Eutanasia legale, la domanda è "o la scelta o la vita"? Falso

Eugenio Mazzarella

“Mario” sarà il primo a poter accedere al suicidio assistito in Italia. In attesa di una legge. Il dilemma etico si può risolvere? Sì, ma vanno messi da parte due non-presupposti: quello teologico e quello laico

Mario, tetraplegico da dieci anni, è il primo italiano a poter morire a casa sua, grazie alla decisione dell’Asur della Regione Marche, che ha fatto coraggiosamente proprie le più che sensate argomentazioni della Corte costituzionale sulle condizioni di non punibilità di chi si presta a fornire assistenza a una volontà di suicidio in condizioni di irreversibile, insostenibile sofferenza. Finalmente, dopo averne ascoltato la voce al tg, la serena determinazione della sua decisione e del giudizio sulla “sua” vita. Finalmente Mario “può” morire. E come lui sa ha fatto una “cosa grande”. Ha aperto una strada. Tutto questo mentre sono – ancora –  in Parlamento le “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, in un testo unificato per altro ragionevolmente “istruito” sulla base di una sentenza della Corte, e in ossequio all’invito che ne è venuto di legiferare. Il tema è moralmente e giuridicamente delicatissimo, e di tutto ha bisogno meno che di impantanarsi in contrapposizioni ideologiche e in malafede.


Come già per le “Disposizioni anticipate di trattamento”, fermo restando l’assunto che lo spazio etico non è lo spazio giuridico, sono noti i valori in conflitto: disponibilità o indisponibilità della vita, anche la “mia”, alla mia autodeterminazione individuale? Indisponibilità che da nessuno può essere manomessa, in nome della sua dignità percepita; neanche da me che quella dignità per me più non riconosco. E rivendico il diritto di potervi decidere su, e di essere aiutato, se non posso da me, a porvi fine, senza pregiudizio penale per chi mi aiuti.


Il dilemma ha ragioni sostanziali, perché da un lato c’è l’evidenza ontologica – che la sfera assiologica, morale e diritto, registra – dell’indisponibilità “individuale” della vita, e persino sociale, se si va a fondo del tabù del sangue. Indisponibilità oggi sancita nella positività storicamente configuratasi dei “diritti umani” come ciò che “naturalmente” ogni vita riconosce a sé stessa e che è richiesto di farsi diritto sancito condiviso di tutti. Dall’altro c’è il valore dell’autonomia individuale, la cui scoperta e la cui enfasi ha storicamente “costruito” la possibilità stessa in discorso dei “diritti umani”. Come rispettare quell’evidenza senza ledere questo valore? Senza ledere l’equilibrio funzionale dei valori in gioco, della saputa appartenenza dell’individualità umana alla totalità organica e culturale – la specie, il gruppo, la comunità – cui appartiene, e che però proprio perché “sa” questa appartenenza se ne distingue (il valore funzionale alla stessa comunità organica di appartenenza dell’autonomia dell’individuo)?


Ora per evitare che questo dilemma si traduca in un’opposizione non mediabile né nella concreta vita etica (dove in verità, magari in silentio et spe, è da sempre mediato) né in diritto, si tratta di argomentare, che è quel mi accingo a fare: a) il non presupposto teologico-religioso (lo specifico cristiano della nostra cultura) della sacralità della vita b) il non presupposto laico, o latamente antropologico, che la vita individuale sia solo in capo all’autodeterminazione degli individui, negando la pertinenza della vita individuale a qualcosa (e tanto più a Qualcuno) che la trascende, e che quindi abbia de facto e de jure titolarità a prendere parola sulla mia vita. Questo per dire che l’antinomia tra sacralità della vita e dignità della vita non esiste in re nell’ontologia dell’essere sociale della nostra cultura, sia antropologicamente, che nella teologia della vita (cristiana) che questa cultura storicamente ha espresso. Quindi è bene che questi due non-presupposti non inquinino il dibattito nel percorso parlamentare della legge.


