All’origine dei moti di Ferguson c’è una diffusa frustrazione. E, del resto, ben più della morte di Michael Brown, sono le proteste, i fuochi e i saccheggi a portare Ferguson all’attenzione nazionale

Un ammazzamento americano

Stefano Pistolini

Istantanee dei moti di Ferguson, dai sei proiettili sparati da un poliziotto, al circo dei media fino alla Woodstock della protesta afroamericana. Due i finali possibili.

Ferguson, Missouri sta diventando la Woodstock della protesta afroamericana. Dopo la morte del 18enne afroamericano Michael Brown, ucciso a colpi di pistola dal 28enne agente di polizia Darren Wilson e a causa della pessima gestione degli eventi da parte delle istituzioni locali, su questo sobborgo di St. Louis si sta riversando tutta l’America attivistica e non solo: studenti, agitatori, fricchettoni, pantere più o meno nere, perdigiorno, osservatori per hobby o professione, gang, curiosi e ovviamente il solito circo mediatico. Il finale è imperscrutabile: la situazione, coi suoi zigzaganti contraccolpi, potrebbe sfociare in un disastro. Oppure, ben pilotata, la storia potrebbe risolversi in un epilogo glorioso in stile hollywoodiano, “volemose bene e ripartiamo da qui”, salvo rimandare tutto al prossimo appuntamento. Ma ripercorriamo gli eventi, analizzandone alcuni possibili fattori scatenanti.

 

Dopo che diverse versioni sono emerse, ecco la più plausibile ricostruzione dei fatti: a mezzogiorno di sabato 9 agosto Michael Brown, un ragazzo corpulento di quasi due metri e il suo amico Dorian Johnson, 22 anni, camminano nel mezzo della carreggiata di Canfield Drive, a Ferguson, rallentando il flusso delle auto. Brown ha in mano una scatola di sigari, marca Swisher Sweets Cigars, del valore di 48 dollari, che ha rubato dieci minuti prima in un negozio di liquori sulla vicina arteria commerciale West Florissant Ave., dopo aver spintonato il padrone del negozio che cercava d’impedirglielo. Le telecamere di sicurezza hanno registrato le immagini del crimine e non ci sono dubbi che Brown ne sia responsabile. Alle 12,01 l’agente di polizia Darren Wilson, a bordo della sua auto, s’accosta ai due ragazzi e ordina loro di spostarsi immediatamente dalla carreggiata. A questo punto le versioni dei fatti divergono, ma è certo che Brown, rifiutandosi d’obbedire, si sia ulteriormente avvicinato alla macchina, iniziando una colluttazione con il poliziotto e infilando la testa nel finestrino, forse con l’intenzione di prendere l’arma dell’agente. Quel che è certo è che il primo colpo d’arma da fuoco viene esploso da Wilson ancora all’interno dell’autovettura, col risultato di allontanare Brown, che a quel punto (secondo diversi testimoni) alza le mani dicendo “Non sparare, non sono armato!”, mentre Johnson si nasconde dietro un’auto parcheggiata. L’agente Wilson – sei anni di servizio alle spalle, quattro di pattuglia a Ferguson – scende dall’auto e fa fuoco. La seconda autopsia sul corpo di Brown, effettuata domenica 17 agosto su richiesta della famiglia (i risultati della prima, effettuata dalla contea di St. Louis non sono noti), dal luminare Michael Baden (lo stesso dei processi a O. J. Simpson e a Phil Spector, convocato dall’avvocato della famiglia Benjamin L. Crump, lo stesso del caso Trayvon Martin) stabilisce che sei colpi raggiungono Brown, quattro al braccio destro, e due alla testa, quello fatale con una traiettoria che penetra dall’alto (quindi probabilmente esploso mentre il ragazzo sta proiettandosi verso l’agente). Tutti i colpi vengono esplosi frontalmente, nessuno da distanza ravvicinata. In pochi secondi si raduna una folla. Wilson viene scortato via dai colleghi e, una volta constatato il decesso di Brown, il cadavere resta sul selciato per quattro ore e mezzo, senza un lenzuolo a ricoprirlo. La scintilla della protesta si accende subito: l’atteggiamento della polizia è inspiegabilmente lento e distaccato, al limite della provocazione. Per ore c’è solo il cadavere di un ragazzo in una pozza di sangue, il nastro giallo a circoscrivere la scena e gli agenti a presidiarla. Un tempo sufficiente a far montare la prima rivolta. Chi ha sparato e perché, dal momento che Michael non ha armi con sé? “Il numero di bossoli sparati e le ferite sul corpo di Brown, sono la dimostrazione del disprezzo dell’agente nei confronti della comunità al servizio della quale prestava la sua opera” dice l’avvocato Crump. “Questo caso riguarda l’esecuzione di un giovane disarmato da parte di un agente di polizia”. Il passaparola corre, mentre la comunicazione latita. Il cadavere di Brown viene rimosso quasi alle cinque. Quando scende la sera cominciano le proteste. Marce estemporanee, slogan, cartelli, sassaiole contro le vetrine, fuochi stradali, piccoli saccheggi. L’inadeguatezza di quelle ore è fatale: nessuna spiegazione, nessun provvedimento, nessuna chiarezza nella condotta delle forze dell’ordine. In più, la reazione ai primi disordini è frontale. Si offre subito una dimostrazione di forza.

