Papa Francesco durante il suo discorso al Congresso, il 24 settembre 2015. Alle sue spalle, l’allora vicepresidente Joe Biden (foto Olycom) 

Il Papa s'è perso l'America

Matteo Matzuzzi

La distanza fra il Pontefice e gli Stati Uniti non è mai stata così ampia: alla frattura sul piano intraecclesiale si è unita quella sul fronte geopolitico. Nel terzo millennio, può Roma fare a meno della Chiesa americana?

Il Papa, chiunque sia, può governare la Chiesa senza l’America? Può, sul piano spirituale, mostrarsi perplesso su certe rigidità e ideologie che vede prosperare oltreoceano? E può, sul piano meramente “politico”, arrivare anche ad assumere una linea che si scontra con quella portata avanti da Washington? Superficialmente, non vi sono dubbi: potrebbe. Il Papa è un pastore e non un politico, non è compito suo organizzare mediazioni e vertici fra capi di governo. Il pastore bada al gregge, si preoccupa delle sue pecore e fa in modo che nemmeno una si perda smarrendo la strada. Tesse e cuce, relazioni e rapporti, perché un umanesimo verace allontani le nubi di guerre e solitudini. Superficialmente, appunto. 

  

Dalle critiche alle “rigidità” di certi settori cattolici americani al filo mai spezzato con Mosca e Pechino. Questioni diverse che si intrecciano

  
I pontificati si prestano tutti anche a una lettura politica. Il pontificato di Paolo VI non è stato forse politico? L’enciclica Populorum progressio non nasceva nel contesto della caotica decolonizzazione? E che dire della Pacem in terris del predecessore, Giovanni XXIII: sì, emergeva l’afflato per la pace, ma non era la chiamata agli uomini di buona volontà affinché si facessero promotori di un mondo nuovo che soppiantasse quello vecchio dominato dalla Guerra fredda? E Giovanni Paolo II, con il sostegno fattivo all’opera di distruzione della cortina di ferro calata sull’Europa? Insomma, un pontificato non può non essere anche politico, come dimostra del resto anche quello di Francesco, facilitatore di una riappacificazione fra gli Stati Uniti e Cuba, a lungo desideroso di coltivare un rapporto anche personale con Vladimir Putin (sulla Siria, innanzitutto) e con la potenza cinese. Con l’obiettivo di equilibrare il peso geopolitico degli Stati Uniti. Dopotutto, come ebbe a dire proprio in America, a Filadelfia nel 2015, lui preferisce un mondo poliedrico in cui ogni faccia è diversa dall’altra e ha la sua peculiarità. Un mondo in cui la globalizzazione è buona “se ci unisce” e non se uno domina sull’altro. 

  
Sul piano più strettamente politico (o diplomatico), il quadro è chiaro: per anni la narrazione dominante ha ripetuto che a Bergoglio Trump non piaceva, portando a esempio la frase sui cristiani che non possono dirsi tali se costruiscono muri. Ma il rapporto con Joe Biden, il primo cattolico alla Casa Bianca dopo John Fitzgerald Kennedy, non è migliore, a dimostrazione che non sono tanto gli uomini a determinare l’approccio di Francesco agli Stati Uniti, quanto il modus pensandi e soprattutto agendi di governare il paese della mitica frontiera. La frattura rispetto alla Cina e alla Russia lo spiega in maniera cristallina: se l’impero di Xi Jinping è considerato a Washington come il principale nemico per i prossimi decenni, tanto da portare non pochi osservatori a ipotizzare un inevitabile redde rationem, a Roma si pensa tutt’altro. Francesco è in prima linea nell’elogiare “il nobile popolo cinese”, esortando i cattolici locali a essere “buoni cristiani e buoni cittadini”, mandando messaggi di concordia a Pechino, stipulando un importante accordo relativo sì alla nomina dei vescovi ma potenzialmente il germoglio di un’intesa diplomatica ben più ampia. Se la Russia è considerata alla Casa Bianca la minaccia prioritaria, con la sua guerra imperialista che punta allo smembramento dell’Ucraina, il Pontefice ha evitato di rompere con il Cremlino, al punto da essere definito “filorusso” dal portavoce di Zelensky e con la constatazione che il gradimento di Francesco fra tutti gli ucraini è crollato in un anno e mezzo da oltre il sessanta per cento al sei, secondo quanto ha detto il vescovo latino di Kyiv. 

