Prima di rifare le banche, rifate i banchieri. Le idee choc di Mediobanca

Stefano Cingolani

Le banche soffrono di mania di grandezza (in questi anni sono cresciute più delle compagnie multinazionali dell’industria) e non si sono ancora emendate dai loro peccati originali. Quanto al banchiere, è un mestiere da reinventare

Roma. Le banche soffrono di mania di grandezza (in questi anni sono cresciute più delle compagnie multinazionali dell’industria) e non si sono ancora emendate dai loro peccati originali. Quanto al banchiere, è un mestiere da reinventare. Sono le conclusioni drastiche dell’analisi condotta da Mediobanca sulle principali banche internazionali presentata ieri pomeriggio alla Fondazione Ugo La Malfa da Gabriele Barbaresco il responsabile dell’area studi che ha preso il testimone da Fulvio Coltorti. Ogni anno i ricercatori di Piazzetta Cuccia passano al setaccio i bilanci delle grandi banche e in primavera ne pubblicano i risultati che vengono poi aggiornati in autunno. Grafici e tabelle questa volta sono stati elaborati secondo un filo conduttore che s’inserisce nel dibattito aperto dagli stress test, dalle nuove richieste che la Banca centrale europea ha presentato e del progetto di direttiva europea che vorrebbe spaccare i Moloch bancari.

 

Per arrivare subito alle conclusioni, anche Barbaresco è d’accordo che sarebbe meglio muoversi verso un modello che lui chiama di “narrow banking”. In sostanza, dividere l’attività creditizia vera e propria dalle operazioni puramente finanziarie le quali oggi riguardano soprattutto i contratti derivati che continuano a svolgere un ruolo esorbitante pari al 30 per cento dell’attivo e a 9 volte il patrimonio, con differenze notevoli da paese a paese: l’Italia ha una quota molto bassa al contrario della Germania e della Svizzera che superano anche gli Stati Uniti. Se prendiamo Deutsche Bank e Unicredit, tra le 19 sistemiche, vediamo che si collocano al lato opposto: la prima banca tedesca fa soprattutto finanza pura mentre i prestiti sono una quota minore del suo bilancio, esattamente al contrario della prima banca italiana. In teoria, Deutsche dovrebbe essere molto più a rischio, ma non è così per il regolatore: un po’ perché non possiede un criterio omogeneo e affidabile per valutare i derivati e un po’ perché la stagnazione e i bassi tassi d’interesse rendono l’attività creditizia più difficile e meno redditizia.

 

Il banchiere, dunque, è diventato un finanziere; ma mentre un hedge fund rischia capitali propri, lui mette in gioco i quattrini dei depositanti. Sembra logico, allora, chiedere che le diverse funzioni siano distinte. Come e fino a che punto è da discutere. Attenzione, però, non può sentirsi al sicuro né chi si è concentrato sulla clientela locale (e qui il pensiero va alle popolari) né chi ha scelto un profilo di sistema nazionale (come Intesa). Il primo perché finisce avviluppato nelle sabbie mobili delle clientele (ciò vale per l’Italia come per la Spagna o la Germania), il secondo perché subisce fino in fondo la crisi del proprio paese senza avere compensazioni multinazionali (la Grecia e l’Italia lo dimostrano).

 

L’indagine di Mediobanca spiega che le banche americane si sono ristrutturate prima e meglio di quelle europee nelle quali s’annidano i rischi peggiori sia per colpa della recessione sia per la loro più bassa efficienza. Nel 2008 le banche americane hanno svalutato il 50 per cento dei loro ricavi, uno choc dal quale si sono riprese più rapidamente. Quelle europee hanno messo in perdita una quota massima del 27 per cento, ma si trascinano la crisi come una febbre malarica.

 

[**Video_box_2**]Il regolatore (in Europa la Bce) arriva in ritardo. Intendiamoci, di norma segue non anticipa il mercato, ma questa volta appare privo di strumenti, quindi vede l’albero non la foresta e finisce per concentrarsi su quel che sa valutare, cioè il rischio di credito. Ovvero considerando alla stessa stregua le banche che si sono salvate da sole o quelle pagate dai contribuenti. Di qui il responso in parte paradossale sull’Italia. Ma c’è di più. L’idea di evitare il “too big to fail”, aumentando ancora il capitale, finisce per penalizzare chi fa credito e non chi fa finanza. In questo quadro e di fronte alla forte opposizione al break-up che viene da Germania, Francia e Gran Bretagna, la risposta in Europa sarà un aumento della concentrazione, all’interno dei singoli paesi, ma anche crossborder. In Italia ci sono parecchie prede appetibili: Carige è già nell’orbita dello spagnolo Banco Santander, per Mps si parla della francese Bnp, ma è solo l’inizio. Un processo quasi fisiologico per un paese che conta oltre 600 banche e che s’è cullato nell’illusione di essere protetto dall’insularità del suo sistema finanziario. Adesso la sfida è lanciata e chiama in causa necessariamente anche i poteri pubblici e la stessa Banca d’Italia.

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