 

Fermiamoci. Alcune dati accessori indispensabili. I precedenti, ad esempio. L’ultimo è quello di Trayvon Martin, ucciso il 26 febbraio del 2012 a Sanford, Florida. Un vigilante volontario, George Zimmerman, s’insospettisce per la sua presenza in un’area residenziale, lo affronta fisicamente e lo uccide senza motivazioni. Viene fermato ma non trattenuto dalla polizia. La mobilitazione provocata da alcuni leader della comunità nera, accende una protesta nazionale che induce Obama, appena rieletto, a scendere in campo con un discorso ad alto impatto emotivo (“Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato come Trayvon”) che sensibilizza il paese sulla necessità di una giustizia integra, applicata con imparzialità. Diciassette mesi dopo Zimmerman viene assolto dall’imputazione di omicidio, in applicazione della legge della Florida sull’autodifesa “Stand on Your Ground”.

 

La location: St. Louis non è la Florida, ha una diversa tradizione di coinvolgimento sociale. St. Louis ha un percorso complesso nella questione razziale, è stata una tappa di passaggio della migrazione verso nord dei neri in cerca di lavoro nelle fabbriche di Detroit e Chicago. Lo stesso stato del Missouri affonda le proprie radici tanto nel Midwest che nel sud. St. Louis, in precedenza, non è mai stati teatro di riot razziali. Ferguson è parte della cerchia interna dei sobborghi di St. Louis e presenta dati demografici in rapida evoluzione: nel 1990 era abitato dal 74 per cento di bianchi, nel 2000 dal 52 per cento di neri, nel 2010 dal 67 per cento di neri. I bianchi se ne vanno, ma mantengono intatto il potere sul territorio, a dispetto dell’impoverimento generale dell’area. Sotto il loro controllo sono tutti i contratti municipali, il sindaco è bianco, cinque membri su sei nel consiglio comunale sono bianchi. Solo tre dei 53 agenti della polizia cittadina sono neri. In tv i residenti di Ferguson parlano di latente tensione a sfondo razziale, indirizzata verso la polizia, troppo zelante quando si tratta di perseguire i giovani afroamericani. Michael viene ucciso da un poliziotto bianco al culmine di un esercizio di controllo dell’ordine pubblico improntato a particolare aggressività. Una violenza spiegabile solo con un atteggiamento prevenuto per motivazioni razziali. All’origine dei moti di Ferguson c’è dunque una diffusa frustrazione. E, del resto, ben più della morte di Michael Brown, sono le proteste, i fuochi e i saccheggi a portare Ferguson all’attenzione nazionale.

