Helmut Kohl, cancelliere dal 1982 al 1998, con Angela Merkel e la seconda moglie Maike Richter (foto LaPresse)

Kohl senza freni

Andrea Affaticati

“Quegli stronzi della Ddr” e la Merkel che “non sapeva stare a tavola”. Nelle librerie tedesche le confidenze non autorizzate dell’ex cancelliere.

L’errore madornale di Honecker è stato quello di allentare le restrizioni per i viaggi all’estero. Questo è stato l’inizio della fine, non le candele e le preghiere nella chiesa di Dresda (…)”. Il sistema della Ddr, della Repubblica democratica tedesca è collassato perché Gorbaciov ha dovuto dire al Comecon: “Da noi non avrete più un centesimo. Per cui fate quel che vi pare”. La storia avrebbe preso probabilmente un altro corso, se il grande fratello sovietico non fosse stato completamente al verde. “Se Gorbaciov avesse piazzato qualcuno dei suoi panzer al checkpoint Charlie, vedevi come i duri e puri di Berlino est si sarebbero affrettati a chiudere di nuovo il Muro”. Certo, ci sarebbero state vibrate proteste da parte della comunità internazionale. Ma poi, come era già accaduto con la costruzione del Muro nel 1961, tutto sarebbe tornato come prima. Che piaccia o no: “Nessuno avrebbe rischiato uno scontro bellico, per quegli stronzi della Ddr”. A tracciare, senza andare per il sottile, le vere cause che hanno portato al 9 novembre di 25 anni fa, alla caduta del Muro, è l’ex cancelliere cristiano-democratico Helmut Kohl, il fautore dell’unificazione tedesca, il grande europeista, che in cambio della riunificazione della Germania sacrificò il marco tedesco per la moneta unica. Sono parole di Kohl “unplugged”, registrate in una lunga serie di incontri, iniziati il 12 marzo 2001 e conclusisi il 27 ottobre del 2002. Seicento ore di registrazioni fatte dal ghostwriter storico del cancelliere Heribert Schwan. Dovevano servire per i quattro volumi di memorie dello statista e un diario ex post. Delle memorie al momento sono usciti tre volumi, mentre il quarto e il diario non hanno mai visto la luce, perché nel frattempo committente e ghostwriter hanno litigato. Non solo, poco tempo fa, per parte dei coniugi Kohl, è stato ingiunto a Schwan di restituire anche le 200 cassette. Schwan è convinto che dietro a questa decisione ci sia stata Maike Richter, la seconda moglie, classe 1964, che l’ex cancelliere ha sposato nel maggio del 2008, poco dopo la drammatica caduta (o è stato un infarto?, nessuno lo sa) che lo avrebbe costretto sulla sedia a rotelle e causato gravi problemi di articolazione del linguaggio. E così il 12 marzo di quest’anno un ufficiale giudiziario, accompagnato da collaboratori dell’avvocato di Kohl, si è presentato a casa di Schwan per farsi consegnare le cassette. Solo che Schwan, ogni volta che tornava da un incontro con Kohl, passava le registrazioni alla sorella, la quale le trascriveva. “Trascrizioni che si trovano al sicuro, sparse qua e là per l’Europa”. E da quelle trascrizioni Schwan e il suo collega Tilman Jens hanno ricavato il libro, da poco uscito in Germania, “Vermächtnis - Die Kohl-Protokolle” (“Lascito - I protocolli Kohl”, ed. Heyne). Alla notizia dell’uscita del volume, i Kohl si sono nuovamente mossi per via giudiziaria, chiedendone il ritiro dalle librerie. Questa volta però, almeno in prima istanza, il giudice non ha dato loro ragione.

 

Come è facile immaginare, l’uscita dei “Kohl-Protokolle” non autorizzati ha sollevato un grande polverone. Nei talk show tedeschi si è discusso animatamente della perfidia di Schwan, mentre la stampa internazionale riprendeva i giudizi più cattivi di Kohl, in particolare nei confronti di alcuni suoi più o meno illustri compagni di partito o oppositori. E così il mondo è venuto a sapere che “Merkel non sapeva stare a tavola. L’ho dovuta riprendere ripetutamente”. Che Schröder, invece, era uno “incapace di veri sentimenti di amicizia… freddo come un pesce. E così [freddo] se ne andrà anche tra qualche anno. Se ne andrà, correndo dietro ad affari assai più lucrosi”. Mentre del suo ex ministro degli Esteri Dietrich Genscher dice: “Se fossi morto quattro anni fa, oggi andrebbe in giro dicendo che l’unificazione è stata merito suo”. Questo Kohl unplugged, collerico, dal linguaggio a volte più che colorito, che si viene a conoscere lungo le duecento e passa pagine, ha fatto balzare i “Kohl-Protokolle” subito al secondo posto della classifica dei saggi dello Spiegel.

