(foto di Serge Le Strat, Unsplash)

Sorpresa, Dio non è morto

Il nichilismo del nostro tempo è un problema concreto e una possibilità da cogliere. Intervista al filosofo Costantino Esposito

Matteo Matzuzzi

Quando Nietzsche sembrava aver trionfato, ecco che torna il bisogno di senso. Siamo "alla ricerca spasmodica di produrre noi le condizioni della felicità, seguendo i modelli standard della cultura dominante"

In Serotonina, opera di Michel Houellebecq, a un certo punto un personaggio dice: “Non speravo niente, ero pienamente consapevole di non avere niente da sperare”. Frase che potrebbe aver pronunciato chiunque sulla Terra, nell’ultimo anno, soprattutto nei momenti più oscuri. Niente speranza, tutto buio, il destino è il nulla. Eppure, subito dopo, il personaggio ritratto da Houellebecq fa capire che qualcosa in cui sperare, nascosto alla vista, c’è eccome. Un desiderio? Un’incertezza? In ogni caso un moto di ribellione alla prospettiva del niente. 

 

Costantino Esposito, ordinario di Teoria della filosofia e di Storia della metafisica all’Università di Bari, ha mandato da poco in libreria Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca (Carocci, 156 pp., 14 euro), che raccoglie alcuni articoli usciti sull’Osservatore Romano e sviluppa ulteriori riflessioni. A Esposito domandiamo come ci siamo finiti dentro a questo niente tanto da avvertire il bisogno di un senso, d’un significato. “Il romanziere francese mi ha aiutato a sondare la misteriosa ferita dell’umanità contemporanea: quando l’io non si sente più chiamato per nome dal reale e il mondo è visto come un peso fastidioso o addirittura come un nemico da neutralizzare con un farmaco che attutisca l’ansia, con la conseguenza che anche la libido finisce per annegare nella noia, allora si rivela in maniera brutale, ma anche struggente, la radice dell’impasse, la rinuncia progressiva dell’io. Tuttavia – ecco il colpo di genio dell’essere – dove il ‘sé’ pare ormai perso tra il rimpianto delle occasioni mancate e l’impossibilità della speranza, proprio allora esso torna, quasi in extremis, a farsi sentire di nuovo, come qualcosa che resiste: ‘Eppure persisteva – scrive Houellebecq –, nella parte più profonda di me persisteva qualcosa, molto meno di una speranza, diciamo un’incertezza’. L’incertezza rispetto alla notte senza fine dell’insensatezza. La stessa agnizione, ma molto più esplicita, accade in Rust, l’iconico protagonista della serie televisiva ‘True detective’, un uomo letteralmente bruciato dal fallimento personale e dalla presenza implacabile del male nel mondo, che torna a vedere le stelle nel buio della notte e si sente nuovamente chiamato dalla luce. O la scoperta di David Foster Wallace, nel famoso discorso intitolato ‘Questa è l’acqua’, quando descrive l’esperienza quotidiana e ‘infernale’ di una lunga coda alla cassa di un supermercato come l’occasione per scoprire, dietro i volti infastiditi o spenti degli avventori e delle cassiere, una specie di dimensione ‘sacra, ispirata dalle stesse forze che formano le stelle: amore, amicizia, la mistica unità di tutte le cose fuse insieme’. Nella capacità di accorgersi di un senso nascosto nelle cose, e nella decisione libera di seguire quella traccia e di darle la possibilità di rivelarsi, sta l’irriducibile dell’essere umano”. 

 

Che però non mai stabilito per sempre, no?  “Sì, non è mai stabilito una volta per tutte: l’essere dell’io ‘accade’ nell’esperienza storica, cioè nella coscienza di essere strappati permanentemente dal nulla, e di essere ‘dati’ a sé stessi. Sin dall’inizio e in ogni momento del suo tempo, in ogni epoca, l’umano si pone, si afferma rispetto al nulla (ex nihilo, come si dice dell’atto con cui siamo creati e di continuo generati). Siamo noi il problema sempre riacceso. Un problema che paradossalmente va mantenuto aperto, a differenza del mainstream nichilistico che tende di continuo a chiuderlo”.

