Angela Merkel (foto LaPresse)

Caro euro, Auf Wiedersehen

Marco Valerio Lo Prete

Ipotesi: Berlino un domani sceglie di farsi un euro-marco forte per sé e pochi altri. La stagnazione prolungata, le occhiatacce del Tesoro statunitense verso la Germania, la “nuova Questione tedesca” secondo Kundnani. Le idee di Monti e Arfaras.

Roma. Chissà che non si stia avvicinando il momento in cui sentiremo dire “Auf Wiedersehen” all’euro così come lo conosciamo oggi. A pronunciarlo sarà la Germania, secondo un ragionamento che il Foglio ha sentito fare da un’autorevolissima fonte finanziaria italiana ed europea. Con l’uscita dei primi della classe dalla moneta unica, per ragioni che Berlino farebbe discendere dall’insostenibilità politica dell’euro prim’ancora che da quella economica, si potrebbero creare due sistemi monetari: uno “forte”, quello che l’economista dell’Università di Chicago Luigi Zingales chiamava “neuro” ieri su queste colonne, che accomunerebbe Germania e altri paesi nordici; uno più “debole” che invece terrebbe assieme l’Italia, i paesi mediterranei (o periferici, come dir si voglia), con l’enorme incognita del posizionamento della Francia. L’ipotesi di un euro a due velocità – uno scenario che consentirebbe dunque di mantenere in vita forme di unione monetaria, oltre al mercato unico – perlomeno nel dibattito accademico non è  nuovissima. Nuova invece è l’enfasi con cui questo scenario, teoricamente meno distruttivo dell’uscita di un singolo grande paese come l’Italia dalla moneta unica, si riaffaccia nelle discussioni in questa fase di nuova stagnazione dell’Eurozona. Perché mentre il governo italiano e quello francese rintuzzano le reprimende della Commissione europea sulle loro Finanziarie, il Tesoro americano nei suoi rapporti ufficiali per il Congresso individua per esempio l’Eurozona come il buco nero della crescita globale, andando ben oltre una semplice questione di decimali di deficit in più o in meno.

 

Nell’ultima edizione del rapporto semestrale del Tesoro al Congresso sulle politiche economiche internazionali, la Germania viene citata addirittura 16 volte in 36 pagine. Per Washington, per esempio, è evidente il ruolo frenante di Berlino rispetto a un rilancio della domanda domestica, così come il blocco made in Deutschland di ulteriori interventi espansivi della Banca centrale europea, utili a sventare uno scenario di deflazione che contribuirebbe a gonfiare debiti pubblici e privati nel Vecchio continente.

 

Da qui all’uscita della Germania dall’Eurozona, però, ce ne passa. Nient’affatto, sostiene per esempio Matt O’Brien, columnist dell’Atlantic e collaboratore del Washington Post. O’Brien ritiene che d’ora in poi ogni nuova mossa della Banca centrale europea potrebbe essere percepita come politicamente troppo “costosa” per la cancelliera Angela Merkel: “Draghi potrebbe comunque andare avanti e procedere con il Quantitative easing (o allentamento monetario), che Merkel lo sostenga o meno – ha scritto lunedì scorso O’Brien sul Washington Post – Questo scenario sembra improbabile, però, visto che la Germania metterebbe in dubbio la legalità delle misure e potrebbe arrivare perfino a minacciare l’uscita dall’euro”.

 

