Il volto di Papa Francesco su una bandiera del Cile (foto LaPresse)

Le buone ragioni di Papa Francesco per non andare in Argentina

Matteo Matzuzzi

Argentini disperati perché il Pontefice argentino non va a trovarli, sorvola il paese e atterra in Cile. In cinque anni, mai una visita. Gli ottimi motivi (non solo politici) per dare buca. A cominciare dalla poca voglia di essere strattonato per la talare

Roma. Anche stavolta, appena il Papa ha iniziato a sorvolare l’America latina con destinazione Santiago del Cile, i media d’ogni latitudine hanno riproposto la ferale domanda: perché va dappertutto ma non in Argentina, che poi sarebbe pure casa sua? Domanda lecita, ci mancherebbe. Ma per quale motivo Francesco dovrebbe rimettere piede in Argentina, a tutti i costi e in tempi relativamente brevi? Certo, la tradizione vorrebbe che il vescovo di Roma scegliesse il ritorno in patria come primo viaggio dopo l’elezione, ma appunto di tradizione e non di dogma trattasi. E poi i tempi sono cambiati da quando Giovanni Paolo II tornò da trionfatore nella Polonia comunista pochi mesi dopo essere asceso al Soglio petrino (il suo primo viaggio internazionale fu in Messico, ma solo perché era in programma la Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Puebla) e iniziò a picconare la cortina di ferro che separava est e ovest. Benedetto XVI in Germania ci tornò subito, ma anche qui in occasione della Giornata mondiale della gioventù di Colonia già calendarizzata e preparata per il suo predecessore.

 

Francesco, invece, rimanda il ritorno in Argentina: sarà quando Dio vorrà, fa sapere attraverso qualche vescovo a lui vicino tra la Patagonia e le ville miseria di Buenos Aires. Una scelta che “è misteriosa quanto la Santissima Trinità”, ha ironizzato il suo successore nella capitale, il cardinale arcivescovo Mario Aurelio Poli. Intanto tocca tutto il resto del continente, dal Brasile alla Colombia, dall’Ecuador al Paraguay, dalla Bolivia al Perù e al Cile. All’appello mancano solo il Venezuela (il che è comprensibile, data la guerra civile in corso e le minacce del caudillo revolucionario Nicolás Maduro di mettere in galera i vescovi che seminano zizzania sul suo conto), l’Uruguay e appunto l’Argentina. Le teorie sulle ragioni della scelta si sprecano, che qualcosa di nuovo potesse esserci alle porte l’aveva fatto intendere il portavoce vaticano Greg Burke, annunciando la scorsa settimana che al presidente Mauricio Macri sarebbe stato inviato un telegramma “interessante”. Il testo, in realtà, era uguale a tutti gli altri, scritto nel consueto lessico impiegatizio appropriato a comunicazioni di routine diplomatica. 

 

“Le motivazioni intime del continuo rinvio della sua visita le conosce solo lui”, dice al Foglio Marcelo Larraquy, scrittore argentino che ha pensato di mandare in libreria un Código Francisco (sottotitolo ambizioso: Come il Papa si è trasformato nel principale leader politico globale e qual è la sua strategia per cambiare il mondo), che però qualche ipotesi la fa. “Francesco, nel suo messaggio al popolo argentino del settembre 2016 ha insistito sulla necessità di sviluppare una ‘cultura dell’incontro’ che possa superare la ‘cultura del rigetto’. Forse il Papa percepisce che questa cultura dell’incontro non è quella che va per la maggiore tra le più alte autorità istituzionali del paese, che invece è immerso in un clima di scontro su qualunque questione dell’agenda politica e sociale.E in questo scontro il Papa è stato usato come parte di una fazione e non come riferimento di unione e consenso”.