 

Una chiave di lettura del libro molto più interessante, perché va oltre il facile pettegolezzo, l’ha offerta Thomas Schmid, direttore editoriale del gruppo Welt, sul suo blog www.welt.de/thomas-schmid. “Il vero Helmut Kohl” il titolo. Quello che rende interessante il libro, scrive Schmid, “è che raramente si è potuto osservare così da vicino quanto grandezza e bassezza, saggezza e illusione, acume e confusione mentale possano andare a braccetto. Quest’uomo che ha saputo governare con abilità e astuzia per 16 anni la Repubblica federale tedesca, è un grande, ma non è mai stato un’eminenza. Attraverso queste pagine rivivono gli anni Cinquanta, e un linguaggio da bar. Ed è curioso come questo Kohl senza veli provi evidente piacere nell’esprimersi, a volte, al limite del triviale”.

 

Kohl è stato un formidabile incassatore di colpi bassi. Lui era l’esatto opposto di quel che una parte di Germania, quella Germania che voleva finalmente essere considerata un paese aperto, un paese meno disciplinato e in compenso più allegro, si augurava come cancelliere. Una delle cose di cui Kohl ha sofferto di più è stata l’essere trattato da subito (e per sempre) come “un babbeo”, “un provinciale senz’arte né parte”. Generazioni di caricaturisti e penne affilate sono cresciute e si sono fatte un nome grazie a lui. Ma la caricatura più feroce, quella che non ha perdonato, e dalla quale non si è più liberato, è quella che raffigura il suo volto a forma di “Birne”, pera. “Avete presente come ci si possa sentire? Essere considerato un provinciale che non legge, non sa nulla di nulla. E sì che ‘die Birne’ negli anni Cinquanta aveva studiato anche filosofia”. Ma i dispetti erano iniziati già prima, ai tempi in cui era capo dell’opposizione al Bundestag: “Allora quegli stronzi degli Esteri, ai ricevimenti di stato mi mettevano sempre a un tavolo a parte”. E anche quando aveva preso in mano la guida del governo “per quelli sono sempre rimasto lo scemo del villaggio”. Incassa, ma non ha mai dimenticato. “Schmidt era considerato cittadino del mondo. E anche Brandt era per tutti il cosmopolita. E adesso c’ero io, il contadino della Pfalz”. Il fatto che a Willy Brandt fosse stato conferito il Nobel per la Pace e a lui no, non l’ha mai digerito. Eppure è stato lui l’artefice dell’unificazione. E’ convinto che ci sia stata “un’opposizione feroce per non assegnarmelo”. Certo, ammette lui stesso, a rovinare tutto sono stati i fondi neri. Pensa però anche, di essere stato trattato con troppa durezza.

 

Già, lo scandalo dei fondi neri. Poco dopo la sconfitta elettorale del 1998, si era scoperto che Kohl non aveva dichiarato 2,1 milioni di marchi come finanziamenti per il partito. Kohl si rifiutò sin da subito di fare i nomi dei finanziatori. “Non li ho fatti allora e mai li farò” ribadisce anche negli incontri con Schwan. Ma tiene a ricordare che lui e Hannelore (la prima moglie) erano riusciti a recuperare gli 8 milioni di marchi di ammenda inflitta al partito, e che 700 mila marchi li aveva scuciti di tasca propria. Il termine “fondi neri” non gli è mai piaciuto. Attorno alla metà degli anni 80, la Cdu contava 735 mila iscritti. Un apparato mastodontico, che andava controllato. Le sezioni regionali, le sottosezioni, tutte erano costantemente a caccia di soldi.