 

Scorrendo le pagine del libro, si legge appunto che “il nichilismo è tornato a essere un problema nella vita delle persone e nelle vicende del mondo”. Una sorpresa. Dopotutto, almeno in occidente, sembrava avesse trionfato. Non è paradossale che questo bisogno irriducibile sia riemerso dopo un secolo di globalizzazione e secolarizzazione? In che cosa consiste questo “nichilismo contemporaneo”? “Il nichilismo non è appena una teoria filosofica o un’ideologia sociale, ma è soprattutto una possibilità permanente dell’esistenza umana. Lo si capisce soprattutto ripercorrendone la traiettoria storica. Dalla ‘prima ondata’ (proprio in analogia alla diffusione di un virus) negli ultimi decenni del XIX secolo, sino al nostro presente, in cui sembra aver raggiunto una ‘immunità di gregge’, il nichilismo ha mostrato una strana ambiguità. Esso si presenta come crisi, ma anche come soluzione della crisi; come rivoluzione e come nuovo ordine, come esigenza sovversiva di un senso radicale per la vita e come tacito conformismo socio-culturale. All’inizio il nichilismo esplode come rivendicazione estrema della libertà del soggetto, non più intesa come rapporto con l’altro da sé, ma piuttosto come la sua negazione. Più radicalmente, la negazione dell’‘essere’ stesso come ‘dato’: un peso insopportabile per una volontà che voglia raggiungere la sua massima potenza”.

 

Ci sono esempi anche letterari, diremmo immediati: “Pensiamo alle icone dei grandi nichilisti russi descritti nei romanzi di Turgenev e di Dostoevskij: gli Evgenij Bazarov, Ivan Karamazov o Aleksej Kirillov, consumati dalla febbricitante rivolta contro le convenzioni sociali e l’autorità politica, la tradizione religiosa dei padri e infine il loro stesso essere generati da un padre. Di lì a poco l’‘uomo folle’ di cui parla Nietzsche ne La gaia scienza (1887), colui che annuncia in uno smarrimento cosmico che ‘Dio è morto, e noi l’abbiamo ucciso’, cederà direttamente il posto alla violenza iconoclasta del superuomo: i veri assassini di Dio sono proprio i valori di una morale cristiano-borghese ormai del tutto staccati dalla vita. Ma ben presto l’angoscia della perdita si trasformerà nell’enigmatico sorriso di Zarathustra, il saggio che ‘ama il destino’. Amor fati significa assentire con tutta la propria volontà all’eterna necessità della natura, come aveva già insegnato il ‘divino’ Spinoza. La realtà è necessaria proprio perché senza senso: immanenza assoluta (l’avrebbe poi chiamata Deleuze) che ruota attorno a se stessa, senza un’origine e senza un fine. Ci sarebbero volute poi le vicende di un secolo intero, il Ventesimo, perché l’ambiguità si mostrasse in tutta la sua portata”.  

 

Di mezzo c’è il crollo delle ideologie politiche tradizionali che sopravvivevano nel Dopoguerra. Ma ci sono anche, dice Costantino Esposito, “il riflusso della svolta libertaria del Sessantotto nell’ordine borghese (non più clerico-reazionario, certo, bensì progressista, ma pur sempre, anzi ancor di più borghese), con l’intreccio strettissimo tra una cultura della performance individualista, una globalizzazione economica sempre più pervasiva e una tecnocrazia della comunicazione a livello planetario, operante non più in remote stanze del comando, ma in maniera capillare dentro gli smartphone e le app con cui impattiamo la vita di ogni giorno. Il programma del ‘nichilismo attivo’ si stava compiendo: tutti liberi di non cercare un senso più grande delle nostre reazioni mentali ed emotive; ma anche tutti radicalmente condizionati da chi gestisce i gusti, i flussi, le tendenze dominanti, che pretendono di dirmi cosa fare, e come farlo, per essere me stesso. Così la liberazione dell’io corre il rischio di ribaltarsi in una liberazione dall’io: la condizione ormai normalizzata del ‘nichilismo passivo’. Attestando così un tipico meccanismo nichilistico: porre un problema radicale, mandando in crisi un pensiero codificato, e poi risolvere la crisi semplicemente negando o ritenendo inutile porre il problema stesso”. In questo volume, aggiunge l’autore,  “ho voluto riprendere le fila di uno scritto prezioso del mio compianto amico Franco Volpi, pubblicato 25 anni fa (Il nichilismo, Laterza 1996), per continuarne la storia e verificarne le trasformazioni nelle pieghe del nostro tempo. Quando il nichilismo sembrava aver vinto dappertutto, diventando la postura normale di chi sospetta che sia impossibile trovare il senso ultimo per cui ciascuno di noi è al mondo, proprio allora si presenta una nuova chance per accorgersi del nostro bisogno di senso, per il riaccendersi del nostro desiderio di essere. Trasformatosi da crisi in soluzione della crisi, il nichilismo non sembra essere più in grado di intercettare e corrispondere alla condizione umana del nostro tempo. Il problema è più al fondo, e quando lo si riconosce si inizia a fare un passo – piccolo, ma decisivo – al di là del nichilismo”.  

