Le bandiere bianche di Papa Francesco

Le parole di Francesco sul conflitto russo-ucraino non sono un errore di comunicazione, ma confermano un principio caro al Pontefice: la realpolitik radicale applicata al governo della Chiesa. I rischi non sono pochi

Matteo Matzuzzi

Ucraina, Cina, Nicaragua. La dottrina realista del Pontefice argentino è chiara fin dal 2013. Ma il principio che la anima è riscontrabile anche in "politica interna", dalla lotta agli abusi alle rivendicazioni sinodali tedesche: il risultato è una Chiesa sulla difensiva che segna il passo

Errore? Fraintendimento? Espressione sbagliata? Niente di tutto questo. La “bandiera bianca” che Francesco ha suggerito di sventolare da chi capisce di essere sconfitto davanti ai vincitori, non è un lapsus né un’infelice uscita mal compresa da osservatori, interpreti adoranti e rabbiosi antipapisti che attendevano Francesco al varco. E’ un principio carissimo al modus pensandi politico di Jorge Mario Bergoglio che declina in tutti gli ambiti, dalle più alte e complesse questioni internazionali al governo degli affari ecclesiastici cosiddetti ordinari. Non a caso, nelle convulse ore post intervista, mentre il Vaticano s’affannava a precisare, rattoppare e spiegare e il segretario di stato ribaltava quanto detto dal Pontefice facendo sapere che “è ovvio” che i primi a fermarsi debbano essere i russi, c’è chi volava alto e – tomi accademici alla mano – parlava di realismo. C’è chi lo faceva con malcelata soddisfazione – realismo, in questo senso significa la capitolazione dell’odiato Zelensky, servo di Washington – e chi ne discorreva con sincero afflato spirituale, in nome di un irenismo non si sa quanto venato da utopia. Ma la parola è giusta: realismo. O, se si vuole, realpolitik. Cioè la dottrina maestra del pontificato corrente. Realismo significa che “i princìpi morali devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e di luogo”, scriveva Hans Morgenthau, uno dei padri moderni di tale dottrina. Tradotto dal linguaggio per scienziati politici, significa andare avanti a tutti i costi verso la meta prefissata, non badando troppo a vincoli, questioni di principio, ostacoli e retaggi culturali tradizionali. 

 

Nel caso ucraino, Francesco si pone in una linea in questo senso del tutto realista: si vuole la pace (bene supremo) e per raggiungerla bisogna fare il possibile. Anche andando al di là della classica schematizzazione aggressore-aggredito o amico-nemico, per dirla con Schmitt. Certo, c’è chi è stato invaso e chi ha invaso, ma insomma: non è il caso di fermarsi qui, impantanandosi appunto nelle orgogliose rivendicazioni. Se si vuole la pace bisogna che qualcuno si fermi, e se non è Putin a farlo, tocca alla controparte sventolare bandiera bianca. E pazienza se questa è quella martoriata nella carne dai cannoni ammassati dal Cremlino in casa altrui. Un discorso lineare,  ma che risulta inaccettabile in un mondo diviso e pensato solo tramite categorie fisse: bianco e nero, buono e cattivo. Inaccettabile per le vittime, che sono in primo luogo gli ucraini. E’ come se il carabiniere entrasse in una casa e intimasse al proprietario di gettare a terra il coltello per dialogare con il ladro, armato di pistola. Tra l’altro, come sottolineava in un editoriale il periodico francese La Croix, in Ucraina le parole di Francesco sono state accolte “come un segno di sfiducia e di abbandono. Tanto più che il Papa non esprime la minima riserva o critica netta nei confronti dell’invasore russo che usa e abusa spudoratamente della sua supremazia aerea e terrestre”. 

 