  
Una divaricazione che si nota anche sul piano intraecclesiale, nei rapporti con la Chiesa degli Stati Uniti, grande potente e ricca. All’inizio di agosto, conversando con la comunità dei gesuiti in Portogallo, Francesco è stato chiaro: “Negli Stati Uniti la situazione non è facile: c’è un’attitudine reazionaria molto forte, organizzata, che struttura un’appartenenza anche affettiva. A queste persone voglio ricordare che l’indietrismo è inutile, e bisogna capire che c’è una giusta evoluzione nella comprensione delle questioni di fede e di morale purché si seguano i tre criteri che indicava già Vincenzo di Lérins nel V secolo: che la dottrina si evolva ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. In altre parole, anche la dottrina progredisce, si consolida con il tempo, si dilata e si consolida e diviene più ferma, ma sempre progredendo. Il cambiamento si sviluppa dalla radice verso l’alto, crescendo con questi tre criteri”. Il problema, aggiungeva, è che “alcuni si chiamano fuori, vanno all’indietro, sono quelli che io chiamo ‘indietristi’. Quando te ne vai all’indietro, formi qualcosa di chiuso, sconnesso dalle radici della Chiesa e perdi la linfa della rivelazione. Se non cambi verso l’alto, te ne vai indietro, e allora assumi criteri di cambiamento diversi da quelli che la stessa fede ti dà per crescere e cambiare. E gli effetti sulla morale sono devastanti. I problemi che i moralisti devono esaminare oggi sono molto gravi, e per affrontarli devono correre il rischio di cambiare, ma nella direzione che dicevo (…) Sì, avverto che si può sperimentare questo clima in alcune situazioni. Ma così si perde la vera tradizione e ci si rivolge alle ideologie per avere supporto e sostegno di ogni genere. In altre parole, l’ideologia soppianta la fede, l’appartenenza a un settore della Chiesa rimpiazza l’appartenenza alla Chiesa”. Clamore scontato e immediato.

   

I dubbi della rivista gesuita America: “Francesco dice che la polarizzazione non è cattolica, ma le sue osservazioni sono polarizzanti” 

   
Jay Hendricks, presidente del Catholic Laity and Clergy for Renewal, ha scritto su First Thing un articolo dal titolo emblematico: “Perché non piaccio al Papa?”: “L’ha fatto di nuovo, non posso fare a meno di pensare che non gli piaccio, o almeno alla caricatura di me nella sua testa quando pensa ai cattolici negli Stati Uniti”. Ma anche su America, la rivista dei gesuiti d’oltreoceano, c’è chi ha sottolineato più d’una perplessità: “Individuare un gruppo vagamente definito di cattolici in un paese, specialmente nei giorni precedenti a un sinodo che ha lo scopo di riunire la chiesa per il dialogo, è controproducente”, “Francesco doveva sapere che i suoi commenti alla fine sarebbero diventati pubblici e ora che ciò è accaduto non sono l’unico cattolico americano a chiedersi a chi pensasse”, ha scritto J. D. Long-García, che ha chiosato: “La polarizzazione non è cattolica, ha detto Francesco. Eppure, le sue osservazioni sui cattolici reazionari sono polarizzanti, non riuscendo ad armonizzare le differenze”. Non che Francesco abbia detto chissà quali novità: nel suo viaggio a Washington del 2015, incontrando la locale conferenza episcopale, chiese esplicitamente una conversione pastorale, sottolineando che la croce non può essere mai un “vessillo di lotte mondane” e ammonendo sulle “non poche tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”. Paul Vallely su Politico sintetizzò la faccenda con un emblematico “The Pope vs. America”, chiedendosi – sottotitolo – “perché Francesco ha adottato una linea così dura contro Washington e Wall Street”. 

    

Ceccanti: “Se si fa un’opzione preferenziale per la democrazia, non si dovrebbe percepire un’indifferenza fra le democrazie e le autocrazie”

