Appunti contro la gogna giudiziaria e l'egemonia del tribunale del popolo

Marianna Rizzini
Quanto l’azione del magistrato è influenzata dall’“impressione popolare unanime”? Quanto l’insistenza mediatica sulla “reputazione”, anche a monte del giudizio in tribunale, ha fatto sì che emergesse l’ibrida figura del “coinvolto”, colui che non è imputato ma di cui si parla con un giudizio morale di condanna.

Roma. Quanto l’azione del magistrato è influenzata dall’“impressione popolare unanime”? Quanto l’insistenza mediatica sulla “reputazione”, anche a monte del giudizio in tribunale, ha fatto sì che dal panorama giuridico-politico emergesse l’ibrida figura del “coinvolto”, colui che non è imputato ma di cui si parla, il più delle volte con un giudizio morale di condanna già pendente sulla sua testa? E siamo davvero a nostro agio nella cosiddetta “società giudiziaria”, quella che sta a metà tra società civile e società politica, e che è composta un po’ da comuni cittadini un po’ da politici e un po’ da pm, e che affonda le sue radici nella punizione come terreno su cui si misura persino la qualità di un progetto di legge – della serie: più punitivo è meglio è, vista anche la resa generale della stessa politica e dei media e di una parte della magistratura all’“incultura giuridica del cittadino medio”? Si sono posti ieri queste domande, al convegno su giustizia e politica organizzato alla Camera dall’associazione “Popolari per l’Europa”, Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera e della Commissione parlamentare antimafia con percorso tutto ex Pci-Pds-Ds-Pd; Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto Penale all’Università di Palermo, giurista di area progressista per sua stessa definizione; Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica istruzione nei governi Prodi I e D’Alema; Gerardo Bianco, presidente dell’Associazione ex parlamentari, Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, Giuseppe Gargani, avvocato, già parlamentare in Italia e in Europa di area ex Dc, ex sottosegretario alla Giustizia e autore nel 1998 di un libro più volte ristampato fino a oggi (“In nome dei pubblici ministeri. Dalla Costituzione a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”, ed. Mondadori, a cura di Carlo Panella e Gennaro Caravano”). C’era anche Piero Tony, già procuratore capo di Prato ora in pensione, autore del j’accuse “Io non posso tacere-confessioni di un giudice di sinistra” (ed. Einaudi), la storia, già nota a questo giornale, di un magistrato che a un certo punto non ne ha potuto più di fare finta di niente davanti alla gogna generalizzata a mezzo stampa, ai processi mediatici, al protagonismo di alcuni pm e alla cosiddetta supplenza politica di certa magistratura.

 

“Sono mature le condizioni per aprire una discussione pubblica ampia sul ruolo del giudice in prospettiva futura, nell’ottica di un recupero dell’equilibrio nei rapporti tra politica, media e giudici?”, si è chiesto Fiandaca, partendo proprio dai libri di Tony e di Gargani, e rispondendosi purtroppo con un no: “Il quadro politico generale non è ancora sufficientemente coraggioso”, ha detto, né aiuta “l’atteggiamento di un’opinione pubblica” che sembra sempre in attesa della punizione come mezzo di risoluzione dei problemi, come dice Violante quando parla della suddetta “società giudiziaria”, la stessa che cede all’“impressione popolare unanime” che allarma Luigi Berlinguer per la sua abitudine all’“inevitabilità del giudizio politico e morale” prima di tutto.

 

[**Video_box_2**]Non è solo un problema italiano, dice Violante, anzi è un dilemma internazionale di questi giorni: “Le democrazie stanno come mostrando la corda”, dice. Devono “essere trasparenti”, le democrazie, per rispondere alle richieste dell’opinione pubblica, ma in questa trasparenza auto imposta si fanno più che mai “deboli”, e quando la politica è debole e non riesce a mettere ordine “il potere giudiziario avanza”. In Italia c’è una specificità nella politicizzazione della magistratura, dice Violante alludendo anche ai “partiti politici fondati da ex magistrati come Antonio Di Pietro e Antonino Ingroia”, non particolarmente baciati dalla fortuna, e in questa specificità la “società giudiziaria” punitiva si espande, perché “è più semplice” sentirsi parte di un mondo in cui la punizione fa da palliativo a qualsiasi emergenza. “Dopo la sentenza Mannino”, dice Giuseppe Gargani come prefigurando la sconfitta della posizione “punitiva” a oltranza, “l’antagonismo tra politica e magistratura si è accentuato ma nello stesso tempo è diventato più evanescente come evanescente si sono dimostrate le tesi inquisitorie nel processo. La sentenza Mannino è una sconfitta di Pirro, uno degli ultimi colpi di coda della magistratura politicizzata che perde non solo nel dibattito pubblico ma anche nelle aule di tribunale”. E Fiandaca, già critico feroce del processo sulla “Trattativa stato-mafia”, prende come spunto il libro di Gargani, in cui si parte dalla Costituzione del 1948 (per individuare le radici del mancato sistema di checks and balances), per rintracciare il legame invisibile tra ieri e oggi. Nel libro si parla di un vecchio articolo del 1983 in cui Gherardo Colombo, ex pm di Mani Pulite, disegnava quello che secondo lui (allora) era il ruolo del magistrato. Un ruolo, dice Fiandaca, di controllo preventivo di legalità, un ruolo quasi pedagogico che, come modello, “è sopravvissuto fino a oggi”.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.