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No, l'eutanasia legale non sarà mai un beneficio per la nostra umanità

Contro l’immagine mielosa della solidarietà per il sofferente, che svela una studiata rinuncia al sacrificio

Pubblichiamo uno stralcio tratto da “Eutanasia. Le ragioni del no. Il referendum, la legge, le sentenze, il volume edito da Cantagalli (304 pp., 20 euro). Il libro contiene i contributi di  Francesco Cavallo, Francesco Farri, Carmelo Leotta, Alfredo Mantovano, Andrea D. M. Manazza, Domenico Menorello, Daniele Onori, Roberto Respinti, Mauro Ronco, Giuliana Ruggieri, Angelo Salvi, Aldo Rocco Vitale 



La gara fra chi assicura la più efficace consegna alla morte è ovviamente all’insegna dei buoni sentimenti: chi taglierà per primo il traguardo dell’eutanasia legale entrerà nella storia, e magari potrà vantarsene politicamente come benefattore dell’umanità, raccogliendo qualche voto libertario in più. Alla fine però ci sarà poco di cui gloriarsi, perché si tratta di una corsa alla opzione in apparenza più facile e meno costosa: non sia mai che per l’ammalato che non tollera più la sua condizione si provi, più che con l’abbandono e con l’iniezione letale, con una vicinanza reale, per garantirgli, insieme con le cure palliative – se necessarie –, quel sostegno umano che invochiamo per chi è lontano da noi, per es. i migranti che sfuggono dalle guerre o dalla miseria, ma poi non pratichiamo col parente prossimo cui tenere la mano a casa o in ospedale. Per la verità, la solidarietà verso chi fugge da una guerra è (quasi) sempre condizionata a che il profugo non si avvicini troppo a casa nostra, come hanno insegnato i democratici fruitori delle estati di Capalbio. Siamo pieni di ammirazione per i disabili che partecipano ai Giochi paralimpici, ma l’empatia si affievolisce se il disabile che non brilla nello sport, e quindi è meno attraente e più carico di problemi, si approssima al cerchio di sicurezza che tracciamo attorno a noi. Come siamo stati pronti in un passato remoto a scagliarci contro la chiusura dei disabili mentali nei manicomi, e in epoca più recente contro la loro reclusione, se condannati per reati anche gravi, in reparti psichiatrici all’interno del circuito penitenziario, ora non si capisce con quale coerenza siamo indotti a ritenere che il “miglior interesse” sia assicurare loro il “diritto” di morire, pure se non hanno mai espresso un consenso nemmeno semicosciente in tal senso.

Allo stesso modo prendiamo in parola l’anziano che, lasciato in compagnia della sua solitudine e della nostra indifferenza, vede accentuati i malanni dell’età e si chiede perché il Signore non lo lasci andare: ho il rimedio per te – gli rispondiamo –, che non è dedicarti qualche minuto di tempo, ma garantirti una fine indolore. Senza comprendere che quella domanda di morte esige la nostra attenzione e la nostra vicinanza vera, e retrocede se queste ci sono. Non leggiamo la disperazione del familiare che trascorre senza aiuto anni a fianco a quell’anziano, e per questo anche sui media o sui social è pronto (non sempre) a sollecitare strumenti che facciano cessare lo strazio: andrebbe allo stesso modo se avesse avuto o se avesse sostegni concreti?

L’immagine mielosa della solidarietà per il malato che soffre svela un backstage di rinuncia al sacrificio, e cioè alla presa in carico del dolore. Al sacrificio dei figli avevamo già rinunciato. Quell’eutanasia che sul piano individuale è mostrata come la soluzione al patimento quotidiano, del paziente e dei suoi familiari, e anzi assurge a scelta di libertà, sul piano economico diventa una misura coerente con un corpo sociale che ha scelto di essere più anziano, e quindi più acciaccato. Ha ragione Israël: “Quando i ‘vecchi’ non serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene”. Il cerchio si chiude con un bel taglio ai rami secchi. Che non è soltanto uno slogan per vincere la gara di procurare la morte: è l’allontanamento da sé di ciò che vale, e per questo costa. E’ la rinuncia ad amare.

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