da Adelphi), che vive qua dietro, ed è curioso come Berkeley sia passata da covo di rivoluzionari a “Gourmet ghetto”, come è chiamata sulle guide turistiche; il ristorante di Alice Waters infatti ne ha generato per osmosi tanti altri. Nel fondamentale saggio “Appetite for Change: How the Counterculture Took On the Food Industry”, il critico Warren Belasco spiega come la controcultura abbia generato la cucina bio: “Tutto ciò che era bianco, Casa Bianca, colletti bianchi, zucchero bianco, all’improvviso non andò più bene. Arrivarono invece lo zucchero scuro, i diritti dei neri, il cavolo nero”.

 

Gastronomia della nazione, Waters è nata nel ’44 in New Jersey, middle class, e finì a Berkeley dove impazzava la rivolta, con un breve passaggio nell’università meno ribelle e borghesona di Santa Barbara, California del Sud. “Lì andai a un discorso pubblico dove parlava Martin Scheer, un giornalista molto attivo sul fronte del Vietnam, che aveva deciso di correre per il Congresso. Mi trasferii a Berkeley per fargli da volontaria nella campagna elettorale con lui, ma non fu eletto per pochissimo”. Rimase molto delusa e decise di cambiare campo di battaglia. “Nel frattempo ero stata in Francia ed ero rimasta stupefatta, lì la gente tornava a casa per pranzo, si metteva a tavola, faceva conversazione. Soprattutto si andava al mercato, e io rimasi sconvolta da quanto il cibo era buono, dai sapori che da noi proprio non esistevano”. In America, invece? “Si mangiava molto granturco, molta carne. I supermercati avevano solo surgelati e scatolette. Mia madre tentava di cucinare cose sane, ci dava un sacco di vitamine. Nelle feste più importanti andavamo a New York e mi portavano nel mio ristorante preferito, si chiamava Automat, era un posto nato negli anni Cinquanta in cui mettevi le monete in un distributore automatico ed usciva il piatto che volevi precotto, tipo slot machine”. Questa era l’America. “C’erano solo catene di ristoranti, con menu tutti uguali. Al sud mangiavi pollo fritto, altrimenti nel resto del paese hamburger tutti i giorni, bistecche e patatine. Poi c’erano dei ristoranti costosi francesi, ma solo se stavi in grandi città come New York o San Francisco. Niente sushi, che non c’era ancora, semmai qualche cinese, qualche etnico, quando etnico significava italiano”.

 

"Ero in cerca dei sapori e della freschezza che avevo trovato in Francia". La diffusione del verbo. Lo spirito sessantottino rimasto

Poi arrivò la rivoluzione. Falce e fornello. “Un pomeriggio del giugno 1967, ricordo che girando per Berkeley da ogni casa risuonava Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il disco dei Beatles. Da ogni finestra. Mentre la sera preparavo una mousse di vaniglia col Grand Marnier per il mio fidanzato e i nostri amici e lui mi diceva: spero tu ti renda conto che questa mousse contiene più proteine di quante ne assume un bracciante vietnamita in una settimana. Ecco, questa era la Summer of Love a Berkeley, questo era il ‘67 qui”.

 

Il fidanzato in questione, David Goines, tipografo, stampava i manifesti sovversivi e fu il primo studente d’America a essere espulso dall’università e arrestato. Lei intanto comincia a cucinare, e non la smette più. Cambia moroso, si mette con Tommy Luddy, un archivista di cinema, e a cena arrivano tutti i cinematografari. Francis Ford Coppola, Godard con Susan Sontag, George Lucas, Roberto Rossellini. “E Werner Herzog” precisa Alice con la sua voce sospirosa da madre Teresa.

 

E se per fare i radical chic a New York si dovevano invitare le Black Panthers nel salotto di Leonard Bernstein, qui arrivavano direttamente a cena, chilometri zero pure loro. “La sera dell’inaugurazione, il 28 agosto 1971, c’erano: una coppia di sessuologi di Berkeley, un editore di San Francisco, il direttore della compagnia di mimo, e Tommy arrivò in ritardo perché era stato a filmare il funerale di George Jackson, il leader delle Pantere nere che era stato assassinato in una rivolta in carcere”. Si parlava di politica, si cenava, si guardava un film, si beveva un armagnac, come in una grande “Terrazza” californiana. “Io non sono mai stata hippy, certamente non nel mangiare, qui le ragazze facevano nei pentoloni di verdure tagliate grosse e mischiate con la pasta, mangiate a gambe incrociate per terra, ma io, questo, proprio no” scrive Waters nel suo memoir.

 

Trasformare il salotto in ristorante parve logico, a quel punto. “Nessuno di noi era un cuoco professionista, dicemmo una di quelle cose che si dicono alle cene: dai, apriamo un ristorante. E l’abbiamo fatto. Eravamo un gruppo di intellettuali, non di cuochi. Senza sapere nulla, senza avere un conto corrente, perché le banche erano parte del sistema e noi naturalmente eravamo contro il sistema”. Il ristorante nei suoi quarantasei anni di storia è stato spesso sull’orlo del fallimento, anche perché parte con prezzi troppo bassi e con l’idea farlocca di preparare anche la prima colazione.

