Estremisti dello Stato islamico (foto LaPresse)

Il terrorista tipo

I fattori economici non c’entrano con la radicalizzazione dei giovani americani, dice l’Fbi. C’entra l’islam - di Mattia Ferraresi

Roma. La sezione antiterrorismo dell’Fbi ha inchieste aperte in tutti e cinquanta gli stati americani per scovare jihadisti in atto o in potenza. Circa 180 cittadini americani hanno lasciato il paese – o hanno tentato di farlo – per unirsi allo Stato islamico; molti altri si sono radicalizzati nelle loro convinzioni e, davanti a schermo e tastiera, hanno immaginato o pianificato attacchi sul suolo americano. L’inizio del processo a Dzhokhar Tsarnaev, l’attentatore di Boston, ci ricorda che in alcuni casi i fanatici progetti si sono realizzati. L’intelligence americana sta sovrapponendo tutti i casi alla ricerca del profilo del jihadista americano, per tracciare un tipo sociologicamente identificabile e così cogliere un pattern, una tendenza nel processo di affiliazione al terrorismo.

 

Quello che l’Fbi ha scoperto nella sua indagine è che il profilo che stava cercando non esiste. Gli aspiranti terroristi americani vivono nelle grandi città e nei paesi rurali, sono ricchi e poveri, sposati o single, sono figli d’immigrati che covano risentimento verso la patria adottiva oppure ragazzi assimilati di seconda generazione, vivono segregati in comunità omogenee o nei quartieri misti della middle class, sono cresciuti in famiglie religiose o secolarizzate. Che cosa unisce una diciannovenne del Colorado che decide di sposarsi con un presunto jihadista incontrato su Facebook a un ragazzo della classe media californiana che su Google impara come costruire una bomba con una pentola a pressione? Cos’hanno in comune i tre ragazzi di Brooklyn arrestati poco prima di partire per la Siria e il ragazzino di diciassette anni che è stato fermato in Virginia per avere aiutato un uomo a unirsi allo Stato islamico? Nulla, se non la giovane età, “un tono di ribellione giovanile”, come dice Karen Greenberg, direttrice del Center for National Security alla Fordham University.

 

La settimana scorsa il capo della divisione antiterrorismo dell’Fbi, Michael Steinbach, ha detto in un’audizione al Congresso che “un fatto interessante fra le persone sulle quali indaghiamo è l’assenza di un profilo preciso. C’è molta varietà fra quelli che per una ragione o per l’altra esprimono l’intenzione di danneggiare gli Stati Uniti”. Nelle valutazioni dell’Fbi non c’è traccia dello schema veteromarxista con cui si collega la radicalizzazione alla povertà, al degrado sociale, non ci sono spiegazioni di impronta postcoloniale, i ragazzi americani non pensano a unirsi allo Stato islamico per ribellarsi all’occidente oppressore o al capitalismo che genera diseguaglianze economiche. Il fattore religioso, qui, è la struttura, non una sovrastruttura. Le indagini dell’Fbi smentiscono  implicitamente il pregiudizio culturale che c’è dietro la versione offerta qualche settimana fa da Marie Harf, portavoce del dipartimento di stato, in un’intervista alla Msnbc: i militanti islamisti sono mossi anche dalla “mancanza di opportunità di lavoro”, spiegava. Lo diceva, nel frangente, in relazione a Mohamed Emwazi, noto come Jihadi John, il tagliagole britannico nato in Kuwait. Emwazi però non ha mai avuto particolare familiarità con la povertà, l’emarginazione o il disagio delle periferie, ma è cresciuto in una famiglia della classe media e si è laureato in Ingegneria informatica. Vale anche per molti dei ragazzi americani che vogliono mettersi sulla strada del jihad.

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