Uno dei dipinti della serie del pittore e incisore Nino Caffè dedicata ai pretini

Più del seminario poté un abbraccio della figlia del barbiere

Giuseppe Sottile

L'orgoglio di mio padre per il figlio prete, gli studi della musica e le inquietudini del corpo. Storia amorevole di una vocazione mancata

Laggiù, in quel paesino cresciuto come un presepe sbilenco su un costone delle Madonie, frequentavamo una chiesa piccola e pietosa consacrata alle Anime del Purgatorio. Eppure mio padre sognava per me un futuro bello, radioso, basilicale. Come la cupola di San Pietro. Il prete che la domenica diceva messa era don Carmelo Aglialoro, povero e rinsecchito come un albero bruciato dal gelo: di mattina celebrava la liturgia della parola con i fedeli e il pomeriggio andava a zappare la terra con i suoi fratelli. Eppure mio padre sognava per me un futuro da sacerdote: luminoso, celeste, profumato d’incenso. E tanto lo sognò che in una mattinata di ottobre di tanti anni fa salimmo finalmente sulla corriera che ci avrebbe portato a Catania e da lì al seminario dei salesiani, sulle pendici dell’Etna. “Ricordati che per farti studiare qui, io e tua madre ci togliamo il pane dalla bocca”, mi disse. E così dicendo mi consegnò nelle mani di don Mizzi, un confratello di origine maltese, incaricato dai superiori di accogliere noi ragazzi “eletti dal Signore”, di controllare che la prima retta fosse stata pagata e di frenare ogni piagnucolosa resistenza dei genitori. Ma mio padre non aveva un gran bisogno di conforto. Anzi. Si mostrò fermo, granitico, orgoglioso. Tanto che don Mizzi mi accompagnò  senza perdere altro tempo alla camerata del terzo piano, quella intestata a San Domenico Savio e destinata agli studenti di prima, seconda e terza media; ché quelli di quarto e quinto ginnasio, prossimi alla vestizione e al noviziato, albergavano nella camerata del secondo piano, affidata invece alla protezione di Maria Ausiliatrice, auxilium peccatorum e “baluardo contro ogni tentazione”. 

 

Lungo quegli stanzoni si snodavano due file frontali di letti. Prima di coricarci ci si lavava faccia e piedi, e dopo la preghiera di ringraziamento ci si addormentava con lo sguardo fisso al chierico che, per meglio vegliare sul nostro sonno, andava su e giù fino a tarda notte, recitando il rosario. Ci diceva di essere “l’occhio del Signore”, che ci avrebbe guardato anche quando la luce della notte diventava fioca, e che si sarebbe disteso a letto solo dopo essersi sincerato che ciascuno di noi dormisse “abbracciato al proprio angelo custode e non al demonio”. Il nostro chierico – uno studente di teologia ancora non ordinato sacerdote – era don Scucces. Un giovanotto alto e robusto come un gigante, dall’orecchio finissimo, che da dietro il paravento di tela bianca era capace di percepire qualsiasi sospiro o cigolio della brandina; e che ad ogni ora della notte vedevi sgusciare come un furetto e fulminare con lo sguardo chiunque venisse sorpreso a compiere un gesto contrario alla “regola” della purezza.

 

Il nostro chierico voleva sempre sincerarsi che ciascuno di noi dormisse “abbracciato al proprio angelo custode e non al demonio”

Toccava a don Scucces, padrone delle nostre notti, seguirci nelle ore di ricreazione, o accompagnarci nelle gite del giovedì, o insegnarci le buone maniere al refettorio. Sapeva bene, il nostro chierico, che la gran parte di noi veniva dai paesi e dalle campagne. Ci diceva che Dio amava anche i cristiani che mangiavano con le mani ma i ministri del Signore, quali noi saremmo diventati, sono destinati a trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo ed è per questo mistero così grande – spiegava – che non dobbiamo consentirci una distrazione o una volgarità.

 

Toccava a don Scucces anche il rito più severo. Ogni tre mesi ci cambiava di posto: nelle aule di studio, al refettorio e, soprattutto, nella camerata. Le sue decisioni apparivano spesso immotivate, ma lui tirava dritto: la “regola” non ammetteva amicizie particolari perché era lì – in quelle che santa Teresa d’Avila aveva chiamato melanconie – che si annidava serpigno il diavolo. Un giorno, eravamo già in terza media, ce ne parlò apertamente. La prese alla larga. Prima si aggrappò ad una lettera di San Paolo, quella ai Corinzi, e ci recitò a memoria un versetto: “Il corpo non è per l’impurità ma per il Signore”; poi pronunciò la parola impronunciabile – omosessualità – e ci spiegò che “era il più impuro degli atti impuri perché l’attrazione tra un uomo e una donna Dio l’ha creata per ricreare l’uomo, ma l’attrazione tra due uomini o tra due donne serve solo a Satana per scombinare l’ordine del creato”.

 

Tra i nostri superiori consacrati al celibato – a parte il rettore, l’economo e il prefetto – c’era innanzitutto don Puleo che nelle ore di scuola ci insegnava la matematica e che, la mattina presto, prima della messa, se ne stava in cappella a disposizione di chiunque volesse confessare ogni peccato in parole, pensieri ed opere. Don Puleo era un tipo tracagnotto e po’ trasandato. Se ti incontrava nel cortile, durante la ricreazione, ti allungava una carezza ma senza mai sfiorare il viso: l’amorevolezza, se c’era, restava sempre appesa a quella sua mano umida e mai rasposa.

