Matteo Salvini con il rosario in mano (foto LaPresse)

Il gestaccio di Salvini e altre guerre

Il pericolo europeo di inciampare nelle radici cristiane

Maurizio Crippa

Il gesto del rosario vale come il gesto dell’ombrello, ma ha una storia più complessa e un vocabolario che viene da lontano. La confusione semantica tra l’abusata metafora (giovanpaolina) delle radici e la memoria

Il gesto del rosario, purissima variante del gesto dell’ombrello, svanirà dalle cronache marginali di queste elezioni europee ma resterà molto più a lungo, in profondità, come segnale di un punto di non ritorno, o di cambio di paradigma, nei rapporti tra politica, religione, identità. Non è però solo un gesto grossolano, strumentale per tagliare in fette l’elettorato cattolico. Matteo Salvini un po’ si è documentato, sulle radici identitarie eurocristiane, e la sua invocazione dal palco sovranista di piazza Duomo è stata, nella sua completezza, questa: “Ci affidiamo ai sei patroni di questa Europa, a san Benedetto da Norcia, santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena, ai santi Cirillo e Metodio, a santa Teresa Benedetta della Croce. Affidiamo a loro il destino dei nostri popoli! Io affido l’Italia, la mia e la vostra vita, al Cuore Immacolato di Maria, che son sicuro ci porterà alla vittoria!”.

 

Le reazioni della gerarchia cattolica sull’uso improprio di simboli e nomi sacri sono state nette, misurate. Difficile dire se anche convincenti ed efficaci. L’impressione è che la faccenda, non soltanto a livello nazionale, sia sfuggita di mano da tempo ai pastori della chiesa e ai loro christifideles laici. Il fatto è che i Salvini, gli Orbán, o i sanfedisti polacchi non si sono soltanto documentati: la loro visione parte da lontano, ha una storia e un vocabolario piuttosto lunghi dietro di sé.

 

Il peso del dibattito aspro sull’inserimento, o meno, di un riferimento alle “radici cristiane” nel trattato costituzionale europeo

Del resto, in uno dei suoi frequenti Angelus geopolitici, dedicato “ancora una volta all’attuale processo di integrazione europea”, il 24 agosto del 2003 Giovanni Paolo II concludeva invocando “Maria Santissima, perché faccia sì che non venga mai meno, nella costruzione dell’Europa di oggi e di domani, quell’ispirazione spirituale che è indispensabile”. Ma lui, quantomeno, era il romano Pontefice. E si era nel pieno del dibattito aspro sull’inserimento, o meno, di un riferimento alle “radici cristiane” nel trattato costituzionale europeo. Che l’attuale eruzione di sanfedismo pavloviano sia stata fomentata anche da un laicismo tanto miope quanto attardato (e in Italia senza manco i quarti di nobiltà della Francia) contro cui si arenò un certain regard cattolico sull’Europa, è fuori dubbio. Come pure il fatto che una certa intimidita rinuncia a praticare lo spazio pubblico non solo con dei niet non negoziabili ma anche con una presenza idealmente positiva abbia creato le condizioni per cui qualcun altro raccattasse il rosario caduto a terra. Nondimanco, c’è un problema. Che, ridotto alla sua chiave simbolica, è individuabile in una confusione semantica tra la metafora delle radici e la nozione più complessa, o polisemica, di memoria.

 

Giovanni Paolo II, non senza ragioni, era convinto che l’Europa, come identità e comunità, trovasse il vero fondamento nelle sue radici cristiane. E “non si recidono le radici sulle quali si è cresciuti”, ebbe a dire. Anzi, più propriamente, era convinto che il continente respirasse attraverso “due polmoni”, quello cattolico e quello slavo-ortodosso. Manifestando in ciò una (leggera) tendenza, lui raffinato filosofo influenzato dal miglior pensiero fenomenologico, a considerare quelle basi religiose un imprinting quasi esclusivo della costruzione europea. Quel dibattito si concluse con una formula di preambolo che richiamava le “eredità culturali, religiose e umanistiche”, senza menzione delle radici giudaico-cristiane. Uno smacco che non era difficile prevedere, ma agevolato anche da una versione un po’ monocorde della polifonia europea.