Il primo non-presupposto, la nuda e cruda titolarità (ontologica, esistenziale, morale) solo in capo a me stesso della mia vita, è un’evidenza della ragione osservativa che solo la distorsione ottica dell’individualismo proprietario (presunto) di sé della stagione moderna dell’io ridotto al suo libitum e al suo desiderio (come insegnava Pietro Barcellona, non propriamente un chierichetto) può non vedere: che cioè l’esserci, che è il nostro, il nostro stare al mondo, è sempre anche un con-essere. Un acquisto irrinunciabile dell’analitica esistenziale di Heidegger. Un’evidenza che la religione abramitica del Dio personale traduce nel teologumeno “io sono Tu che mi fai”. Senza tirare in ballo saperi fisici e metafisici dell’umano, una pura evidenza di buon senso. Aristotele avrebbe detto che non va neanche dimostrata, ma solo mostrata.


Il secondo non-presupposto teologico-religioso, una sacralità della vita sottratta a qualsiasi sua determinazione in base a un giudizio sulla sua dignità, non sta nelle sue fonti, cioè nella prassi istituente la religione della vita del suo fondatore, che non considerò “tesoro geloso” la sua vita, la sua “natura divina”, tanto da  offrirla per la salvezza degli uomini in obbedienza libera alla volontà del Padre che lo aveva mandato. Che è quanto Paolo ci dice in Filippesi, 2, 5-8, confermando il rifiuto di Cristo, all’invito di Pietro come satanico, di sottrarsi alla Croce (Marco, 29-34); e cioè che la vita del cristiano è sempre a disposizione di sé per un’idea più alta di vita, la propria e quella degli altri. Dove nel modo più potente è affermato il principio della dignitas hominis come autodeterminazione della coscienza: la vita degna non è la vita in sé, ma la vita che sceglie di farsi santa nel nome di Dio: “Chi la salva la perderà, chi la perde la salverà”. La “vita cristiana” si (auto)determina sempre dall’idea – di fede – della sua “dignità”. Come si vede, la “religione della vita” è anche sempre la “religione della scelta” della “propria” vita. Qualcosa di molto più vicino al Critone di Socrate (spesso ridotto a stereotipo dell’affidamento illuministico rischiarato dalla ragione delle proprie scelte di vita circa la propria dignità sostenibile) di quanto si pensi.


Se qualcosa questo doppio presupposto di non contraddittorietà esistenziale tra disponibilità e non disponibilità della vita in capo a sé stessi, per cosa morire e per come morire, che poi è la decisione su come indossare la vita che non è mai solo “mia”, possono insegnarci è che alla vita deve sempre essere possibile, quando la sofferenza non ha più senso, che possa prendere con serenità la porta della casa del Padre o semplicemente della pace. E che qualcuno quella porta aiuti a schiudersi. Il che aiuta a capire che nella scena del fine vita non ha nessun senso la distanasia, la lotta senza senso “contro” la morte, più un esercizio di hybris tecno-biologica che di pietas. Pietà che quale che sia, è più grande della legge. E non può essere impedita.


Ma proprio in relazione alla pietas, come l’orizzonte di senso di qualsiasi discorso sul fine vita, solo una società non eutanasica può moralmente permettersi una legislazione sul fine vitae in materia di morte volontaria. Che cioè non nella legge, che va da sé, non può esserci nessuna sia pur sottesa “istigazione al suicidio”, ma che nella società che quella legge emana questa istigazione non ci sia, nella forma subdola e diffusa dell’abbandono di una persona alla sua sofferenza, senza alcuna via di uscita. Se si vuole un esempio, una società dove qualcuno debba decidere se incontrare, fin che può, negli occhi il loro amore, o per loro debba togliere il “disturbo”, il “peso” che rappresenta. Un punto che è decisivo in una società sempre più esposta a camminare sul filo eutanasico del principio di prestazione, dove appena diventi uno scarto ai tuoi stessi occhi non hai altra via d’uscita che chiuderteli da te o farti aiutare a chiuderli. Vicolo cieco di un dramma di una società dove la vita, quella ordinaria di ogni giorno, patisce la morbilità sociale di una diffusa intollerabilità di condizioni o di senso, e sempre più si regge solo “stupefacendosi” di sostanze, di alcool, di esperienze estreme. Di una vita che è diventata a sé stessa un’inaccettabilità di massa; al netto di happy few che sono solo “ciechi, e guida di ciechi” (Matteo, 15,14).  Credo che queste argomentazioni “di principio”, spieghino a sufficienza perché Mario “può morire” e desiderarlo di farlo, in pace con la sua coscienza (se è credente), e dando pace alla nostra, se riusciamo a capire che c’è nella sofferenza un punto oltre cui essa non serve a niente, non ci guadagna nessuna “elevazione”, nessuna “gloria”.