 

Lo fulminai con una domanda. “Pa’, ma i preti si maritano?”. Lo sfortunato capì. E raggelò. Mi invitò a fare la valigia e mi riportò a casa

Quando entrava nelle aule a parlare di algebra e teoremi, era austero e intransigente, ma nell’intimità della confessione sminuzzava la maestà del perdono in un dialogo umile con il peccatore. La prima domanda ti arrivava all’orecchio con tono sereno: “Non è che devi parlarmi di atti impuri?”. Se mostravi esitazione, ti si accostava alla guancia e chiedeva: “Non è che pensi spesso a un tuo compagno?”. La confessione si faceva più complicata se il peccatore ammetteva un’inquietudine del corpo, un’insidia dei sensi. “Ma non ti sei toccato, vero?”. A quel punto, la mano di don Puleo si faceva tremante, anche nel tracciare il segno della croce per impartire l’assoluzione.

 

I suoi fremiti somigliavano tanto a quelli di don Marinello. Che per avvicinarci ogni giorno di più a Dio e al sacerdozio, ci trascinava in quel “teatro dell’infinito” che è la musica. Ci costringeva ad ascoltare i classici e ogni due per tre bloccava il disco per spiegarci gli accordi, le tonalità, le assonanze e le dissonanze. Ma se qualcuno di noi mostrava indifferenza o noia allora don Marinello dava in escandescenze con un’isteria che lo spingeva ad abbracciare, chiamiamoli così, gli infedeli: quelli che non volevano saperne né di Mozart né di Beethoven né del do maggiore con il quale Haydn, nella Creazione, “accompagnò la nascita della luce e dell’universo intero”. Era, quello di don Marinello, un abbraccio passionale. Che mischiava amore e collera, narcisismo e compassione. Le sue mani penetravano nelle nostre schiene fino alle ossa e ci travasavano tutto il suo ardore e tutta la sua delusione.

 

A me voleva un mondo di bene. In uno dei nostri primi incontri gli avevo confidato che, prima di entrare in seminario, ero andato per alcuni mesi a lezione dal maestro Lapunzina, che oltre a essere il più bravo barbiere del paese, era anche l’anima della banda comunale. Con lui avevo imparato a conoscere le note e a muovere i primi passi nel solfeggio. Appreso questo dettaglio, don Marinello non mi mollò più. Una volta la settimana chiedeva al padre prefetto il permesso di prelevarmi dalla scuola e di portarmi con sé nella sala attigua al refettorio per insegnarmi a suonare l’armonium. “Mi sento incarnato in te”, mi ripeteva estasiato quando restavamo da soli. E me lo diceva con una foga crescente e ossessiva che a tratti mi impauriva.

 

Forse non meritava il colpo al cuore che, nell’ottobre successivo, gli avrei inferto. Poco prima che cominciasse il quinto anno, quello destinato a sfociare nella vestizione e nel noviziato, ero tornato a casa per trascorrere i canonici quindici giorni di vacanza. Per tutti i quindici giorni avevo servito messa nella parrocchia di don Carmelo. Ma poco prima di ripartire per il seminario, ero andato anche a trovare il barbiere Lapunzina, maestro di musica e solfeggio. Che nel frattempo aveva tirato su – oddio, che meraviglia – la figlia Mariella, mia compagna di scuola alle elementari. La ragazzina prima mi guardò incuriosita, poi si lanciò in un abbraccio e persino in un bacio. Sarà stata colpa del demonio, sarà stata colpa di quel saluto, sta di fatto che arrivai all’inizio del quinto anno con un chiodo fisso: che era un pensiero soave, ma al tempo stesso un’afflizione. Di certo, un innamoramento.

 

Quando il rettore mi convocò e mi chiese di anticipargli la risposta che prima della vestizione avrei dato al vicario del vescovo, non seppi cosa rispondere e chiesi un supplemento di riflessione. Furono giorni tremendi. Tornai due o tre volte da don Puleo. Durante le confessioni avvertivo le tribolazioni della mia e della sua carne. Ma sapevo anche che lui era in grado di trovare, nella fede, il balsamo per ogni ferita dello spirito. Quando capì che ero irreparabilmente perduto, richiamò il vangelo di san Giovanni – “La luce taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano” – e crudelmente spiegò che era inutile forzare la mano. “Il tuo corpo non ha afferrato la luce della vocazione. La fede non ti ha dato la forza di contrastare l’irruenza del sangue. Arrendersi non è peccato”.

 

Restava solo un però. Con quale coraggio potevo presentarmi al cospetto di mio padre che “si toglieva il pane dalla bocca” per coltivare in cambio l’orgoglio di un figlio prete? Sarà stato il diavolo, sarà stato il destino, sta di fatto che dopo due giorni lo vidi comparire nel parlatorio: si era sottoposto a sei ore di corriera per dare un saluto al figlio seminarista prossimo alla vestizione e alla clausura imposta dal noviziato. Lo fulminai con una domanda. “Pa’, ma i preti si maritano?”. Lo sfortunato capì. E raggelò. Mi invitò a fare la valigia, mi prese sottobraccio e mi riportò a casa. Si tolse anche quel giorno il pane dalla bocca. Perché gli aggroppava in gola.

Di più su questi argomenti:
  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.