Roberto Nicastro

Liberate il credito

Stefano Cingolani

L’ossessione per stabilità e nuove regole (vedi G20) frena le banche. Parla Nicastro, il dg di Unicredit.

Milano. Crescita nella stabilità è il mantra che sarà ripetuto sabato a Brisbane, in Australia, dai governi del G20. Ma che succede se i due termini entrano in contraddizione? Non è una domanda teorica, al contrario. Non è stato ancora assorbito lo choc degli stress test della Banca centrale europea ed ecco apparire un nuovo spettro. Si chiama Tlac e non è il capo di una tribù tartara: si tratta di un acronimo (T.L.A.C. cioè Total Loss Absorbing Capacity) che indica il capitale necessario a una banca per assorbire le perdite ed evitare salvataggi di stato. Il Financial stability board proporrà al G20 di aumentarlo fino a una quota del 25 per cento. La misura investe le 29 banche globali che hanno impatto sistemico e in soldoni implica di trovare nei prossimi anni qualcosa come 300 miliardi di dollari. Tuttavia, il mercato già sconta che l’aumento di capitale scenderà per li rami del sistema sino a coinvolgere la maggior parte delle aziende creditizie. E rischia di diventare un boomerang.

 

Nel gruppo di testa c’è una sola banca italiana, Unicredit, la più grande e internazionalizzata. Il direttore generale Roberto Nicastro, conversando con il Foglio, non nasconde la sua perplessità: fin dove può arrivare l’ossessione per la stabilità, fino al punto da ostacolare lo sviluppo? Troppe regole non finiscono per ingessare il mercato favorendo le scappatoie? E non si stanno usando due pesi e due misure? Alle banche commerciali, quelle che forniscono il credito alle famiglie e alle imprese, s’impone un corsetto, tuttavia le regole andrebbero allargate anche alle banche che vivono di trading con i soldi dei depositanti e allo shadow banking che continua a crescere in pieno far west. “Bisogna proteggere i risparmiatori che ci affidano i loro quattrini, e nello stesso tempo i contribuenti – dice Nicastro – Ma anche gli azionisti e chi prende il denaro per investirlo, per lavorare, per aprire nuove attività. Dal 2007 a oggi abbiamo avuto due norme robuste a settimana, un totale di 5-600 alle quali sottostare. Spesso, però, le nuove regole hanno tutelato uno stakeholder per volta, confliggendo tra loro. Per esempio più capitale e prezzi più bassi sono in contrasto…”.

 

Secondo Nicastro, direttore generale di Unicredit, “dovrebbe aprirsi una stagione di consolidamento e armonizzazione delle regole così da far funzionare in modo coerente quelle esistenti”. Siamo sicuri che i nuovi parametri eviterebbero un’altra crisi finanziaria? In coincidenza con Basilea I abbiamo assistito al fallimento delle banche scandinave e delle casse locali negli Stati Uniti. Basilea II entra in vigore nel 2007 e poi è seguito il crollo dei mutui subprime. Nel 2011 Basilea III con la valanga che rischia di far saltare l’euro. Sembra la parabola della lancia e dello scudo.

 

Nicastro riconosce che “la deregulation non ha funzionato e non ha funzionato nemmeno l’autoregolamentazione. Troppo diversi gli attori, i paesi, gli interessi. E nessuna autorità che potesse imporre sanzioni”. Dunque, i banchieri debbono fare l’autocritica, ma quale è stato l’errore principale? “Abbiamo sottovalutato in generale il rischio liquidità e ne abbiamo sperimentato le conseguenze già nell’estate 2007 con la crisi dei mutui subprime, quando l’interbancario si è svuotato ed è crollata la fiducia. In Italia si è prodotto un eccesso di prestiti rispetto ai depositi pari a 3-400 miliardi, quindi bisognava ricostituire un equilibrio tra il denaro raccolto e quello erogato”.

 

Salvate molto spesso (non in Italia) con denaro pubblico, non sembra che le banche siano cambiate. “La vera questione è quale banca vogliamo”, dice Nicastro. “Secondo alcuni deve essere una utility. Se questo vuol dire che per dare prestiti basta aprire i rubinetti dico di no. Se utility significa  disegnare le regole a 360 gradi tenendo conto di tutti gli stakeholder allora è un buon punto di partenza”. Ma i supermercati finanziari continuano a funzionare esattamente come prima della crisi. “Beh, ora il quadro è a macchia di leopardo, con molta eterogeneità tra operatori. Noi da almeno quattro anni abbiamo imboccato un’altra strada, vogliamo essere fino in fondo banca commerciale, che finanzia l’economia reale. E ci siamo riorganizzati in funzione di questa strategia. Tuttavia non si può tornare completamente indietro. Si fa presto a dire break-up. Su quale base, per paesi? Allora come si sostiene il commercio internazionale, il principale motore di crescita rimasto? Per funzioni e per prodotti? Attenti a non favorire oligopoli sui mercati dei capitali. Ecco perché siamo per una soluzione intermedia: consentire alle banche commerciali di operare in prodotti finanziari fino a una certa soglia di attivi ponderati, per esempio il 25-30 per cento degli impieghi”.

 

Il doppio standard in Europa

 

Le divergenze sul mestiere di banchiere si rispecchiano nella contraddizione tra Basilea III che, per tutelare depositanti e contribuenti, chiede alle banche più capitale e più liquidità, e Mifid (la direttiva europea per il mercato finanziario integrato) che intende proteggere il cliente diversificando il suo portafoglio. E’ possibile garantire entrambi?

 

[**Video_box_2**]“In teoria sì, nel lungo periodo. La stagnazione – aggiunge Nicastro – crea uno spiazzamento tra capitale e credito innescando quel circolo vizioso in cui ci troviamo oggi, che non si spezza mettendo le ganasce, ma liberando le risorse congelate. Io credo più all’intensità della vigilanza da parte dei supervisori che a norme rigide le quali, poi, non sono applicate tutte allo stesso modo. Pensi alla Cina: che fa, adotta i criteri del Financial stability board? Forse in futuro, non oggi”.

 

Un doppio standard. Lo si è visto anche negli stress test della Banca centrale europea. “La Bce non poteva fare altrimenti in questi nove mesi. Oltretutto, il credito è più facile da misurare rispetto ad attività finanziarie di vario tipo. Tuttavia, occorre portare più attenzione anche alle attività diverse da quelle creditizie e ai rischi che esse generano”. Vien voglia di dire: se quelle banche sono avvantaggiate perché non fare come loro? “Da parte nostra non c’è alcun ripensamento. Abbiamo scelto di finanziare le attività produttive e non cambiamo certo direzione. Anche per questo vogliamo che il dibattito si sposti dalle regole astratte alla dinamica concreta dell’economia, al coniugare stabilità e crescita. Ecco, al concetto di pura stabilità sostituirei quello di sostenibilità. Forse dovremmo cambiare anche il nome al Fsb, anziché Financial stability board lo chiamerei Financial sustainability board”.

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