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Sulla legge elettorale vince De Gaulle

Massimo Bordin

Il dibattito sulla questione può essere ridotto a due categorie: i competenti e chi non sa di cosa parla

Tutte le questioni propriamente relative alla legge elettorale possono essere ridotte a due categorie, caratterizzate dagli animatori del dibattito. Da un lato il dibattito dei competenti, che sanno che nessuna legge è perfetta, che tutte sono in qualche modo strumentali e soprattutto che, in questa materia, più che mai il diavolo si annida nei dettagli. Quest’ultima consapevolezza contiene il rischio di perdersi nei particolari dimenticando il problema principale. Dall’altro lato si distingue chi, con ogni evidenza, non sa di cosa parla ma lo fa a voce altissima, bollando parlamenti illegittimi e governi mai eletti. Ci sono varie sottocategorie ma questa può essere la classificazione più elementare. Si può solo notare l’aspetto singolare relativo agli accademici della materia che animano allegramente entrambe le categorie. Forse la sapienza tecnica non basta. Forse la divisione vera dovrebbe essere fra quelli che sostengono che una buona legge elettorale deve avere il consenso più largo possibile e quelli che sono pronti a sacrificarlo in nome della vittoria della propria tesi. Non è detto che i secondi abbiano torto, può anche venire fuori una buona legge. De Gaulle applicò questo metodo e, grosso modo, la sua legge è ancora lì e funziona. Il guaio è che qui non c’è De Gaulle e non resta che affidarsi alla prima scuola di pensiero, incrociando le dita.

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