Due euro is meglio che one

Ragioni tedesche per spingere Berlino fuori da quest'euro ammaccato

Marco Valerio Lo Prete

Due euro is meglio che one? L’idea delle due monete, i benefici per la crescita e pure per l’ideale europeista. Parla Blankart (Università di Berlino).

“La Germania deve uscire per prima da questo euro”, dice al Foglio Charles Blankart, economista della Humboldt, la più antica università di Berlino. E’ lo stesso concetto che aveva consegnato negli scorsi giorni al Foglio un pezzo da novanta della finanza italiana, in quel caso però sotto forma di previsione e non di auspicio. Ed è anche la tesi dell’economista americano Allan Meltzer, liberista a tutto tondo e presidente della Mont Pelerin Society, raccolta ieri sempre su queste colonne. Blankart però, svizzero di nascita, è tedesco per formazione e carriera accademica; è stato consigliere del ministero delle Finanze di Berlino e per mestiere si confronta regolarmente con personalità dell’establishment europeo come Otmar Issing, già capo economista e membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Il punto di partenza del suo ragionamento è il seguente: “L’euro è in crisi da quattro anni e un meccanismo di autocorrezione di tale crisi non è ancora all’orizzonte. L’Eurozona non soffre la mancata capacità di aggiustamento dei mercati, ma la mancata capacità di aggiustamento dei governi”.

 

L’idea è che, una volta che Berlino avrà abbandonato l’euro, plausibilmente non in solitaria ma assieme ad altri paesi nordici con economie simili, “allora altri paesi potranno svalutare, riguadagnare competitività a livello industriale e poi eventualmente tornare ad aderire a una moneta unica”. Blankart ritiene che due Banche centrali per due aree valutarie si farebbero “concorrenza” tra loro “per avere una buona reputazione”, mentre gli stati “percepirebbero con più forza il costo delle mancate riforme”. Tutto ciò potrebbe giocare a favore di una riunificazione delle due valute in futuro, dopo un periodo transitorio a due velocità. L’economista però, rivendicando “un approccio hayekiano, dunque non pianificatore”, o “popperiano, dunque dell’apprendimento attraverso prove ed errori”, preferisce ragionare sull’attualità: “Come dimostrano la stessa unificazione italiana e la persistente distanza tra nord e sud del vostro paese – dice Blankart che parla anche un discreto italiano – un’unione monetaria non può automaticamente spingere all’omogeneizzazione di due economie troppo diverse. Nemmeno in 150 anni”.

 

Blankart ritiene che una svalutazione dell’euro debole rispetto a quello forte sia più sostenibile della “svalutazione interna attuale che si deve confrontare con prezzi più vischiosi nei singoli paesi, come quelli dei salari, e dunque con una opposizione politica più forte”. Torniamo però alla Germania: se l’attuale configurazione della moneta unica l’avvantaggia – lo dicono economisti di ogni scuola di pensiero, citando per esempio i bassi costi di indebitamento e la parziale sottovalutazione dell’euro – perché dovrebbe uscire per prima? Innanzitutto perché, dal 1992 a oggi, sono stati progressivamente smantellati i presupposti su cui l’Unione monetaria era fondata: “Il tradimento del Trattato di Maastricht del 1992, con il divieto di salvataggio degli stati e di monetizzazione del debito, iniziò già nel settembre di quell’anno con il presidente francese François Mitterrand che in televisione smentiva l’indipendenza della Bce dalla politica – dice l’economista esperto di Public choice – Poi ci furono le pressioni di Jacques Chirac per eleggere il francese Trichet presidente della Bce a scapito del legittimo presidente, l’olandese Duisenberg. Infine, nel 2010, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy abolirono il principio ‘no bailout’ salvando la Grecia. Così pure il Fiscal compact è carta straccia”. Tramontati i princìpi di Maastricht, è venuto a mancare quello che Blankart chiama “l’uovo o emulsionante” che rendeva concepibile l’unione di “Germania e Francia, cioè olio e aceto”.

 

[**Video_box_2**]Dalla rivoluzione del 1789 in poi, infatti, la Francia ha sviluppato un sistema fiscale sempre più centralizzato; nel tentativo di soddisfare troppi interessi particolari, “per Parigi il gettito fiscale non è mai considerato sufficiente. In Germania, le resistenze incrociate dei 16 Länder incentivano invece una competizione e un calmieramento della spesa”. Queste sono le ragioni di principio pro uscita dall’euro. Poi, secondo Blankart, c’è un discorso di convenienza: “In Germania, come ovunque, esistono gruppi d’interesse diversi. All’estero si sentono di più le ragioni degli industriali che ovviamente sono contenti dello status quo – dice l’economista dell’Università di Berlino – Ma per consumatori e contribuenti il discorso è molto diverso, tuttavia questi due gruppi hanno maggiori difficoltà a organizzarsi e farsi sentire”. I consumatori, secondo Blankart, scontano importazioni più onerose per colpa dell’euro debole. Poi i tassi d’interesse bassi penalizzano ogni forma di risparmio: “Le assicurazioni tedesche, costrette a comprare più bond statali che azioni, non possono più garantire premi e rendimenti decenti. Sono a terra”. Blankart ammette che le perdite del contribuente tedesco, per ora, sono solo potenziali, ma esistono: “Il bilancio della Banca centrale europea si è deteriorato. In caso di perdite, se le dovrebbe accollare in larga parte la Bundesbank che, fino a prova contraria, è dei cittadini tedeschi”. Infine ci sono “costi non misurabili”, ma per Blankart altrettanto gravi ed evidenti: “Sfiducia e inimicizia crescenti tra popoli come quello italiano e tedesco, per esempio”. Tutti buoni motivi per separare l’Europa del nord da quella meridionale, consensualmente e con la possibilità di rincontrarsi più in là. “Per ora, nella politica ufficiale tedesca, parlarne è tabù. Ma le cose stanno cambiando”, conclude Blankart.