[**Video_box_2**]Nel giugno 2012, anche Anatole Kaletsky, editorialista delle pagine economiche del New York Times International, aveva descritto una situazione simile: “Supponiamo che la Merkel rifiuti un qualsiasi compromesso sulla mutualizzazione del debito o sulla monetizzazione dello stesso per mezzo della Banca centrale europea nel caso in cui l’Eurozona fosse investita da una prossima crisi politica o di mercato in uno dei paesi debitori, come certamente accadrà. La risposta ovvia, per i governi dell’area Club Med, sarebbe quella di sottolineare che la Germania è diventata l’ostacolo a una risoluzione della crisi dell’euro”. Alla fine la cancelliera potrebbe essere spinta ad accettare condizioni insopportabili per la sua opinione pubblica, scriveva allora Kaletsky. A quel punto, magari di fronte a un gesto estremo dei banchieri centrali tedeschi che siedono nelle stanze della Bce, “è facile immaginare che l’opinione pubblica tedesca potrebbe chiedere un ritiro immediato”. “Una rottura di questo genere dell’euro attuale, originando da una rivalutazione della valuta tedesca, sarebbe molto meno distruttiva di un ‘break-down’ causato da una svalutazione in Grecia o in Spagna. Nel caso di una rivalutazione in Germania, non ci sarebbe effetto contagio o fuga di capitali come invece ci sarebbero se la Grecia, la Spagna, poi l’Italia e la Francia fossero sbattute fuori dall’euro uno alla volta. Non ci sarebbero cause giudiziarie da parte di creditori contrariati”.

 

“Se la Germania abbandonasse l’Eurozona, i problemi degli altri paesi membri sarebbero in larga parte risolti”, si è spinto a scrivere questa settimana il think tank progressista statunitense Center for Economic and Policy Research:  “L’euro presumibilmente si svaluterebbe rispetto al nuovo Deutschemark, consentendo ai paesi dell’Europa meridionale di riconquistare rapidamente la loro competitività rispetto alla Germania. La riduzione del loro deficit commerciale sarebbe una grossa spinta alla crescita e all’occupazione. E questo potrebbe avvenire senza la distruzione finanziaria che sarebbe causata dall’uscita dall’euro di uno dei paesi meridionali”. Che tutto sarebbe così semplice, è difficile prevederlo. Non foss’altro perché il processo di transizione presenterebbe comunque delle incognite.

 

La novità, però, è che secondo un numero crescente di analisti perfino la Germania potrebbe, per ragioni politiche, essere spinta dagli eventi a concepire nuove forme di convivenza monetaria. Un processo che, seppure non fosse distruttivo come una vera e propria fuoriuscita, resterebbe rivoluzionario. Non si tratta soltanto di una trovata apocalittica. Negli scorsi giorni, durante qualche dibattito a porte chiuse in Svizzera, perfino un ex banchiere centrale di Washington avrebbe ridotto a tre gli scenari possibili per l’Eurozona: primo, Berlino si crea un’unione monetaria per sé; secondo, i capi di governo dell’Eurozona si decidono a passare davvero a un sistema federale (con condivisione di debiti, investimenti e politica monetaria meno rigida); terzo scenario, si continua con il solito tran tran e un misto di stagnazione e deflazione sarebbe allora assicurato.

 

[**Video_box_2**]Il primo scenario sarebbe conseguenza più o meno diretta di quello che Hans Kundnani, nel suo libro di prossima uscita, definisce “il paradosso della potenza tedesca” (“The Paradox of German Power”, Hurst & Co. Publishers). Ecco il paradosso sintetizzato al Foglio da Kundnani, direttore per la Ricerca dello European Council on Foreign Relations (Ecfr): “Un dislivello così evidente tra l’enorme assertività economica e l’assenza di potere militare, quale quella che si registra in Germania oggi, è quasi un unicum nella storia contemporanea”. Lo studioso inglese di origini tedesche sembra prenderla alla larga, ma poi arriva a formulare “una nuova questione tedesca”, la cui analisi è al centro del suo saggio: “La classica ‘questione tedesca’, fin dal 1870, si poneva nei termini seguenti: cosa ne sarà di un paese collocato nel cuore del continente europeo, troppo piccolo per contenere se stesso nei suoi confini ma troppo grande per rispettare il bilanciamento dei poteri dell’area? Oggi c’è una ‘nuova questione tedesca’. Quella classica era di tipo geopolitico, fu risolta con la guerra più di una volta, e non si riproporrà più. Adesso piuttosto, progressivamente ma in maniera crescente da almeno 20-25 anni, cioè dai tempi della riunificazione delle due Germanie, la questione tedesca si esprime in termini geoeconomici”. Il sistema produttivo tedesco, “sia per la sua taglia, sia per la sua interdipendenza con i paesi vicini, sia per gli squilibri che lo caratterizzano, genera instabilità economica.