 

Alain Finkielkraut, guardando alla pandemia e a tutte le sue conseguenze, si è convinto che “il nichilismo non ha vinto e restiamo una civiltà”. E’ d’accordo? “Io direi invece che il nichilismo aveva vinto come il frutto amaro della nostra stessa civiltà, nel momento in cui gli assi portanti su cui quest’ultima poggiava sembrano non reggere più. Penso al valore assoluto e intangibile della persona, per cui nessuno va lasciato indietro o escluso; penso al rispetto e alla tutela della libertà dei singoli e dei corpi sociali, al diritto di sapere e di cercare la verità, all’incontro con il diverso da noi, come unica strada per realizzare noi stessi. Ebbene, la nostra civiltà ha ‘inventato’ questi valori solo nella misura in cui li ha ‘trovati’. Essi non vengono semplicemente dalla natura: piuttosto sono stati scoperti grazie a determinate esperienze storiche, e solo dopo sono stati riconosciuti come i più corrispondenti e inerenti alla nostra natura. Abbiamo dovuto incontrare il senso del mondo, in uno spazio e in un tempo determinati; abbiamo dovuto sentirci chiamati da qualcun altro per imparare i fondamentali della nostra tradizione. Ma senza che quell’incontro o quella chiamata si rinnovino e tornino ad accadere, il valore che abbiamo scoperto da essi si rinsecchisce, come una pianta senz’acqua. Potremmo dire che una civiltà regge solo se non vengono a mancare persone che vivano come testimoni del perché valga la pena vivere, convivere, costruire insieme per le generazioni future”.

 

Un capitolo del libro è intitolato “Chiedimi se sono felice”. Domanda attuale ma tutt’altro che banale. La felicità come problema del nostro tempo ma che già – ad esempio – interrogava  Etty Hillesum, come traspare dal suo Diario. E non è un caso che Hillesum colleghi il problema della felicità a quello della solitudine, arrivando a scrivere che “il senso della vita non è soltanto la vita stessa”. C’è un problema, nell’epoca in cui viviamo, di capire cosa sia la felicità? L’uomo la cerca davvero nel mondo giusto? “La felicità  – risponde Costantino Esposito – è la pietra d’inciampo di ogni riduzionismo nichilistico. Per quanto continuiamo a pensare che essa sia impossibile per chi abita questa terra – inseguiti come siamo dall’ombra della terribile signora, la morte che condanna tutto a finire –, non verremo tuttavia mai a capo del desiderio irriducibile della felicità. Ma che significa questa parola? Per noi pagani – greci e romani – la misura della felicità è uno sforzo di auto-realizzazione, di virtuosa costruzione del ‘sé’: sul versante conoscitivo attraverso l’esercizio e l’affinamento delle capacità intellettuali, sul versante morale attraverso il controllo del desiderio e il contenimento delle passioni, per non rischiare di bruciarsi con eccessive aspettative. Ma per noi cristiani la felicità non consiste più nell’accettazione dell’ordine necessario della natura, bensì nella conoscenza di un ‘altro’ rispetto alla natura, un ‘tu’ che viene a noi e ci abbraccia, come una grazia imprevista e immeritata. Qui scopriamo che il nostro desiderio più ‘estremo’ e insopprimibile è ‘desiderio dell’infinito’, per usare i termini di Cartesio. Ma oggi, per noi nichilisti, sembra che quel rapporto con l’infinito, staccato dal riconoscimento dell’altro che ci dona a noi stessi, si riduca sempre più a un’ossessione per il finito, alla ricerca spasmodica di produrre noi le condizioni della felicità, seguendo i modelli standard della cultura dominante o assumendo come destino l’irrazionalità del momento fortuito. Per questo oggi si avverte come un ritorno all’etica pagana, all’auto-delimitazione nel finito per pararsi dai pericoli dell’infinito, inteso solo come una hybris, la tracotante pretesa di chi ha smarrito la giusta misura. Ma ormai è troppo tardi per rimediare al desiderio della felicità: esso ci sta piantato nella carne, e ci accompagna sin dall’inizio del nostro essere al mondo, quando siamo stati accolti dallo sguardo di nostra madre. Quello sguardo amoroso ci ha insegnato ad aspettare tutta la vita la felicità, a desiderare un tu, e dunque un noi, in cui l’io possa respirare. La memoria di questa felicità che sta all’inizio di ogni esistenza è come il criterio per ogni immagine futura di essa”.

