Poliziotti durante la sparatoria di giovedì notte a Dallas (foto LaPresse)

La notte di Dallas e l'America divisa

Stefano Pistolini
Cinque poliziotti uccisi e sei feriti da un commando durante una manifestazione contro le uccisioni di afroamericani a Dallas. Obama parla di crimine "senza giustificazioni" e promette giustizia. Ma il patto americano che arginava l'odio sembra essersi rotto sotto la sua presidenza. Cosa accadrà allo scintillare della prossima miccia?

La commedia dell’assurdo dell’informazione americana ha preso forma ieri, creando una discrepanza straniante per chi fa questo lavoro: mentre i giornali e i siti web si popolavano di articoli che condannavano con esasperazione le ultime cronache relative a cittadini afroamericani uccisi dalle forze di polizia in circostanze sempre più inspiegabili – spia di una escalation turgida di nevrosi e d’imponunciabili motivazioni, perché è il “non detto” il fattore-x di questa tragedia nazionale – e mentre accademici e commentatori stendevano editoriali di chiamata all’allarme sociale per gli ammazzamenti di Alton Sterling e Philando Castile, che allungavano un elenco infinito, la vicenda ha prodotto in proprio un salto di qualità così drammatico da far pensare che da domani l’America potrebbe non essere più la stessa. Ora ci sono gli 11 poliziotti colpiti a Dallas, di cui cinque deceduti, in un’azione di rappresaglia che relega nelle pagine interne le marce di protesta, le veglie e gli appelli presidenziali, e sposta il discorso sul piano della guerra civile significando che la latenza è divenuta una deflagrazione.

 



Un testimone, Michael Bautista, ha filmato un momento della sparatoria

 

C’è la reazione selvaggia ad anni d’inammissibile distinzione nella condotta delle forze di polizia nei confronti dei bianchi e dei neri, tollerata se non incoraggiata dalla maggioranza silenziosa, circondata dal cincischiare incerto dei politici, dalla differenza tra le dichiarazioni ufficiali e il pensiero diffuso, dall’incapacità di arginare lo stile di comportamento di un’inquietante percentuale degli agenti che oggi agiscono in uno stato d’assedio non dichiarato ma praticato. C’è la paura nell’aria calda dei quartieri neri delle grandi città americane: geografia di uno scontro sul punto d’esplodere, che presuppone sviluppi inconsulti, ora che il diaframma della violenza reciproca è rotto – con effetti così vasti da essere incontrollabile e con una tale esacerbata polarizzazione da rendere vane le parole dei leader.

 

Da Varsavia, dove si trova per il vertice Nato, Obama ha parlato di un attacco  “feroce, premeditato e orribile”. Ha parlato di un gesto che non può trovare alcuna giustificazione e ha promesso che sarà fatta giustizia. Ma questa vicenda e i suoi imprevedibili sviluppi minacciano ora di diventare la più amara e dolorosa delle sconfitte, a marchiare d’intima, personale vergogna il suo secondo mandato presidenziale, flagrante sintomo del fallimento su quel tema dell’unità e del reciproco riconoscimento nel nome del quale era cominciata l’ascesa del primo presidente nero d’America. Le cose non solo non sono migliorate, ma non sono “accadute”. Non c’è stato nemmeno l’inizio di quel procedimento d’ammissione e di annessione della diversità razziale come fattore identitario americano, finalmente reso reciproco, assimilato, condiviso. Tutt’altro: ciò che è avvenuto, solo ripercorrendo i fatti da Ferguson a oggi, da Michael Brown nell’estate 2014 sull’asfalto di quel sobborgo, attraverso i 123 afroamericani uccisi dalle forze dell’ordine nei primi 6 mesi di quest’anno, parlano di un imbarazzo permeato di ostilità, di scuse malamente mormorate, di tribunali che assolvono e giustificano condotte inspiegabili se non con la palese logica dell’odio, del razzismo, del sospetto, dell’aggressione. Ora però, tutto ciò, insieme agli appelli rassegnati, alla consapevolezza dell’impotenza, ai discorsi teorici sul “corpo nero minacciato” che hanno prodotto nuovi, potenti divismi intellettuali, come quello incarnato da Te-Nehisi Coates, inane profeta della sventura vista dal ventre delle balena, tutto ciò è stato spazzato via.

 



Obama che in queste ore si trova a Varsavia ha tenuto un breve discorso sulla strage di Dallas

 

E nelle ore in cui qualche americano di buona volontà si sorbiva l’ennesimo editoriale volenteroso (“Quando finiranno gli ammazzamenti?” si chiede nell’op-ed di ieri il corpo redazionale del “New York Times”), i colpi dei cecchini che hanno cominciato a eliminare senza pietà i corpi (questa volta blu) degli agenti di polizia del Texas, disseminati sulla strada di Dallas. Il mandato fiduciario alle istituzioni è stato ritirato: ora si spara, la parola passa ai fucili secondo la logica della rappresaglia. Un’agghiacciante presa di posizione, della quale sarebbe ancora più agghiacciate verificare il tasso di approvazione all’interno della comunità afroamericana. E allora, se da una parte si sono giustificati, con un’alzata di spalle o perfino un cenno d’ammirazione, le miserabili esecuzioni di cittadini inermi, condannati dal loro colore di pelle, sterminati nel nome di una sopraffazione se non autorizzata, almeno consentita, e se adesso 40 milioni di afroamericani sanno che tra di loro c’è chi sta producendo una selvaggia giustizia popolare, una vendetta diretta, una legge della giungla, a cosa possono ora servire le parole dei leader, degli intellettuali, dei reverendi, dei politici e dei presidenti?

 

Con una deriva implacabile, sembrerebbe che l’America, anche quella dei grandi numeri, torni a dividersi, come nel momento più tragico della sua storia, quello dello scontro fratricida sulla vergogna della schiavitù. Che abbia tracimato verso una logica di sottomissione e repressione e abbia permesso la serializzazione dello smacco impunito, d’una razza ai danni di un’altra. Fino a provocare la rottura del patto. Ecco: ora siamo di fronte alla diga spaccata, con le acque limacciose dell’odio che cominciano a fluire, trascinando con loro i primi cadaveri. Non resta che la fretta, la chiamata a raccolta, il gesto esemplare. Ma basterà? E quanto a lungo? E che accadrà allo scintillare della prossima miccia? Quali parole verranno pronunciate, o non pronunciate, a questo riguardo nella furibonda convention repubblicana, che sta per andare in scena a Cleveland? Quali intromissioni, mostruose contaminazioni, potrà partorire il terrorismo interno, decidendo d’innestarsi su questa matrice d’instabilità e di colpe? Una delle estati americane psicologicamente più torride sta appena cominciando a rivelare la sua agenda, le sue cronache, le sue chiamate a responsabilità e soprattutto la necessità improrogabile di rispondere a domande che, mai come in questo caso, hanno un valore originale, irrinunciabile e, semplicemente, costituzionale.