 

Esattamente allo stesso modo in cui quel paese prima del 1945 generava instabilità politica”. A questo punto interviene l’eventuale scelta di Berlino di modificare radicalmente gli assetti monetari attuali. Kundnani ci ragiona “in astratto”, precisa, perché le stesse “dinamiche concrete” sono difficilmente prevedibili e potrebbero finire per influenzare direttamente la scelta: “Da una parte la creazione di un ‘euro forte’ per Germania e paesi vicini renderebbe ancora più evidente la nuova questione tedesca. Sarebbe la dimostrazione che la moneta unica, nata in origine per contenere il potere politico tedesco, alla fine invece lo ha rafforzato”. Dall’altra parte, invece, per i paesi cosiddetti “periferici”, la creazione di due aree valutarie affiancate “risolverebbe almeno alcuni dei problemi che la ‘nuova questione tedesca’ pone oggi. L’euro-marco, per esempio, non potrebbe essere così sottovalutato come l’euro attuale a fronte della potenza esportatrice di Berlino. Oggi il surplus delle partite correnti tedesche è più imponente di quello cinese. L’Italia sarebbe forse il più grande beneficiario di un ‘euro 2’ parzialmente svalutato”. Non solo, conclude Kundnani: “Anche gli ostacoli attuali a una politica monetaria più espansiva da parte della Banca centrale europea, visti con crescente preoccupazione anche dagli Stati Uniti, verrebbero almeno in parte a mancare”.

 

[**Video_box_2**]Ai paesi periferici effettivamente converrebbe, dice al Foglio l’economista Giorgio Arfaras: “Si avrebbe così una metà del pil europeo presumibilmente con un euro forte, e l’altra metà con un euro debole. Perché mai i tedeschi e seguaci dovrebbero avere una moneta forte e gli altri debole? Perché sono in forte avanzo commerciale con il resto del mondo e con l’altra parte dell’Europa. Per evitare una rivalutazione eccessiva della loro moneta, dovrebbero esportare capitali verso l’estero. Perciò, per non attirare troppi capitali, dovrebbero avere rendimenti minuscoli come quelli di oggi. Si avrebbe così una compensazione finanziaria dello squilibrio commerciale. E dunque, alla fine, potrebbe esserci una domanda dall’estero di titoli dei paesi meno virtuosi. Altrimenti detto, dopo un primo periodo di Btp debole, tornerebbe la domanda estera di Btp”. Poi però Arfaras aggiunge: “Perché mai i tedeschi dovrebbero volere un euro-marco, invece di un euro-euro? Non si capisce bene, non si vede, infatti, quale possa essere il nuovo modello economico che dovrebbe sostenere una scelta di questo tenore strategico”. E ancora: “L’uscita unilaterale della Germania e seguaci, tralasciando se ciò sia possibile in un mondo dove tutti i contratti sono in euro, li riporterebbe nel mondo ante caduta del Muro di Berlino. Non si vedono oggi i vantaggi di essere un paese molto ricco, ma con modesto peso politico. Anche oggi la Germania è un paese molto ricco, e tale resterà, ma ha più peso politico”.

 

Sembra pensarla così anche l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che una volta si autodefinì come “il più tedesco degli economisti italiani”, e che ieri, durante un incontro all’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, è stato sollecitato proprio su quest’ipotesi di scuola: e se la Germania d’un tratto guardasse gli altri stati membri dell’Eurozona e dicesse “Auf Wiedersehen”? “L’Italia ha un peso politico maggiore rimanendo nell’Unione europea e nell’euro. Non solo, ritengo che lo stesso discorso vada fatto per la Germania – sostiene Monti – Credo che sarebbe molto pericoloso se la Germania abbandonasse la zona euro. Sarebbe pericolosamente libera”. Riecco dunque la questione tedesca. Perché in definitiva la prolungata crisi dell’euro, se analizzata con certo distacco, non è soltanto un affare che riguarda i soliti sospetti.

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