 

Resta un’ultima questione: il problema della verità, che poi si collega al tema – anch’esso assai pressante oggi – dell’ideologia. Il nostro interlocutore scrive che “il rischio di liquidare la realtà o di ridurla a ciò che la cultura dominante decide di volta in volta che sia”. Rischio evitato o palude nella quale siamo tuttora immersi con entrambe le gambe? “Il problema della verità è un altro indicatore significativo dell’ambiguità del nichilismo. C’è stato un tempo in cui la verità risultava a molti un peso ingombrante o un’imbarazzante pretesa per le società democratiche avanzate. Il timore era che ammettere una verità certa costituisse un impedimento a vivere le sfide di una convivenza ‘plurale’, e che bisognasse rinunciare al pesante bagaglio metafisico – o per lo meno privatizzarlo e renderlo ininfluente nella sfera pubblica – per poter realizzare una costruzione comune. Si trattava però di una soluzione un po’ ipocrita, per il solo fatto che ciascuno ha bisogno (‘privatamente’ si direbbe!) di esser certo di alcune verità senza le quali sarebbe impossibile vivere. Solo che poi nello spazio pubblico bisogna esorcizzare o sospendere tale certezza per potersi interfacciare con chi non la condivide con noi. Questa posizione sembra trascurare, o meglio mimetizzare, il bisogno che tutti abbiamo di riconoscere il vero della nostra vita, pur avendo riferimenti e magari certezze diverse.

 

Non si tratta dunque di difendere o propagare la propria verità (in tal caso temerei anch’io il fondamentalismo e lo scontro di posizioni), ma di verificarla noi per primi, vagliando criticamente la sua corrispondenza ai problemi del vivere. E paradossalmente il vero si verifica non censurando, ma proprio favorendo il confronto e il dialogo con altre posizioni. Pensare che affermando la ‘verità’ si minaccerebbe la libertà degli altri attori in gioco nella società e il pluralismo delle scelte, significa dimenticare che se c’è verità, essa ha in sé la forza di comunicarsi, di attrarre, di generare fiducia: insomma essa non teme la libertà ma si affida proprio alla libertà. Il problema si è riacceso negli ultimi anni, allorché molti di coloro che avevano dichiarato inopportuno o scorretto il riferimento alla verità e all’identità nel discorso pubblico, sono tornati a invocare il diritto e il dovere della verità come reazione all’uso politico distorto e tendenzioso delle fake news da parte di regimi o di gruppi populisti e autoritari (e non solo di essi). Quando la verità viene distorta ad arte per scopi di potere non è più possibile affermare semplicemente che non esiste alcuna verità certa, ma solo interpretazioni di parte. D’altro canto anche le nostre interpretazioni devono chiedersi continuamente se tendono al vero, cioè se tengono conto – tendenzialmente, appunto – di tutti i fattori in gioco e se sono disponibili a correggersi o a cambiare accettando con libertà la sfida imprevista del reale”.

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