Bandiera bianca è espressione grave e solenne, risorsa estrema quando le guerre sono finite o quando tutte le circostanze fanno intendere che i giochi sono fatti. E infatti nella sua intervista alla tv svizzera il Pontefice ha fatto capire che il conflitto ha già un vincitore e uno sconfitto, e questo è l’Ucraina. La Croix parla di occasione mancata, da parte di Bergoglio: “L’aver mancato di incoraggiare il popolo ucraino a non lasciarsi rubare la dignità. Questa è la condizione per una pace giusta per Davide attaccato da Golia”. Francesco può avere le migliori intenzioni per evitare che la Terza guerra mondiale veda saldarsi tutti i pezzi dispersi nel mondo, dando luogo a un “guerrone” che farebbe impallidire quello profetizzato (e poi concretizzatosi) da Pio X. Ma c’è modo e modo, il suo realismo così spinto ha trovato ascolto favorevole solo tra gli adepti del pacifismo integrale (che sovente, però, sono assai bellicosi verso la Nato, l’occidente e tutto ciò che in qualche modo abbia un’eco yankee) e i frutti pericolosi della saldatura rossobruna, quel concentrato magmatico per cui la Russia è il paese di cuccagna che custodisce e preserva i “veri” valori del mondo sano, rifiutati invece dall’occidente depravato. Le vittime, gli ucraini, hanno risposto ripubblicando le caricature del Pontefice con la Z delle brigate putiniane al posto della croce pettorale, le Chiese locali hanno diffuso una Dichiarazione dai toni durissimi, il gradimento di Francesco tra Leopoli e Kharkiv è prossimo allo zero. Per gli ucraini conta più la Verità, e la verità consiste nell’urlare al mondo che loro sono la vittima per eccellenza e che quindi bisogna combattere se necessario fino all’ultimo uomo. Per difendere la patria e quella Verità indiscutibile. 

 

La realpolitik presuppone sempre la sofferenza di chi si vede passare sulla testa intese, accordi, strette di mano concrete o ideali. La Cina, ad esempio, con l’Accordo del 2018 relativo alla nomina dei vescovi. Un appeasement con il regime, ha denunciato subito il cardinale Joseph Zen; un accordo con chi nega ovunque la libertà religiosa. Una lacerazione in una comunità che per decenni si è divisa fra chi seguiva la Chiesa del partito e chi, fedele al Papa, pregava nelle catacombe, con i vescovi che di tanto in tanto sparivano senza più fare ritorno. Benedetto XVI, con la sua Lettera ai cattolici cinesi del 2007, apriva le porte della Chiesa alla Cina, ma con princìpi fermi: tutela della libertà religiosa, primato del vescovo di Roma nella scelta dei vescovi diocesani e non della fantomatica Associazione patriottica controllata dai nostalgici di Mao. Pechino reagì male, la Lettera fu diffusa in ritardo e con enormi ostacoli posti dalle autorità. Era appunto la “diplomazia della verità” ratzingeriana, dottrina che guardava sì all’obiettivo da raggiungere, ma lo considerava perseguibile solo a determinate condizioni. E le condizioni il Papa tedesco le aveva elencate tutte. Con Francesco l’approccio è cambiato, niente d’eretico o di stravagante: si trattava di applicare alle latitudini orientali la vecchia Ostpolitik casaroliana. Dialogare senza sosta e se necessario cedere qualcosa pur di raggiungere la meta prefissata. L’obiettivo è l’abbraccio alla Cina? E allora si conceda a Xi Jinping di trattare sulle nomine episcopali (lo si fece anche con Napoleone, scrissero giustamente esperti di Storia ecclesiastica). Si vuole arrivare a Pechino? Allora non si critichi la condotta cinese a Hong Kong né le persecuzioni a danno degli uiguri. La Cina è un attore troppo importante, non solo sul piano meramente religioso, ma anche su quello globale. Può fare da calmiere ai tanti sussulti contemporanei e, di certo, può riequilibrare una bilancia troppo spostata verso il bellicoso occidente. 

 