 

Spendevano e spandevano più di quel che avevano. “Eravamo sempre al verde”. E lui, quando poteva, foraggiava, anche perché non erano mai aiuti a fondo perduto: garantivano il controllo e l’obbedienza. Un sistema che gli sarebbe tornato molto utile anche nelle trattative internazionali. E’ vero, era stato Willy Brandt con la sua Ostpolitik ad aprire un dialogo con la Ddr, ma a fargli poi fare il passo decisivo (e fatale per il regime dell’est) era stato lui, Kohl. Nel settembre del 1987 aveva invitato Erich Honecker a Bonn per una visita di stato di quattro giorni. Già allora l’economia della Ddr faceva acqua da tutte le parti. Il cancelliere si era mostrato disponibile ad aiutare, ma voleva una contropartita. “Noi accordavamo un prestito miliardario, in cambio la Ddr apriva progressivamente sempre più le sue frontiere per permettere visite nella Germania occidentale. Fu il mio più grande successo in politica estera”. E anche Gorbaciov fu convinto a lasciar andare le cose per il loro corso, più che dalla perestroika, dai soldi. “I libri contabili dicevano a Gorbaciov che il paese era col culo per terra e che non poteva più tenere in piedi il regime”.

 

Potere e amicizia sono strettamente legati nel sistema Kohl. Per Gorbarciov però, i sentimenti del cancelliere non sono del tutto chiari, come si evince anche da questo giudizio piuttosto tranchant: “Quel che si ricorderà di Gorbaciov è che ha fatto piazza pulita del comunismo. Senza ricorrere alla violenza. Senza spargimenti di sangue. Tutto qui, o per lo meno, a me non viene in mente altro”. Molta più sintonia c’era tra lui e Boris Eltsin (nel quale un po’ si rispecchia). “Anche di lui era stata data un’immagine del tutto distorta. Era un uomo di grande intelligenza, con una sorprendente sensibilità politica quando si trattava di agire, e che, certo, non era molto schizzinoso nella scelta dei mezzi. (…) Da ubriaco era poi molto meglio di altri sobri”.

 

[**Video_box_2**]Dai “Kohl-Protokolle” esce un uomo ancora molto abitato da un complesso di inferiorità. Ma anche un uomo dotato di una notevole sensibilità. Kohl poteva dispiacersi del Nobel conferito a Willy Brandt, del fatto che “per la marmaglia, Brandt era diventato una sorta di santo, e io no”. Ciò nonostante nutriva per il collega sincera stima. Tanto che avevano continuato a vedersi regolarmente, per bere un bicchiere assieme e scambiarsi idee e punti di vista. Su alcuni argomenti condividevano la stessa posizione. Per esempio riguardo all’aborto. Kohl ricorda un incontro nel quale Brandt, alla domanda se fosse pro o contro l’interruzione di gravidanza, gli aveva risposto: “Herr Kollege Kohl, ha mai riflettuto cosa sarebbe stato di me, se mia madre l’avesse pensata come la pensa la maggior parte del mio gruppo parlamentare?”. Brandt è anche il protagonista di uno dei passaggi più toccanti dei “Kohl-Protokolle”. Kohl fu uno degli ultimi ad andarlo a trovare quando già era sul letto di morte. L’aveva chiamato Brandt. “Si stava spegnendo. Ormai non si alzava più dal letto. Ma quando arrivai, era vestito di tutto punto. Gli chiesi: ‘Herr Kollege Brandt, perché ha voluto alzarsi, perché ha voluto fare questo sforzo?’. E lui mi rispose: ‘Il mio Bundeskanzler non lo ricevo a letto’”.

 