 

Insomma, Bergoglio, già arcivescovo di Buenos Aires e primate della chiesa argentina, non ne vuole sapere di farsi strattonare per la tonaca da interessi politici forti e attivi in Argentina. “E poi Macri e Bergoglio non hanno mai avuto una particolare empatia personale, anche quando vivevano a cinquanta metri di distanza”, aggiunge Larraquy. Il problema, insomma, sarebbe reciproco, secondo Marcelo Larraquy: “Penso che il governo non voglia correre il rischio che una visita del Papa finisca per creare un’atmosfera critica rispetto alle sue politiche e ritengo, d’altra parte, che il Papa non desideri che la sua figura venga contestata pubblicamente dai sostenitori del governo”. Ma sono tutte supposizioni, teorie che mai hanno avuto un avallo ufficiale.

 

Sergio Rubin, ad esempio, che gode della fama di “giornalista che meglio conosce Jorge Mario Bergoglio”, ha un’idea un po’ diversa sul perché il Papa sia così restio a tornare nella sua “vecchia diocesi”. L’ha scritto sul Clarín, quando fu annunciato che l’atteso ritorno non si sarebbe verificato neppure nel 2018, dicendo in sostanza che più si reclamerà la calata di Francesco in terra porteña, più lui la rinvierà. Troppe pressioni, benché – sostiene Rubin – il governo sia favorevole, seppur “con molta discrezione”, a ospitare l’ex primate. Pressioni che provengono anche dalla chiesa, dai vescovi e dai portavoce veri o autoproclamatisi tali, che quotidianamente dicono la loro sull’“imminente” (sic) viaggio di Francesco. La Conferenza episcopale argentina, nelle scorse settimane, ha cercato di arginare il profluvio di doglianze per la scelta papale di prediligere il vicino e vecchio nemico Cile, affermando che prima di diffondere prese di posizione personali, sarebbe utile riflettere. “Vediamo che c’è molto rumore attorno alla figura del Papa e che molti gli attribuiscono rappresentazioni che non sono reali”, ha detto il portavoce ufficiale, Jorge Oesterheld, che pure lui però ha ceduto all’imprecazione (seppure edulcorata nel lessico scelto): “E’ un po’ difficile per noi argentini comprendere che Francesco non verrà. E’ un po’ strano e un po’ doloroso sapere che ci passerà sopra e atterrerà da qualche altra parte”.

 

Marcelo Figueroa, amico da decenni di Bergoglio e direttore della nuova edizione argentina dell’Osservatore Romano, in questi giorni ha chiesto misericordia ai suoi connazionali nel valutare la scelta dell’illustre connazionale: “Dovremmo essere meno duri nel giudicarlo, pensare che lui non voglia venire qui significa non conoscerlo”. Secondo Figueroa, la politica c’entra fino a un certo punto: “Sono cinque anni che è Papa”, e prima di Macri c’era Cristina Kirchner, che di certo non godeva d’un rapporto idilliaco con l’allora primate. Semmai è il continuo uso e abuso di Francesco, esibito alla stregua di un trofeo, nella battaglia interna ad aver “messo in crisi” l’amico eletto vescovo di Roma. “Penso che gli argentini non siano consapevoli della dimensione globale acquisita da Bergoglio”, dice al Foglio Larraquy: “Lo osservano calando il suo ruolo nello scontro interno e non lo guardano come una figura mondiale che va ben oltre i conflitti locali”. E finché non cambierà questo modo di guardare Francesco, lui non verrà. Magari, sussurra qualcuno, tornerà se deciderà di rinunciare come Ratzinger al Soglio petrino, ma adattandolo al suo stile, e cioè niente ritiro monastico nei Giardini vaticani ma pellegrino tra le villas della metropoli che lo ebbe come vescovo. Lui, intanto, pensa alla sua gente: “Per me il popolo argentino è il mio popolo, voi siete importanti, io continuo a essere argentino, viaggio ancora con il passaporto argentino. Sono convinto che come popolo siete il tesoro più grande che ha la nostra patria”, scrisse il 30 settembre nel Messaggio per il bicentenario dell’indipendenza.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.