 

Di nuovo i fatti. La condotta del locale dipartimento di polizia, dopo il fatto di sangue è disastrosa. Da sabato 9 a venerdì 15, l’identità dell’agente Warren viene tenuta segreta, esacerbando gli animi dei cittadini. La rabbia monta istantaneamente, principalmente grazie ai social network, che giocano un ruolo-chiave, inaugurato dalla diffusione del video di 10 minuti che mostra il corpo insanguinato di Brown in mezzo ad agenti indifferenti. In reazione alle prime proteste vengono schierati mezzi eccezionali, blindati, armi ad alto potenziale, squadre in tenuta antiterrorismo, un dispiegarsi di tecniche di contenimento che somigliano a una prova di forza. Per le strade fa la sua comparsa, con la collaborazione della St. Louis Metro Police, un apparato militare che poco ha a che vedere con l’idea di una polizia nell’atto di contenere una rivolta popolare. I risultati sono disastrosi: dalla notte di domenica e con maggiore intensità nelle giornate di lunedì e martedì, si susseguono scontri, saccheggi, incendi e disordini. Finiscono sotto accusa anche gli atteggiamenti contro gli addetti dell’informazione giunti sul posto, culminati con il fermo di due giornalisti, Wesley Lowery del Washington Post, and Ryan Reilly dell’Huffington Post. La vicenda nel frattempo assume i contorni di una questione nazionale, provocando mercoledì 13 l’intervento del governatore democratico del Missouri Jay Nixon che, a fronte dell’inefficacia delle misure messe in atto, solleva dalla missione il comandante della polizia locale Jackson, sostituendo lui (un bianco) e i suoi uomini, con le truppe della polizia stradale guidate dal capitano Ronald Johnson, un nero nato e cresciuto a Ferguson.

 

Se l’atteggiamento della polizia è stato di elevare il livello dello scontro, attivando un presidio della zona dai toni intimidatori e costellato di interventi repressivi, Johnson veste i panni del mediatore e imbocca la via del dialogo. L’aria del “diamo una lezione” ha esacerbato gli animi e reso incandescente la crisi sociale, ma ora, su indicazione del governatore, Johnson cerca di dare un “tono diverso” alle operazioni. Giovedì 14 è il presidente Obama a prendere la parola, interrompendo le vacanze a Martha’s Vineyard: invoca la cessazione di ogni violenza, sia da parte dei protestanti, che della polizia. Chiede l’immediata pacificazione delle strade di Ferguson e la cessazione dei vandalismi, ma afferma che le autorità hanno la responsabilità d’essere trasparenti riguardo al proprio operato e in particolare in relazione alla morte di Michael Brown. Non ci sono scuse per i saccheggi e non ci sono scuse per l’eccessivo uso della forza contro le dimostrazioni pacifiche. E l’informazione non può essere messa a tacere, come prescrive il primo emendamento. Nel complesso, Obama appare meno emotivo e coinvolto che in occasione del caso di Trayvon Martin, limitandosi a pretendere la pacificazione, senza spingersi troppo avanti nella ricerca delle cause. Il ministro della giustizia, l’afroamericano Eric Holder, in prima linea nella questione razziale, focalizza la questione: “In un momento in cui è necessario ristabilire il rapporto fiduciario tra le forze di polizia e le comunità, è preoccupante assistere a una simile ostentazione di forza, che manda un messaggio conflittuale alla popolazione”.

