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Contro l'eutanasia

Il ruolo della medicina non è quello di dare la morte, caro monsignor Paglia

Ferdinando Cancelli

Il vescovo apre al suicidio assistito. Un palliativista risponde che un medico non somministra veleni neanche su richiesta

La lettura dell’articolo di Vincenzo Paglia comparso sul Riformista del 21 aprile, in una domenica di guardia medica domiciliare e di visite a malati morenti, mi lascia un senso di grande tristezza. “Non è da escludersi che nella nostra società – si legge – sia praticabile una mediazione giuridica che consenta l’assistenza al suicidio nelle condizioni precisate dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale” (…). “La proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati (ma non dal Senato) andava fondamentalmente in questa linea”.

 

Queste parole rappresentano un’apertura al suicidio assistito attraverso l’avvallo di una “mediazione giuridica” che nella sostanza trascina l’intera medicina verso un radicale stravolgimento del proprio ruolo. Per due millenni il medico si è formato nella consapevolezza piena che la propria arte non l’avrebbe mai visto prescrivere o somministrare un veleno a un paziente, nemmeno su richiesta. Per secoli i due binari della scienza medica sono stati il “non nuocere” e il “sedare il dolore”: su questi binari generazioni di colleghi, e tra questi io stesso, hanno pensato che si potesse tenere una via mediana, sempre rivolta alla vita, per guarire i guaribili e curare gli inguaribili. Il che fino a ieri si traduceva nel lasciare morire, spesso con grande sforzo di umiltà e rispettando la richiesta di rinuncia di alcuni pazienti ai mezzi di sostegno vitale, quei malati per i quali ogni ostinazione irragionevole sarebbe stata solo l’espressione di un’insensata “hybris” professionale e la fonte per loro di ulteriori sofferenze.

 

Nel frattempo, in quel lasso più o meno lungo di giorni che il processo del morire misteriosamente riserva a ognuno in modo particolare, il medico cercava con ogni mezzo di alleviare tutti quei sintomi che possono rendere difficilissimi gli ultimi istanti. Sempre con in mente la chiara e netta distinzione che esiste tra “lasciar morire” e “far morire”. Chi nella propria vita ha visto tanti malati fa meno fatica a riconoscere che se mai si arrivasse anche in Italia all’auspicata “mediazione giuridica” quest’ultima rappresenterebbe un colpo mortale al tentativo che tutti noi, cattolici o laici riflessivi abituati a pensare l’uomo nel suo mistero imprendibile già pienamente intuito da alcuni pensatori greci classici, cerchiamo di fare ogni giorno. Anche in una guardia come quella di oggi è stato necessario, oltre che somministrare farmaci in scienza e coscienza per alleviare i sintomi, prendere quasi per mano malati e familiari per cercare, con fatica, di fare un pezzetto di strada insieme. Una strada inafferrabile, a tratti buia e scivolosa ma mai aperta alla tentazione di facili scorciatoie; un sentiero difficile che obbliga a mobilitare tutta la finezza e la determinazione umana che fece scegliere a Ulisse di tornare da Penelope, come scriveva benissimo Jean Leonetti, piuttosto che restare intrappolato nei lacci suadenti dell’amore apparentemente perfetto di Calipso. Una via che il medico, da sempre per la vita e lontano da ogni ambiguità, percorrerà con i suoi malati con franchezza e coerenza fino a renderli certi che in lui troveranno non un prescrittore di morte e un realizzatore di “mediazioni giuridiche” ma sempre e soltanto un servitore della vita.

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