Ora però c’è un punto nella vicenda di Mario. Bisogna vedere come tradurre in una procedura di suicidio assistito la sua volontà di farla finita. L’ipocrisia pietosa tra suicidio assistito o eutanasia cui allo stato della normativa bisogna ricorrere, per non incorrere nel rigor mortis della “legge”. Come uscire da questa ipocrisia? Come aiutare Mario a morire fingendo che si suicidi da solo, perché da solo tirerà un farmaco da una cannuccia, o a suicidarsi fingendo di non averlo “ucciso” mettendogli in un bicchiere di che morire? Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, da questa ipocrisia forse si può uscire. E tutto si gioca su come atteggiarsi nella concorrenza in corso su un tema delicatissimo, che ci interpella sul piano morale, prima che giuridico, tra il testo unificato sulle “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” all’esame del Parlamento, e la proposta di legge d’iniziativa popolare “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”? Concorrenza che sarebbe saggio evitare, rispondendo in Parlamento, nel quadro del testo unificato al suo esame, alle esigenze di allargare il perimetro della liceità della morte volontaria avanzate dalla proposta di legge popolare. Una soluzione parlamentare che consigliano proprio i tratti eutanasici della nostra società, dove la vita sembra “degna” sempre più solo se è capace di assolvere alle ambizioni di una fitness che non ammette défaillances (di essere “scarto” nel lessico di Francesco). Per riportare l’eutanasia – il desiderio di “morire bene” – nell’ambito suo proprio: quello medicale della “cura” in capo al medico (e ai familiari, agli affetti più vicini) della “sofferenza intollerabile” e senza esito fausto e del “fine vita”, quando non ci sia più nulla da fare se non l’accompagnamento al congedo.


Per fare questo, il punto è lasciarsi alle spalle il labile confine tra la liceità largamente ammessa sul terreno morale dell’eutanasia passiva – lasciar accadere il congedo – e l’eutanasia attiva. Favorirlo o assistendo una volontà di porre fine alla propria vita autonomamente, o giungendo – in questa assistenza – a sostituirsi nell’attuazione della volontà suicidaria all’inabilità a porla in atto. 


Il testo unificato non affronta questo nodo, depenalizzando – a tassative e giuste condizioni soggettive del paziente e oggettive della procedura – il suicidio assistito, perché di questo fondamentalmente si tratta nella “morte volontaria medicalmente assistita”, ma non l’omicidio del consenziente, che, stando al nostro codice, si realizzerebbe nel caso che a compiere l’atto letale sia altra mano di chi chiede per sé la morte volontaria. Se si accetta il principio della liceità morale della morte volontaria medicalmente assistita e se ne tutela il diritto nell’ordinamento, ancorché l’atto letale debba essere compiuto non solo volontariamente, ma “autonomamente” (come recita l’art. 1 del Testo unificato), la non estensione della liceità all’omicidio del consenziente (cioè ad una volontà suicida agita per mano di un altro) non ha sostenibili ragioni costituzionali a motivo della discriminazione che porrebbe in essere tra cittadini. Tra chi, pur avendo identica motivata volontà a por fine alla propria vita, lo può fare e chi per inabilità fisica non lo può fare. Si farebbe una differenza tra il diritto codificato a morire volontariamente di chi può dar fisicamente corso, con gesto proprio, alla propria morte, e chi non è fisicamente in grado di farlo, pur stando nelle stesse condizioni, salvo questa “capacità” di chi può farlo “autonomamente”. Insomma, tra chi patisce il di più di una sorta di barriera fisica nel suo corpo alla sua stessa volontà, una barriera architettonica a salire le scale, nel momento più difficile, della propria volontà.