 

E’ il momento dei politici: la senatrice Warren, democratica popolare tra i radical, dice che nessuna città d’America può somigliare a una zona di guerra. Più interessante l’intervento del senatore repubblicano del Kentucky Rand Paul, futuro concorrente alle primarie presidenziali, che su Time scrive di “immagini di Ferguson che ricordano più un conflitto che una tradizionale azione di polizia”. Paul chiama in causa l’esperto militare Glenn Reynolds, il quale attesta la crescente militarizzazione della polizia, laddove si suppone che “soldati e poliziotti dovrebbero essere due cose diverse e che la polizia è chiamata a proteggere i cittadini dai criminali, mentre oggi sembra agire secondo logiche militari”. Paul conclude sostenendo che oggi esiste un problema sistemico con le forze dell’ordine, sospinte dalle pressioni governative in direzione della militarizzazione, fino a farne piccoli eserciti locali, motivando il tutto con la guerra alla droga e al terrorismo. Il passo successivo a questa militarizzazione, è l’erosione delle libertà civili. Date le disparità razziali ancora presenti in America, conclude Paul, è inevitabile che gli afroamericani si sentano il bersaglio di un simile processo, dal momento che è difficile contestare l’idea che la razza continui a giocare un ruolo determinante nell’applicazione della Giustizia. Un intervento elettoralistico il suo, indirizzato a stuzzicare le simpatie di neri e latini, determinanti nelle prossime elezioni e che si acoderanno al candidato che meglio si proporrà come paladino dei loro interessi. Ma anche dimostrazione di una capacità d’intuire il cambio di direzione che il posizionamento repubblicano oggi richiede, rispetto a un elettorato che cambia – come fece 22 anni fa il semisconosciuto Bill Clinton, mettendosi in polemica con l’atteggiamento tradizionalmente permissivo dei democratici verso il problema della criminalità afroamericana.

 

Di nuovo, i fatti. Ferragosto è il giorno delle chiarificazioni. L’avvocato della famiglia Brown offre un ritratto di Michael come di un bravo ragazzo, appena diplomato, in procinto di entrare al college. Sottolinea come un giovane nero oggi venga automaticamente considerato un potenziale criminale, senza che gli venga accordato quel beneficio del dubbio, su cui può sempre contare un coetaneo bianco. La carta della razza è sul tavolo. Ma è la conferenza stampa del comandante della polizia Jackson, la vera sorpresa. Jackson si dilunga sulla rapina dei sigari all’emporio, mostra il video della telecamera di sicurezza e lascia intendere che l’agente Wilson (del quale finalmente rivela l’identità) fosse consapevole del gesto delinquenziale appena compiuto da Brown, gettando una luce diversa sull’immagine e sulla condotta del diciottenne. In pratica ipotizza che Wilson abbia tentato di fermare il ragazzo, una volta ricevuta la segnalazione del furto. Paradossalmente, poco dopo la conferenza stampa del poliziotto bianco Jackson, va in scena quella del poliziotto nero Johnson, che dice candidamente cose diverse, ovvero di non essere stato informato dell’intenzione della polizia di mostrare il video, ribadendo la solidarietà verso la famiglia colpita e chiedendo che la pace ritorni a Ferguson: “Stiamo attenti a non bruciare la nostra stessa casa”, dice. Le reazioni sono negative: i dimostranti per una settimana hanno atteso di conoscere l’identità dell’agente che ha sparato a Michael e, quando ciò è avvenuto, hanno assistito a un’istruttoria ai danni del ragazzo morto. Gli avvocati non usano mezzi termini e parlano d’attenzione deviata: “Una messinscena fatta di fumo e specchi” dice Crump. Scenario aggravato dal fatto che il comandante Jackson, poco dopo ammetta che in effetti l’agente Wilson non era a conoscenza della rapina compiuta da Brown.

 

Il capitano Johnson prova ad ammorbidire la presenza sul territorio delle truppe antisommossa: via le maschere antigas, blindati parcheggiati lontano dai cortei. Incoraggia il contatto tra agenti e cittadini: “E’ un nuovo inizio, una nuova collaborazione”, dichiara. Ma sabato 16 agosto, la situazione peggiora nuovamente. La cattiva gestione della comunicazione da parte delle autorità, provoca il riacutizzarsi delle proteste e dei vandalismi. E’ evidente l’assenza di un vero leader, capace di canalizzare la protesta, mentre crescente è lo spazio preso dai malintenzionati che approfittano della situazione di caos.