    
Stefano Ceccanti, che un paio d’anni fa curò per Morcelliana “Noi crediamo in queste verità” di John Courtney Murray, ci tiene a distinguere: “Un conto è il conflitto intraecclesiale, e qui c’è una rigidità dei vescovi degli Stati Uniti ancora fermi a una visione unilaterale dei princìpi non negoziabili giustamente censurata dalla lettera del cardinale Ladaria (7 maggio 2021), da pochi giorni prefetto emerito del Dicastero per la dottrina della fede. Un’altra cosa è però l’America e il mondo delle democrazie occidentali: se, come afferma la Gaudium et spes, la Chiesa fa un’opzione preferenziale per la democrazia, tutta la sua azione dovrebbe venirne illuminata. Non si dovrebbe cioè mai percepire una qualche indifferenza fra le democrazie – pur con i loro difetti – rispetto a regimi autocratici con cui certo bisogna convivere. Dopotutto, era la differenza che già passava tra Montini (che credeva nell’opinione preferenziale per le democrazie) e il partito romano che andava da Ottaviani a Tardini. A noi come è arrivata, nel Vaticano II, l’opzione preferenziale per la democrazia e la libertà religiosa? Anche e soprattutto con l’elezione del cattolico Kennedy nel 1960”. 

    

Diotallevi: “Culturalmente, teologicamente e geopoliticamente, Papa Francesco viaggia in direzione ben diversa da quella di Montini” 

   
Luca Diotallevi, sociologo all’Università di Roma Tre, concorda: “La distanza tra il Papa e il mondo anglosassone non era così grande e profonda dai tempi di Pio XII. Proprio lui, però, aveva cominciato ad accorciarla con alcuni passaggi dei suoi celebri radiomessaggi durante la Seconda guerra mondiale. Lì cominciò a distinguere e a preferire il costituzionalismo liberale di lingua inglese rispetto a quello di marca francese. Il Vaticano II non ci sarebbe stato senza il contributo del cattolicesimo statunitense (e britannico) e senza la lungimiranza con la quale, sulle orme di Sturzo, Montini (poi Paolo VI) seppe aprirsi a esso. Benedetto XVI indicò nella Dignitatis humanae (sulla libertà religiosa e contro laicità e confessionalismo) l’esempio di cosa sia una vera e fedele riforma della Chiesa, Dignitatis humanae che fu incontro tra la medievale libertas ecclesiae e la costituzione americana, Dignitatis humanae cui un primario contributo venne dal gesuita americano J. C. Murray (consigliere di J. Kennedy). La Centesimus annus di Giovanni Paolo II destatalizza e decorporativizza la vecchia dottrina sociale della Chiesa dopo averne ‘risciacquato i panni nel Potomac’ (altro che Dossetti e Codice di Camaldoli!)”. Non solo, prosegue Diotallevi: “A Londra Benedetto XVI, riferendosi alla democrazia pluralista inglese e al suo regime di poteri limitati disse che ‘la dottrina sociale cattolica, pur formulata in un linguaggio diverso, ha molto in comune con un tale approccio’. Non solo teologia e magistero, però. Sostituto alla Segreteria di stato, Montini (in tandem con De Gasperi e contro la tradizione trasteverina di Tardini & Co.) aveva svolto un ruolo attivo perché l’Italia post fascista si radicasse nel campo delle società occidentali libere. Non da ultimo, con De Gasperi condusse e vinse, contro molta Dc e contro molti ambienti vaticani, la battaglia per inserire nella Costituzione italiana il principio della libertà religiosa, vent’anni prima che il Concilio lo sancisse”. 

  
E cosa si può dire oggi? “Culturalmente, teologicamente e geopoliticamente, Papa Francesco viaggia in direzione ben diversa. Basti dire che non se la sente ‘di non definire la Cina una democrazia’. Certamente sincera è la sua compassione per la ‘martoriata’ nazione ucraina, ma gli ucraini non hanno subìto un terremoto, sono stati aggrediti e sono stati lesi i loro diritti fondamentali. In questa situazione due quesiti si impongono. Primo. Molto più in linea con la eredità del Vaticano II e del magistero montiniano è stata ed è la Segreteria di stato vaticana. Quanto reggerà questa tensione? Secondo. Quel cattolicesimo liberale statunitense e britannico, aperto e ortodosso insieme, da Newman a Murray, è oggi in pessima salute. Il baricentro (innanzitutto demografico e poi anche teologico) del cattolicesimo statunitense si sta spostando sempre più a vantaggio di latinos e fondamentalisti. Non casualmente, questi convergono da destra con la lotta che da sinistra anche i ‘wokisti cattolici’ muovono alla eredità di quel cattolicesimo anglosassone che tanto aveva dato al Vaticano II. E’ un po’ come se reazionari e cattolici convertiti al politically correct insieme e da fronti opposti aggredissero gli ultimi dei Blues brothers”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.