Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti

Rivoltate quelle banche

Simon Nixon

Gli effetti nefasti del bancocentrismo rendono l’Italia un paese tossico. Serve una rivoluzione culturale tra banchieri e imprenditori oppure i massimi sforzi di Draghi saranno inutili, dice il Wall Street Journal.

Da quando la Federal reserve ha concluso il suo programma di Quantitative easing (Qe o allentamento quantitativo), si sono fatte più insistenti le esortazioni affinché la Banca centrale europea avvii un suo programma di acquisto di titoli pubblici su larga scala. Molti economisti concordano con la visione dell’ex presidente della Fed, Ben Bernanke, ossia che negli Stati Uniti il Qe ha funzionato nella pratica ma non in teoria. In Giappone il Qe più aggressivo mai messo in campo non ha funzionato né in pratica né in teoria, e la scorsa settimana la Bank of Japan ha deciso che forse non è stato aggressivo a sufficienza. L’allentamento quantitivo in Eurozona potrebbe invece avere successo? L’Italia è un test cruciale. La terza economia dell’Eurozona sta soffrendo per una combinazione tossica di crescita anemica e un debito pari al 135 per cento del pil. L’economia italiana è cresciuta meno dell’1 per cento in media negli anni precedenti la crisi e ora è probabile uno scivolone in recessione per la terza volta in sei anni. Le condizioni del credito continuano a deteriorarsi.

 

Se il Qe può soccorrere l’Italia, allora potrà soccorre l’Eurozona. Eppure è difficile vedere cosa il Qe possa fare per l’Italia. Per capire perché, guardate al sistema bancario. E’ il principale canale attraverso cui deve funzionare qualsiasi stimolo monetario, dato che l’Italia è una delle economie più dipendenti dalle banche nell’Eurozona. La mole dei prestiti bancari è pari al 53 per cento del pil, più di Francia e Germania. I prestiti bancari rappresentano il 40 per cento delle passività finanziarie complessive (patrimonio netto così come i debiti), a fronte del 15 per cento negli Stati Uniti e del 23 in Francia, secondo la Banca d’Italia. Purtroppo i recenti e approfonditi esami sulle più grandi banche dell’Eurozona hanno confermato i sospetti del mercato: il sistema bancario italiano è il più debole dell’area. La Bce ha concluso che le banche italiane avevano sottovalutato le svalutazioni di 12 miliardi di euro. Nove delle quindici banche esaminate avevano una carenza di capitale al dicembre 2013 e quattro hanno tuttora un deficit di 3,1 miliardi. Questa conclusione è stata particolarmente imbarazzante per la Banca d’Italia. La Banca centrale aveva insistito sulle sue capacità di supervisore particolarmente prudente, che non ha bisogno di esperti esterni a dirle come deve fare il suo lavoro. In realtà gli stress test hanno mostrato che il sistema bancario italiano era, almeno fino a poco fa, gravemente sottocapitalizzato e pertanto limitato nella sua capacità di elargire credito all’economia.

 

[**Video_box_2**]Gli stress test della Bce hanno risolto i problemi di capitale delle banche? Difficile dirlo, giacché la Bce ha esaminato le 15 maggiori banche sulle 680 totali. Inoltre, gli stessi ostacoli che impediscono alle banche più grandi di procedere ad aumenti di capitale rappresentano una sfida ancora maggiore per le banche più piccole. Un problema del sistema bancario italiano è la redditività molto bassa, un riflesso dell’avere estese reti di filiali, grandi portafogli di crediti esistenti con basso margine, la più alta tassazione a livello europeo e ostacoli giuridici che limitano il taglio dei costi. Un altro problema è la governance. Le banche italiane sono in genere controllate dalle fondazioni, enti no profit assoggettati agli interessi politici locali che non si fanno troppe remore nell’usare il loro peso in consiglio di amministrazione per perseguire i propri scopi, incluso quello di ostacolare le richieste che gli farebbero sborsare denaro. Tutto ciò, vista la pressione della crisi, sta cominciando a cambiare nelle banche quotate in Borsa. La fondazione che controllava il Monte dei Paschi, la terza banca italiana, ha ridotto la sua quota azionaria dal 30 al 2,5 per cento quest’anno – sebbene conservi tuttora il potere di nominare il presidente. Una legge che consente agli azionisti delle numerose casse di risparmio, le “popolari”, di avere lo stesso potere di voto in assemblea – senza riguardo per quante azioni possiedono – continua poi a essere un impedimento per le ricapitalizzazioni. La Spagna ha spazzato via regole analoghe per le sue casse di risparmio, aprendo la strada a un necessario consolidamento. Finché l’Italia non adotterà simili riforme, un sistema bancario poco capitalizzato, appena profittevole, faticherà a fornire credito all’economia, indipendentemente da quanti soldi la Bce potrà pompare nel sistema.

 

Ma il capitale delle banche è solo una parte del problema. La pressione sulle banche per ridurre i loro bilanci arriva anche dal lato della raccolta. All’inizio della crisi, le banche italiane facevano affidamento sul mercato interbancario per 850 miliardi di finanziamenti; dopo sei anni di sforzi, sono riuscite a ridurre la quota a 550 miliardi, la maggiore parte elargiti dalla Bce. Nessuna banca, per quanto i fondi della Bce siano a buon mercato, vuole dipendere da Francoforte per finanziare le sue attività principali. Il nuovo programma lanciato dalla Bce di acquisto di Asset backed securities potrà in una certa misura alleggerire i bilanci, ma l’unica soluzione di lungo termine al problema dell’approvvigionamento è liberare il sistema bancario da una montagna di sofferenze da 320 miliardi, un livello estremamente alto pari al 16 per cento dei crediti in circolazione. Ciò richiederebbe due cose che attualmente in Italia non esistono. La prima è un efficiente regime di insolvenza che permetta alle aziende sane di ristrutturare velocemente il loro debito sicché possano investire e crescere di nuovo, pur consentendo alle società fallite di liquidare gli asset. […] Il secondo requisito è la capacità di attrarre capitale di rischio (equity finance) sia per iniettare soldi freschi in imprese efficienti ma sovraindebitate, sia per comprare asset ristrutturati dai bilanci delle banche. Tuttavia molte aziende sono diffidenti verso gli investitori esterni che a loro volta restano cauti a prendere rischi in Italia.

 

Il private equity equivale soltanto allo 0,2 per cento del pil in Italia, la metà del livello raggiunto in Francia e un quinto rispetto al Regno Unito, secondo Banca d’Italia. In realtà è questo il vero problema italiano. L’economia è dominata da piccole aziende famigliari con un’alta leva finanziaria, la maggior parte delle quali troppo indebitate per chiedere altri prestiti. Ciò che realmente manca non è il capitale bancario quanto quello societario. Ma questo non è un problema che il  Qe può risolvere. E’ necessaria una rivoluzione culturale.  

 

Copyright Wall Street Journal. Per gentile concessione di MF/Milano Finanza

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