 

Radici indica quel che c’è stato prima per spiegare quel che consegue dopo. Il contrario dell’evangelico: dai frutti riconoscerete l’albero

Radici è una metafora, una sineddoche. Indica la parte per il tutto. Quel che c’è stato prima per spiegare o giustificare quel che consegue dopo. Curiosamente, una sineddoche inversa a quella evangelica: dai frutti riconoscerete l’albero (e non da quello che i suoi antecedenti biologici o culturali testimoniano per lui). Non si dà nessun albero che possa crescere con le radici in aria, ma nessun albero giustifica se stesso o trova la sua collocazione nel mondo a motivo delle sue radici. Le radici possono essere contorte, inestricabili, sono quella cosa in cui si inciampa quando si passeggia nei giardini. Quando l’albero è stanco e affaticato, per proteggerlo, con giro largo attorno al confine delle sue radici, ci si pianta uno steccato. Sono (anche) l’immagine di un ingombro, le radici. Riemergendo dal sottosuolo della metafora, la rivendicazione radicista è diventata nel tempo la somma di tutte le tematiche, non sempre congruenti, che hanno a che fare con il ruolo del cristianesimo nella costruzione o sopravvivenza dell’Europa. Quell’Europa che Giovanni Paolo II immaginava unica e continua dall’Atlantico agli Urali, sotto il segno di Benedetto e di Cirillo e Metodio, nominati co-patroni d’Europa nel 1980. Forse era un sognatore, forse non aveva capito bene cosa il mondo (occidentale) avesse in mente. Forse lo hanno preso in giro, ma non è una colpa. Lo hanno fatto santo subito ugualmente, con voto popolare. Si potrebbe dire il primo santo dell’epoca moderna eletto col metodo della democrazia diretta. E certo nel Papa (si usa il Papa come sineddoche, sia chiaro) era pressante la preoccupazione per il progressivo inaridimento antropologico della scolarizzazione (che stava galoppando dall’Atlantico fino oltre gli Urali) ma reggere l’urto aggrappandosi alle radici è un’impresa disperata.

 

Che l’attuale eruzione di sanfedismo pavloviano sia stata fomentata anche da un laicismo miope e attardato è fuori dubbio

L’Europa ha una memoria più complessa, anche valorizzandone appieno la componente cristiana. Joseph Ratzinger, molto tempo prima di divenire il successore di Karol Wojtyla, la vedeva come l’esito di quattro stratificazioni: l’eredità greca e la latina, quella cristiana e poi l’evoluzione dell’Età moderna. Vedeva nella separazione tra fede e legge uno dei maggiori portati del cattolicesimo, e non certo la sua negazione, e nella grande crisi della ragione occidentale un grande pericolo. E basta osservarla, l’Europa, nei suoi fiumi e nelle sue vie di comunicazione, nelle sue lingue e nelle sue civiltà, per capire che l’amalgama è frutto di più storie, di più fedi, e anche di più infedeli.

 

Invece, una volta messa nel circuito del pensiero politico cattolico – e passata dal nobile pensiero dei Papa nelle mani più dozzinali di chierici e dottorandi della chiesa – la metafora delle radici ha finito per uscire di controllo. E di trasformarsi nel circuito ristretto di un’idea difensiva, antinomica, con il suo eccesso di minaccia, di sentimento rivendicativo. Un hortus conclusus anziché un chiostro benedettino in cui si coltiva e si irradia la sapienza. Spesso finendo per sommare questioni difensive di natura diversa – geografie e geopolitiche, etiche e demografiche – che non spettano solo al cristianesimo. Qualche giorno fa sul Foglio Adriano Sofri ha riferito del libro della russa Masha GessenIl futuro è storia”, in cui prova a spiegare come sia stato possibile, per una Russia che aveva “perso un paio di epoche di avanzamento planetario dello spirito umano”, ritrovare in Putin una nuova e rassicurante forma di totalitarismo capace di “riportare ai princìpi suoi” il mondo, scrive Sofri citando Machiavelli.

 

“Riportare ai princìpi suoi” (principio è parente biologico di radice) è ciò che ha provato a fare l’ideologia radicalista cattolica (anche evangelical-americana, ma non allarghiamo i confini). Qui sta l’attrattiva facile per la parte di europei che si sente minacciata di sradicamento. E’, a specchio, la stessa interessante tesi di Emmanuel Todd, di cui ha dato conto Giulio Meotti. Secondo Todd il populismo si poggia su due “residuati”, “la famiglia stipite e il cristianesimo zombie”, inteso come “una religione che continua ad agire dopo la sua scomparsa, per trattare quindi di una fede morta ma allo stesso tempo viva”. Che il cristianesimo sia una religione zombie, è un pensiero di Todd, ci sono evidenze del contrario, ma non è l’argomento. In ogni caso, sarebbe in queste cose che stanno sottoterra il punto di resilienza verso la globalizzazione laicista. Ma la memoria come consapevolezza e interdipendenza è altra cosa di un ritorno al passato e porta a una diversa visione, che è poi quella della “minoranza creativa” cara a Benedetto XVI – a sua volta parente di un paio di metafore evangeliche: il sale e il lievito.

