Ferie dei magistrati, la Corte ricorda che i giudici dipendono dallo stato, non viceversa

Redazione

La Consulta ha bocciato, dichiarandola inammissibile, la questione di legittimità sollevata contro il decreto legge dell’anno scorso che limitava le giornate di ferie dei togati.

La Corte costituzionale ha bocciato, dichiarandola inammissibile, la questione di legittimità sollevata contro il decreto legge dell’anno scorso che limitava le giornate di ferie dei magistrati, portandole ai 30 giorni che valgono per tutta la pubblica amministrazione. Il ricorso è stato respinto “per difetto di motivazione in punto di rilevanza”, il che, detto in una lingua comprensibile, significa che non è accolto il principio che nega che i magistrati siano dipendenti dello Stato, sottoposti quindi alla normativa che regola quel comparto. Sembrerebbe una ovvietà, e lo sarebbe in ogni altro paese del mondo, ma da noi assume un valore rilevante, proprio perché seppellisce la pretesa della magistratura associata di essere al di sopra dello stato o almeno degli organi istituzionali dello Stato in base a una interpretazione capziosa ed estensiva dell’autonomia della magistratura o, addirittura, della separazione dei poteri. Il potere giudiziario non coincide con l’ordine giudiziario, che ne è uno strumento essenziale ma non esclusivo. Così come la separazione tra esecutivo e legislativo comporta che il secondo elegga il primo, quella tra esecutivo e giudiziario non esclude che il governo possa determinare, con il necessario consenso parlamentare, le regole contrattuali dei magistrati.

 

Insomma si certifica che i magistrati dipendono dallo stato, mentre molti di loro credono che sia lo stato a dipendere dai magistrati. E’ quindi legittimo che si decidano riforme in campo giudiziario anche senza il consenso della magistratura associata o del Consiglio superiore della magistratura. E’ la più chiara risposta delle istituzioni alle pretese avanzate nel recente congresso dell’Associazione nazionale magistrati, ed è un peccato che la grande stampa non abbia compreso il valore di questo pronunciamento, assai più rilevante di quello sulla conversione delle lire in euro che è stato invece ampiamente pubblicizzato.