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Scontro di civiltà sulla giustizia

Claudio Cerasa

Perché questo giornale è orgoglioso di non pubblicare la spazzatura delle intercettazioni - di Claudio Cerasa

Passati alcuni giorni, a bocce ferme, è doveroso mettere tutto insieme. Rewind. L’oscena pubblicazione delle inutili e pruriginose intercettazioni tra Silvio Berlusconi e Gianpaolo Tarantini.  L’incapacità per molti giornalisti e molti magistrati di saper distinguere una pettegola conversazione rubata da un capo di  imputazione. La confusione tra materiale probatorio e materiale da rotocalco. L’utilizzo dei tabulati telefonici come nuovo definitivo  strumento per dare ai magistrati la possibilità di lavorare per far  rispettare la moralità e non solo la legalità. La scelta dei grandi  giornali di utilizzare le proprie pagine come una buca delle lettere,  o peggio uno sciacquone giudiziario, e non come strumento con cui informare e formare i propri lettori. L’incapacità delle gazzette  delle procure di trattenersi dall’infilare in modo gratuito nel  ventilatore tonnellate di ottimo sterco (giù le mani dal Pupone). La tentazione del governo di riequilibrare il piccolo affronto rivolto  alla magistratura con la legge sulla responsabilità civile regalando  ai magistrati (vedi le modifiche al falso in bilancio) nuovi strumenti  per agire con sempre maggiore discrezionalità all’interno dei  processi. La giustificazione ridicola (“Ma non ti preoccupare, non  cambierà nulla, alla fine pagherà lo stato, i magistrati saranno pur  sempre giudicati da altri magistrati”) offerta in privato da alcuni esponenti del governo di fronte alle critiche dell’Anm sugli effetti  drammatici che potrebbe avere sulla magistratura l’approvazione di una  legge sulla responsabilità civile. E infine – ma potremmo continuare  per ore, per giorni, per mesi – l’assurdo principio di voler aumentare i tempi della prescrizione in un paese come il nostro dove la  lunghezza dei processi è di per sé uno degli elementi centrali  dell’ingiustizia del sistema giudiziario. Scusate, ma ci siamo un po’ rotti le palle.

 

Il punto ci sembra semplice e lineare. La giustizia italiana si  presenta al paese come un mosaico con una grande crepa al centro, che  coincide con il disgustoso mondo del processo mediatico. Di fronte a ciò che si osserva in questi giorni, tra sputazzamenti vari, fango, intercettazioni date in pasto ai giornalisti, continue violazioni  della privacy, la chiave per capire quello che sta succedendo non è la battaglia scema tra chi dice che i magistrati che sbagliano devono essere puniti e chi invece rivendica la sostanziale impunità della  casta – perché c’è qualcuno, a parte l’Anm, che sostenga che sia possibile che un magistrato che sbaglia non debba pagare? E c’è  qualcuno che può dire che da quando è stata introdotta la legge Vassalli, negli ultimi ventotto anni, i magistrati hanno sempre pagato  per i loro errori giudiziari? A domanda diretta del direttore di questo giornale al presidente dell’Anm, l’onorevole Rodolfo Sabelli come provocatoriamente lo chiama Roberto Giachetti, il dottor Sabelli  ha ammesso di non sapere un solo nome di un solo magistrato condannato  negli ultimi ventotto anni per dolo o colpa grave.

 

[**Video_box_2**]No, il punto non è questo. La vera battaglia culturale che si combatte  oggi attorno alla giustizia è invece un’altra. Da una parte c’è chi  considera uno schifo sputtanare a mezzo stampa qualcuno senza pagarne le conseguenze, chi vomita di fronte alla continua violazione della  privacy messa in scena dalle intercettazioni; chi insiste a denunciare  un incredibile squilibrio dei poteri, tra politica e magistratura; chi gode quando la politica sceglie di sanare questo equilibrio; chi apprezza che la parola garantismo venga utilizzata non come un modo  per difendere i propri amici da qualche indagine ma come un principio costituzionale semplicemente da rispettare; chi di fronte all’utilizzo  strumentale di un’inchiesta si ribella e si incazza; chi di fronte a  un magistrato che utilizza la sua attività da magistrato per fare politica si indigna e non ci sta; chi di fronte a un processo  costruito sul nulla non si ricopre gli occhi di fette di prosciutto;  chi pensa che i magistrati debbano applicare le leggi e basta, senza  proporle e senza avere la presunzione di essere potere legislativo oltre che giudiziario; chi pensa che c’è qualcosa di anormale, se c’è una magistratura che da vent’anni e più dice che ogni riforma della  magistratura è un attacco alla magistratura; chi, ancora, pensa che  non sia doveroso che un magistrato che con dolo o colpa grave calpesta  i diritti fondamentali di un cittadino violando manifestamente la legge o travisando macroscopicamente fatti o prove vada espulso senza diritto di reintegro; chi pensa che costruire inchieste e indagini con il sentito dire, con le impressioni più che con le prove, sia un atto da denunciare non da assecondare; chi pensa che il giornalista ha il diritto di pubblicare quello che è presente in un fascicolo giudiziario non coperto da segreto ma ha il dovere di distinguere il cioccolato dal letame.

 

E infine – come facciamo in questo giornale – chi pensa che non pubblicare un’intercettazione priva di rilievo penale, e che sputtana qualcuno che magari non c’entra nulla con l’indagine, è una scelta che non farà guadagnare copie, ma farà di certo guadagnare un po’ di dignità. Da una parte c’è chi la pensa così. Dall’altra parte c’è invece chi pensa che tutto quello che abbiamo elencato sia solo un modo per stare dalla parte dei furfanti. A volte, pensandola con i principi che abbiamo elencato, si potrà anche finire per difendere qualcuno che si dimostrerà essere un furfante. Ma ne sarà comunque valsa la pena. Perché, parafrasando Ligabue, per chi viene sputtanato senza una ragione valida per essere sputtanato, semplicemente non va più via l'odore del cesso. E se leggete questo giornale sapete già da che parte stiamo. Non contro i magistrati. Ma contro chi utilizza i processi e le indagini con lo stesso criterio con cui si utilizza un ventilatore per sparare spazzatura addosso a qualcuno.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.