 

“Riportare ai principii suoi” (Machiavelli) è ciò che ha provato a fare l’ideologia radicalista cattolica (anche evangelical)

C’è poi un corollario, che aiuta a capire come se ne possa uscire. L’immagine, metaforica a sua volta, di come affrontare i populisti, le tribù sovraniste. Insomma gli sventolatori di rosario o gli stenditori di filo spinato o gli indossatori di gilet gialli: romanizzare i barbari. E’ possibile? Non è possibile? O i barbari si combattono e basta, sperando che finisca come con Vercingetorige e non come a Teutoburgo. In entrambi i casi, la memoria ci dovrebbe soccorrere e insegnare che nel lungo fluire dall’impero romano all’alba dell’Europa non furono soltanto i barbari a farsi romanizzare. Furono in parte consistente, lungo un paio di secoli prima della caduta e lungo i “limes” e le strade dei commerci i romani a farsi attrarre da nuovi popoli, da nuove regole e stili di vita. Persino assumendo, con orgoglio, i loro nomi e le loro parole. Stranieri, barbari o africani, furono gli imperatori. Ambrogio era di famiglia romana stabilmente trapiantata in Germania, prima di scendere a Milano. Era africano il suo caro discepolo Agostino.

 

C’è un’altra metafora che illumina bene la scena: la metafora dei calzoni. In uno spassoso testo teatrale del 1950, Romolo il Grande, Friedrich Dürrenmatt immagina con corrosivo e divertito anacronismo gli ultimi giorni di un disincantato Romolo Augusto, quello che spense la luce all’impero, mentre si diletta con l’allevamento sperimentale di galline (la sua preferita si chiama Odoacre), alle prese con il buoi politico e ancor più con un buco economico ormai incolmabile. Finché non gli si presenta un imprenditore, un barbaro, con un prodotto geniale e l’idea giusta per salvare business e impero. Cesare Rupf è un germanico, ma i suoi si sono stabiliti a Roma fin dai tempi di Augusto, hanno fatto i soldi nel tessile. E’ un fabbricante di calzoni, “quegli indumenti germanici che s’infilano sulle gambe e che adesso cominciano ad andare di moda anche da noi”, spiega il fidato servo a Romolo. “Immensamente ricco” Romolo è scettico sui barbari: “Dove cominciano i calzoni finisce la civiltà”. Rupf è un ottimista globalista: “Uno stato moderno che non porti i calzoni è inevitabilmente destinato a finir male”. La proposta è questa: “Da una parte c’è la superditta Cesare Rupf e dall’altra l’impero romano”. Perché non fare una fusione? I calzoni sono la tecnologia del futuro, ma per fare il salto di qualità culturale bisogna dargli un brand romano: bisogna barbarizzare i romani, affinché i barbari siano romanizzati (e anche l’impero sia salvo). Rups vuole sposare la figlia dell’imperatore: il brand dei calzoni e quello dell’impero diventeranno tutt’uno. Certo, Dürrenmatt era un umanista scettico e pessimista, la posta del suo gioco è dimostrare che ogni potere è male, e l’unica cosa migliore di qualsiasi potere politico è nessun potere politico. Non sognava convivenze virtuose. Nondimanco, la metafora dei calzoni, del resto storicamente fondata, funziona altrettanto bene di quella delle radici.

 

La “minoranza creativa” di Benedetto XVI (metafora evangelica; sale e lievito) e la diversità con la chiusura impaurita

Non è detto che finisca bene, ovvio. Ma tenere viva la memoria è meglio che sventolar rosari. I due magnifici e vecchi servi di Romolo, licenziati il giorno prima della caduta dell’impero per mancanza di quattrini, hanno in bocca la fine geniale della storia, anacronistica o forse profetica. Dice Piramo: “E immaginarsi che le redini della politica mondiale finiranno in mano a capi tribù germanici, a cinesi e altri barbari”. Il suo compare Achille: “L’epoca che sta per cominciare sarà veramente orribile”. E Piramo, definitivo: “Eh, sì: proprio il più cupo medioevo”.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"