 

Tommy dà l’idea per il nome del ristorante. “Honoré Panisse era un signore molto buono che acconsentiva a sposare Fanny, incinta di un altro uomo, nella trilogia marsigliese del regista francese Marcel Pagnol”. E le è rimasto nel cuore perché ha chiamato poi anche sua figlia Fanny. Il ristorante parte così, sgangherato ma non troppo, attraversa fasi che oggi sono sottoposte a damnatio memoriae; nel suo saggio “Unites States of Arugula” il critico David Kamp racconta del periodo rock di Chez Panisse, “Sesso droga e misticanza”, con cuochi molto allegri, polveri e poliamorismi in cucina. Ci fu anche la fase decadente con Jeremiah Tower, cuoco aristocratico che arrivò nel ‘73 dopo una doppia laurea ad Harvard e senza aver mai lavorato un giorno in vita sua, avendo trascorso l’infanzia come in un romanzo di Truman Capote su navi da crociera in prima classe. Tower studiava i classici della cucina francese e invitava il bel mondo americano con cene a tema come quella ispirata a Dalí, “l’entre-plat drogué et sodomisé,” cosciotto d’agnello “sodomizzato” con Madera, brandy, succo di mandarino. Poi fu cacciato e fondò un suo ristorante leggendario, e ora chiama Alice Waters “il bulldozer”, perché avrebbe tempra e ambizione inarrestabile, ma lei che è una signora oggi riconosce che Tower “aveva una forte visione estetica, molto personale”; “ma io avevo un’idea della cucina diversa”. “Una cucina francese casalinga”.

 

Amica di Carlin Petrini, sogna un mondo che è una valle degli orti. "L'85 per cento degli americani non si siede mai a tavola"

Intanto castigando mores il Panisse partorisce il culto del chilometro zero, l’idea del cibo “locale, stagionale, fresco”, che oggi pare scontato ma secondo David Kamp è la rivoluzione di Alice in America. Gli chef che passano da Berkeley diffondono il verbo nelle vene incrostate di colesterolo americano, finendo per proliferare anche in Europa: si riconosce tra i suoi seguaci anche il mitologico René Redzepi, già miglior cuoco del mondo. “Ma fu totalmente casuale, io ero in cerca di sapori, dei sapori e della freschezza che avevo trovato in Francia, e qui non trovavo”, dice lei adesso. “Cominciai a frequentare i mercati dei contadini, e scoprii che non c’era paragone. Non cercavo prodotti sani, cercavo prodotti buoni”. Da lì Waters diventa la grande paladina dei farmers market, inventa la figura del “potager” cioè dell’addetto che va a spigolare ai mercati e in fattoria.

 

Le sue ricette non sono molto cambiate nel tempo, e anche oggi arrivano a menu fisso come a casa. Non si sceglie, infatti, ma si prende quello che ti danno, che cambia ogni sera. “I primi clienti francesi furono scandalizzati, dissero: questo non è cucinare, questo è faire du shopping, cioè è come essere al mercato, perché i miei piatti sono molto semplici”, dice lei, e in effetti è una cucina da contadini molto light anche se chic: per dire, questa settimana nel menu (che costa 75 o 100 dollari a seconda dei giorni, non economico ma un terzo di un ristorante stellato) ci sono: “insalata di melone e fichi con crème fraiche e menta” di antipasto; “salmone selvatico con zucchine e burro di nasturzio”; “agnello di fattoria arrosto con salsa all’aglio e prezzemolo, pomodori confit”; e un sorbetto di verbena con pesche e meringa. Tutto buonissimo, servizio perfetto, camerieri vecchiotti con anche sbilenche e non sussiegosi, i piatti sono addirittura tondi e bianchi, niente impiattamenti dementi su lapidi o rocce calcaree. E’ il ristorante ideale, ci si andrebbe tutti i giorni, senza rischi di gastriti e senza l’ansia delle spume (e non ci hanno nemmeno offerto la cena).

 

Nel frattempo però Alice la fatina-bulldozer ci ha portato in cucina, che è quanto di più simile a Ratatouille si sia mai visto. Lei prende dai piatti che stanno allestendo chef e sottochef, e ci imbocca, “tieni, assaggia questo prosciutto” (cit.); poi “senti questo salmone selvaggio”, e prendi un po’ di vino bianco, e noi storditi siamo in mezzo ai fumi, la chef di guardia ci guarda un po’ male, noi quando si gira rubiamo delle altre fette di prosciutto. Poi Alice se ne va che ha un impegno fondamentale, qualche capo di Stato o qualche contadino la attende in fattoria; giriamo per questo compound, c’è l’office con una centralinista che risponde a chiamate tipo call center, c’è un angolo con una lavagnetta di sughero e tutte le foto dei dipendenti, “la famiglia di Panisse” con i gruppi; cuochi, manager, baristi, camerieri, pasticceri. “Se manca la tua foto avvertici e la metteremo subito”. La rastrelliera delle bici per i dipendenti non inquinanti. Lo spirito sessantottino è rimasto: il personale ruota a seconda delle esigenze dei cuochi e dei lavoranti; in cucina non c’è quell’atmosfera da chiodi che c’è nei ristoranti super stellati. Ognuno ha il suo bel bicchiere di vino davanti. Arde un camino a legna. A destra una colossale porta di rame, tipo caveau. Lenta lenta si apre, scricchiolando sulle ruote; ne esce un cespo di insalata giallissima e dorata, innalzata da un camerierino giovane che la regge a capo chino, come fosse il Santissimo.

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