Realpolitik, appunto. La bandiera bianca della Chiesa sventolata in nome del dialogo. Niente scontri, tanta comprensione verso la controparte, disponibilità massima. Anche mettendo in conto i tormenti di una parte del Popolo di Dio. La strategia, sulla scena internazionale, è stata applicata un po’ ovunque. La Chiesa disarmata che invita alla comprensione reciproca, che chiede dialogo e rispetto. Una delle situazioni più disperate è il Nicaragua, con la repressione mortifera attuata dalla coppia presidenziale Ortega-Murillo contro le confessioni cristiane e in particolare contro la Chiesa cattolica. Espulso il nunzio, espulse le suore di Madre Teresa; preti, seminaristi e vescovi arrestati e fatti imbarcare su voli di sola andata per gli Stati Uniti, chiese bruciate e cardinali picchiati mentre celebrano messa, ancora rivestiti dei sacri paramenti. Beni confiscati e anziani sacerdoti lasciati senza neppure i soldi per comprarsi le medicine. A Roma, l’atteggiamento non era facilmente intelligibile. Il Papa, in aereo conversando con i giornalisti, diceva che “in America latina ce ne sono da una parte e dall’altra, situazioni del genere” e che “sul Nicaragua le notizie sono chiare tutte. C’è dialogo. Questo non vuol dire che si approvi tutto quel che fa il governo o che si disapprovi tutto. Mai fermare il dialogo”. E mentre si dialogava e ancora si dialogava, in un carcere di massima sicurezza veniva sbattuto il vescovo di Matagalpa, condannato a più d’un quarto di secolo di prigionia e poi liberato solo per essere portato alla frontiera e imbarcato sul primo volo utile per Roma, con l’impegno di non proferire parola. Sottomesso e umiliato. Ultimo di una lunga serie che aveva già fatto esiliare il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio Baez. E intanto il tiranno continuava la sua crociata contro la Chiesa e gli stessi nicaraguensi, quelli vessati e impediti perfino di pregare in strada in occasione delle tradizionali Via crucis, iniziavano a contestare il cardinale Brenes, accusato di fare il gioco del regime con i suoi continui silenzi. La bandiera bianca ha portato alla capitolazione: la Chiesa può vivere e operare (con limitazioni) solo a patto di non dire una parola soltanto su quel che fa il governo. Ironia della sorte, la vicepresidenta e consorte del capo dello stato ha inviato, radiosa, gli auguri al cardinale Brenes per il suo settantacinquesimo compleanno. Realpolitik qui significa “salvare il salvabile”, come George Weigel a suo tempo sintetizzò la Ostpolitik montiniana. Nella lettura di uno dei massimi esponenti del cattolicesimo americano neocon, però, tale strategia “portò alla distruzione della Chiesa in Ungheria, alla penetrazione totale delle agenzie di intelligence del Patto di Varsavia in Vaticano e al progressivo indebolimento dei leader cattolici in Polonia e in quella che allora era la Cecoslovacchia”. Non a caso, Joseph Ratzinger confidò a Peter Seewald che di Ostpolitik lui ne parlava con Giovanni Paolo II ed “era chiaro che la politica di Casaroli, per quanto attuata con le migliori intenzioni, era fallita”. 

 

Che l’uscita di Francesco alla tv svizzera non sia un incidente ma la conferma di uno stile di governo lo dimostra il fatto che la “bandiera bianca” usata per favorire il dialogo è stata alzata anche su fronti più ecclesiali. Un esempio su tutti è il Cammino sinodale tedesco, risultato dell’apertura fatta dal Papa agli albori del pontificato, con quelle poche parole sulla concessione di autentica autorità dottrinale alle conferenze episcopali locali. Una fessura in cui si sono insinuati subito quanti pretendevano riforme, finite poi nel calderone di proposte  che si ripromette di ribaltare la Chiesa tra diaconesse, preti sposati e rivoluzione nella morale sessuale. E dall’apertura iniziale, dalla bandiera bianca negoziale esibita con tanta buona predisposizione d’animo, si è giunti ai moniti e agli ultimatum vaticani, alle lettere papali preoccupate dalle derive che mirano a cambiare la struttura sacramentale della Chiesa cattolica, agli altolà della crème curiale romana. Per non parlare poi dell’autodafé sulla pedofilia, la pulizia messa in piedi da Francesco con commissioni e comitati, incontri e conferenze, perfino motu proprio. Mai un Papa aveva mostrato così tanta partecipazione su questo fronte. E il risultato è stato un moltiplicarsi di rapporti che scavavano nei fatti vecchi di settanta e ottant’anni, di inchieste internet, di questionari anonimi, di numeri che si gonfiavano giorno dopo giorno, tra titoli di giornali, talk-show e sit-in in piazza San Pietro. E mentre il Papa gridava nelle sue interviste che tali episodi sono orrendi ma sono una parte ultraminoritaria, che gli abusi si praticano soprattutto in famiglia – fornendo anche cifre e percentuali – e faceva penitenza in Vaticano, chiamando a raccolta la Chiesa e ordinandole un corale mea culpa, nel febbraio del 2019, sul sagrato c’era chi agitava manette, voleva i cardinali in galera e i vescovi in catene. La contrizione non portò solo dialogo, ma anche un profluvio di dossier con richieste di indagare e soprattutto di punire. Anche i morti da gran tempo, come recita il Salmo. 

 

Il problema, comune a tutte le guerre, non è tanto la disponibilità a sventolare la bandiera bianca. Il problema è capire prima come reagirà l’altro che se la vede sventolare in faccia: può commuoversi e abbracciare lo stendardo o più affrettare la corsa come un lupo famelico.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.