In compenso nel partito sono pochi coloro che giudica amici. L’unico sul quale non infierisce è il suo delfino Wolfgang Schäuble. Anzi, ammette (autoriferito): “Senza volere, ho sbagliato, soprattutto a livello psicologico. Ma non è escluso che la mia sola esistenza costituisse un peso eccessivo per Wolfgang Schäuble”. Nei suoi giudizi sembra quasi meno duro con alcuni esponenti dell’opposizione. Come nel caso di Oskar Lafontaine, ex capo dell’Spd poi migrato nella Linke. Gli perdona di essere stato contrario all’unificazione “perché conosco la sua indole europeista… A unirci c’è poi la simpatia per la Francia”. I veri amici si trovano però prevalentemente all’estero. Primo tra tutti, il socialista ed europeista convinto Jacques Delors: “Un caro amico anche nei tempi bui”. Seguito a ruota da Ronald Reagan, un altro a suo avviso, “micidialmente sottovalutato. Tutti ritenevano Reagan un cretino, un attore e basta”. Ricorda il loro primo incontro, nel 1980. Reagan, che era uno dei candidati conservatori alla presidenza degli Usa, stava compiendo un giro promozionale in Europa. Helmut Schmidt, allora cancelliere, non aveva però trovato (“o voluto trovare”) il tempo per riceverlo. “E questo mi aveva così irritato, che l’avevo ricevuto io. E visto che il personaggio era interessante, era rimasto molto più del previsto. Mi ero accorto che non sapeva nulla di Europa, in compenso però sapeva ascoltare. Lui di quel mio gesto non si è mai dimenticato. E fu il mio biglietto da visita, quando infine venne eletto presidente degli Stati Uniti”. Ma fu anche l’inizio di un sodalizio che sarebbe culminato nella famosa frase pronunciata da Reagan il 12 giugno del 1987 davanti alla Porta di Brandeburgo: “Mr. Gorbaciov, open this gate! Mr. Gorbaciov, tear down this wall!”. Una frase entrata negli annali, come quella pronunciata da John F. Kennedy il 26 giugno del 1963 davanti al municipio di Berlin Schöneberg “Ich bin ein Berliner”. Ma anche il successore di Reagan, George H. W. Bush senior si rivelerà “un vero colpo di fortuna, per i tedeschi e per me”. Sarà lui a sostenere la battaglia di Kohl per l’unificazione quando Margaret Thatcher e François Mitterrand si mostrano troppo tentennanti.

 

Kohl era un uomo affascinato e forse anche posseduto dal potere. E lui stesso, parafrasando l’inizio della canzone di Mackie Messer nell’“Opera da tre soldi” di Brecht osserva: “Mostra i denti, il pescecane e si vede che li ha… Il fatto è che i denti bisogna saperli anche usare”. Kohl aveva imparato ad azzannare se del caso, ma non per questo aveva perso l’interesse per il genere umano. “Sono sempre stato curioso. Mi interessava sapere come la gente vive, soprattutto in certe situazioni”. Per questo, ai tempi in cui non era ancora cancelliere, di tanto in tanto si recava nella Ddr. Andava all’opera di Dresda e nell’Auerbachkeller, un noto locale di Lipsia. Si mischiava tra la gente, firmava autografi e faceva un sacco di domande. Nelle sue visite in Polonia si mette dalla parte dei contestatori del regime. E durante una visita nel gennaio del 1988 in Cecoslovacchia, pretende di incontrare anche il cardinale Frantisek Tomasek, “un personaggio di incredibile statura morale. I nazisti l’avevano sbattuto due anni in un lager, i comunisti poi per tre anni in un campo di lavoro”. E quando i governanti cecoslovacchi tentennano, minaccia di non scendere dall’aereo. L’incontro con Tomasek lo ricorda come fosse ieri: “Andammo da lui, una colonna di macchine bianche, tredici in tutto come da protocollo. E lì ad attenderci c’era questo uomo anziano, gracile, provato. Non lo scorderò mai, si aggrappava e piangeva come un bambino. Mi abbracciò e mi disse in un buon tedesco: ‘Lei è il primo uomo di stato occidentale che mi è venuto a trovare’”.

 

Thomas Schmid nel suo blog dedicato al “vero Kohl” inizia così : “Ci sono molti politici, ma solo pochi statisti. Cosa differenzia lo statista dal politico? Nel suo nuovo libro, dal titolo impegnativo ‘World Order’, Henry Kissinger, riferendosi al Cardinale Richelieu, risponde così. Uno statista deve ‘operare fino all’estremo del possibile, deve colmare lo spazio tra l’esperienza della sua società e le speranze, i sogni che questa nutre’. Se si usa dunque questo metro di misura, allora Helmut Kohl è senz’ombra di dubbio uno statista. Per ben due volte ha saputo colmare questo spazio: realizzando, nel momento giusto, l’unificazione tedesca; e imponendo – in questo caso forse non nel momento giusto – l’euro. E sono questi due fatti a farne una figura politica fuori dal comune”.

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