 

In città si rivede il reverendo Jesse Jackson, veterano d’innumerevoli scenari del genere, ma la sensazione è che più che altro sia alla ricerca della luce dei riflettori mediatici. Il governatore Nixon, visto il deteriorarsi della situazione, ordina il coprifuoco dalla mezzanotte alle cinque del mattino: “Se vogliamo giustizia, dobbiamo avere pace. Non possiamo permettere che un pugno di criminali mettano a repentaglio la sicurezza della comunità”. Johnson prova a mitigare il provvedimento: “Non ci saranno blindati in giro, ma è tempo d’andare a casa”. Il suo appello non sortisce effetto: sotto una fitta pioggia estiva, la notte di sabato vede nuovi saccheggi e disordini. Colpi di pistola vengono esplosi all’indirizzo di una pattuglia che risponde al fuoco: resta a terra una donna, ferita gravemente. L’emporio dei videotape viene bruciato. Piovono lacrimogeni e i dimostranti gridano: “Siamo tutti Michael Brown”. La notte di domenica 17 le cose vanno peggio: si moltiplicano le sparatorie, fanno la loro comparsa dozzine di bottiglie molotov, in città arriva gente appositamente per infrangere le regole imposte, nel nome della protesta. Ci sono 7 arresti. La polizia spara candelotti contro una folla di 400 manifestanti. Il governatore Nixon decide per l’invio della Guardia nazionale, denunciando atti criminali commessi da “individui organizzati”. Dal dipartimento di Giustizia, Eric Holder ordina una terza autopsia indipendente sul corpo del giovane ucciso. Il padre di Michael appare in tv con una maglietta nera con la scritta “No Justice”. “Chiediamo solo giustizia” ribadisce l’avvocato Crump. Obama mette la fedelissima Valerie Jarrett alle calcagna di Nixon per controllare la qualità dei suoi provvedimenti: “Se una situazione del genere s’arroventa, il presidente vuole una linea diretta con gli eventi” spiega la Jarrett, ribadendo la sintonia di Obama sulla delicata tensione tra razza e giustizia. Quaranta agenti dell’Fbi arrivano a St. Louis per supervisionare la vicenda. Che diventa una partita a scacchi nella quale s’intrecciano questioni politiche, guerre culturali e temi su cui è urgente una riflessione approfondita.

 

Un breve elenco, evitando i buoni propositi d’occasione? La riflessione sul tema della povertà oggi in America, nei suoi dati reali, nelle sue concentrazioni e negli effetti che ne sortiscono. La riflessione sulla militarizzazione delle forze di polizia, le motivazioni economiche e di sicurezza alla base del procedimento e i suoi effetti. La crisi di rapporti tra minoranze razziali e polizia. Perché la protesta di Ferguson non è contro i bianchi, ma è contro la polizia, i metodi e le logiche che la governano. La riflessione sul tema del racial profiling, che regola gli interventi polizieschi contro i giovani afroamericani, sulla base dello stereotipo del giovane nero delinquente. Un esame di coscienza della stessa comunità nera in relazione ai dati di violenza e crimini che la piagano, spia di un diffuso malessere. In sostanza, un proliferare di oggetti di discussione, all’insegna di un’imperfezione sociale tutt’altro che lieve. Ma intanto bisogna spegnere il fuoco a Ferguson. E poi, dal giorno dopo, non fingere che tutto va bene. Tenendo a bada le ipocrisie e provando a capire come tutto ciò si rifletterà sulla nuova America che comincia a delinearsi, mentre le campagne elettorali già stanno approntando i loro accampamenti.