Nell’ambito della scelta della morte volontaria per insostenibilità di patimento della propria vita, assistere la volontà di morire di qualcuno in modo compiutamente attivo (omicidio del consenziente) non è nient’altro, sul piano logico e morale, che eliminare una barriera fisica, che è in lui, a dar corso alla sua autodeterminazione circa la fine della propria vita. Moralmente è la classica richiesta del colpo di grazia di un ferito senza speranza e in piena sofferenza sul campo di battaglia. Un gesto di pietà, non un reato né qualcosa di immorale. D’altro canto, farsi uccidere dal proprio schiavo per porre fine alla propria vita e non darla in mano all’oltraggio del nemico era un topos della cultura classica della dignità della vita. O i soldati assediati che si uccidono l’un l’altro per non cadere in mano agli assedianti. Tutti casi in cui la volontà suicidaria si realizza nella forma che il nostro codice formalizza come omicidio del consenziente. 


Ma che il confine sia labile lo mostra anche il senso comune e il suo linguaggio. Quando qualcuno si butta in una situazione in cui sarà certamente ucciso da altri è lessico comune dirgli “ma questo è un suicidio”, pur sapendo tutti che l’atto ferale non si compirà per mano di chi per un motivo o per l’altro lo cerca. D’altro canto, il Cristo che sceglie la morte di croce, pur potendola evitare, è una volontà di por fine alla propria vita, sia pure per un fine trascendente, il cui carattere suicidario si attua nella forma di un acconsentimento al proprio omicidio, perché sia fatta “la volontà di Dio”, del piano di salvezza che gli è affidato. Il che attesta ad abudantiam il non-presupposto teologico dell’illeceità morale o di destino della morte volontaria, cercata anche per mano di altri. 


Come si vede nella trincea dell’estremo significato della propria vita, come giudizio sulla sua sostenibilità e sui suoi fini, la volontà suicidaria trova le strade che può percorrere, e non sempre per mano propria, anche se sempre – come deve –  motu proprio. Questo è il punto da mettere in diritto. Il punto è solo – perché non vi sia incertezza che questo motu proprio della “morte volontaria” si leghi sempre a condizioni motivanti irrefragabili nella loro valenza umana – che questo motu proprio e le condizioni che lo motivino siano sempre fino all’ultimo sotto stretto controllo sociale, restituendo per altro la morte anche per mano di altri all’accompagnamento della comunità.  


Se non si giungesse a una normativa nel senso qui proposto, si aprirebbe lo scenario moralmente insostenibile che chi voglia accedervi – stante la richiesta della legge dell’atto “autonomo” come condizione sine qua non per accedere alla fine medicalmente assistita della propria vita – sia spinto ad anticipare la sua richiesta di morte volontaria medicalmente assistita per la consapevolezza e l’angoscia che nel momento in cui non fosse più “autonomo” (nel senso richiesto dalla formulazione del Testo unificato) egli non potrebbe più dar corso alla sua volontà di smettere di soffrire, se non mettendo a repentaglio penale chi volesse aiutarlo, magari i suoi affetti più cari. E oltretutto all’art. 4 del Testo verrebbe codificato il paradosso che il richiedente la morte volontaria medicalmente assistita per esprimere la sua volontà può ricorrere ad un terzo, ma non può ricorrere ad un terzo per portare ad effetto il contenuto espresso della sua volontà; per esprimerla può essere non autonomo, ma non per vederla realizzata. Incongruenze logiche, morali e di diritto, che possono evitarsi se si ha la franchezza di vedere in faccia la realtà difficile che il Testo unificato vuole normare, e si tolga dal suo dispositivo la clausola dell’autonomia “fisicale” del gesto con cui si può porre fine a una vita che si sia fatta a sé stessa insostenibile. 

 

Chiudo pensando alla voce di Mario ascoltata al Tg. E mi assumo, per i tanti, troppi dottori della legge, da credente un impegno discorsivo: nessuno è tenuto a non scendere dalla Croce. Noi non siamo Cristo. Siamo solo dei poveri cristi. E solo questo ci fa degni di Lui, chiunque sia. Dio o il meglio dell’uomo che abbiamo visto.

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